L’impeto con il quale il presidente della Repubblica Abdullah Gul ha apostrofato i “sionisti”, intimandogli di smetterla di “scherzare col fuoco”, in riferimento ad una incursione della polizia israeliana nel complesso della moschea di Al-Aqsa, è indice di un profondo mutamento nella politica estera della Turchia. Schierandosi a difesa di uno dei luoghi più sacri per l’Islam, Gul dà la misura di quanto il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) abbia modificato la percezione dell’identità turca.

Al contrario di quanto Mustafà Kemal Ataturk aveva previsto nel 1923, quando venne fondata la Repubblica di Turchia, l’elemento islamico torna a caratterizzare l’identità turca. Il laicismo imposto da Ataturk per perseguire la “modernizzazione attraverso l’occidentalizzazione” non era un rifiuto in toto della religione islamica. Essa veniva relegata alla sfera privata. In quella pubblica, le scelte politiche dovevano essere separate da precetti religiosi, incapaci, secondo Ataturk, di conferire il necessario slancio al progetto nazionale turco. Così facendo, la moderna Turchia si è trovata ad abdicare la propria identità naturale di stato islamico per assumerne una più occidentale. Predisposizione che ha fatto della Turchia uno stato ambivalente dal punto di vista identitario. Diviso tra una popolazione a forte connotazione islamica ed una elite che, seppur osservante la religione islamica, doveva abbandonare i sentimenti religiosi per perseguire l’ideale di occidentalizzazione. Doppiezza che ha trasformato la Turchia in uno “stato in bilico” dal punto di vista del riconoscimento identitario.

Inevitabilmente, questa condizione del tutto particolare ha avuto riflessi nella politica estera turca. Durante la Guerra Fredda, la sua adesione al blocco occidentale (formalizzata con l’ingresso nella NATO del 1952), ha chiarito quale fosse l’obiettivo primario della Turchia in quella determinata fase storica. La penisola anatolica si poneva come argine all’influenza sovietica. Il contrafforte sud-orientale dell’Europa, che diveniva con l’ingresso nella NATO parte integrante del sistema difensivo occidentale. Lo schieramento sul versante euro-atlantico della Turchia è sempre stato sostenuto dalle elite militari, in quanto completamento del kemalismo. Di fatti, il coinvolgimento dei militari nella politica turca è stato centrale dalla nascita della repubblica. Da sempre fautori del principio di “modernizzazione attraverso l’occidentalizzazione”, i capi militari si sono posti come difensori del kemalismo puro, intervenendo direttamente nella politica turca per ben due volte. La prima nel 1961, quando con un colpo di stato si impadronirono del potere, fondando la seconda Repubblica Turca con una nuova costituzione ispirata a quella originaria di Ataturk, modificata più volte nel corso del tempo. Lo sviluppo turco, tanto rapido quanto aggressivo, aveva comportato una forte inflazione ed una situazione economica insostenibile. Inoltre, dato il sistema partitico pluralista, iniziavano a farsi strada formazioni politiche di ispirazione islamica invise agli ambienti militari. Sotto la spinta della nuova costituzione il processo di occidentalizzazione venne rilanciato, ma non placò la recrudescenza dello scontro politico anche a causa della sfrenata politica nazionalista e liberista di Suleyman Demirel, primo ministro fino al 1971, anno delle sue dimissioni per insanabili conflitti con i militari. Nonostante questi sconvolgimenti interni, la Turchia non mise mai in discussione la sua appartenenza alla sfera statunitense durante la Guerra Fredda e questo le consentì perlomeno di essere considerata cruciale nei rapporti con l’altro blocco in qualità di security producer. Il ruolo della Turchia sino agli anni Settanta fu determinante, dapprima per la strategia del containment e poi per i rapporti con il Vicino Oriente. In seguito alle dimissioni di Demirel, la Turchia non riuscì a creare una maggioranza stabile, con gravi ripercussioni sui rapporti con la Grecia già deteriorati a causa della questione di Cipro. L’intervento militare turco nell’isola provocò una ulteriore serie di scossoni interni che culminarono con un nuovo colpo di stato militare nel 1980. Il primo ministro militare, Kenan Evren, riuscì a rimediare al caos politico riportando la situazione sotto controllo soltanto nel 1982 e dando inizio ad un nuovo ciclo di democratizzazione attraverso libere elezioni.

Il passaggio dal governo militare a quello civile nel 1983 è uno snodo fondamentale per la politica estera turca. Turgut Ozal, economista della Banca Mondiale e fondatore del Partito della Madrepatria assunse la carica di primo ministro nel 1983, ed operò una profonda azione di cambiamento della Turchia attraverso la riscoperta dell’eredità imperiale e soprattutto della sua connotazione islamica. Il tentativo di Ozal mirava a riproporre la Turchia come stato musulmano, mantenendo disgiunta la religione dall’esercizio delle funzioni statali, ma affermando con chiarezza in quale ambito identitario si riconoscesse la Turchia. Il riconoscimento dell’identità islamica da parte di Ozal non era affatto in antitesi con il posizionamento internazionale della Turchia. Anzi, l’obiettivo di Ozal era quello di dare maggiore solidità alla scelta atlantica attraverso il riconoscimento del proprio passato per avvalorare la tesi della Turchia come elemento di contatto con le realtà vicino-orientali. In più, la politica estera di Ozal è stata fin da subito rivolta ad una maggiore integrazione nelle istituzioni europee. Tuttavia, gli equilibri di potenza della Guerra Fredda hanno pesantemente condizionato il pieno sviluppo delle linee di politica estera del primo ministro. Con Ozal, l’assetto internazionale della penisola anatolica viene messo in discussione, senza arrivare ad un distacco formale dal blocco occidentale. Una linea che si accentuerà con il crollo dell’Unione Sovietica, quando, libera dai rigidi schemi imposti dalle superpotenze, la Turchia inizia un lento e faticoso riposizionamento internazionale trovando nell’Alleanza Atlantica non più la naturale collocazione, ma solo una delle tante possibili. Nonostante il tentativo di proporsi in una nuova veste, i rapporti con i vicini non si sono chiariti sin da subito. Sul piatto della bilancia pesavano i rapporti con la Grecia che rimarranno ancora molto tesi fino alla fine degli anni Novanta. Anche i contatti della Turchia con la Siria negli anni Novanta non sono stati particolarmente distesi. In particolare, i finanziamenti siriani al Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk) non hanno facilitato i rapporti tra Ankara e Damasco, che sotto la minaccia di un invasione turca ha cessato immediatamente di sostenere gli uomini di Ocalan accettando le condizioni di Ankara con la firma dei protocolli di Adana nel 1998.

Il contesto internazionale in cui la politica estera turca si muove negli anni Novanta è profondamente mutato rispetto a quello dei decenni precedenti in cui il ruolo turco era molto ben definito. L’instabilità dell’area caucasica e del Vicino Oriente dopo il collasso dell’Unione Sovietica hanno trasformato lo stato turco in un security consumer, inserito dal punto di vista geopolitico in due quadranti molto instabili: quello caucasico e quello vicino-orientale. Il venir meno del suo ruolo di contrafforte rispetto all’avanzata sovietica ha aperto la strada ad una nuova inclinazione della Turchia, volta alla ricerca di una maggiore sicurezza impegnandosi anche nella stabilizzazione delle aree di crisi. Le èlite anatoliche percepirono che la fine della Guerra Fredda ed il nuovo ordine mondiale rischiavano di imprigionare la penisola anatolica in un progetto di rinnovamento soltanto nazionale, con il corollario di una politica estera inefficace poiché ancorata ad una coalizione che aveva esaurito il suo compito e quindi privato la Turchia della sua funzione primaria.

Il cambiamento di prospettiva della politica estera turca è stato lento e faticoso. Iniziato con Turgut Ozal a partire dal 1983 ha trovato una propria quadratura con l’esperienza del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) al governo dal 2002. In politica estera l’Akp si è subito inserito nel solco di quei cambiamenti avvenuti negli anni immediatamente precedenti. Le nuove linee della politica estera turca a partire dal 2002 non si sono rivolte soltanto all’Occidente, ma anche e soprattutto ai suoi vicini orientali ed alla Russia. L’opera di “penetrazione” nel Vicino Oriente si deve essenzialmente alle teorizzazioni di Ahmet Davutoglu, studioso di Relazioni Internazionali ed attuale ministro degli Affari Esteri della Turchia. Secondo Davutoglu, la Turchia è uno stato i cui mezzi permettono di puntare all’autosufficienza politica in ambito internazionale. Ossia, non bisogna rimanere ancorati ad alleanze stabili, ma vagliare tutte le possibilità che i rapporti internazionali offrono per cercare di sviluppare al massimo i propri interessi. La teoria della “profondità strategica” di Davutoglu ha contraddistinto tutta l’azione dei due governi di Recep Tayyip Erdogan. La ricerca della “profondità strategica” attuando una politica estera multidirezionale ha il suo punto di partenza nella riscoperta del proprio ruolo nel Vicino Oriente e nel Caucaso, zone nelle quali la Turchia potrebbe fungere da elemento stabilizzatore. L’impegno del primo governo Erdogan nel rinforzare la Turchia sotto un profilo internazionale si è concretizzato soprattutto con la normalizzazione dei rapporti con i propri vicini, tra cui Grecia e Siria. Con Atene il nuovo governo turco ha avviato a partire dal 2004 una serrata cooperazione per risolvere la questione cipriota partendo proprio dal piano risolutivo proposto dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Con la Siria, in seguito alla firma dei protocolli di Adana, le relazioni sono andate via via strutturandosi e normalizzandosi permettendo anche una serie di contratti economici tra i due paesi: lo stesso vale per Turchia e Iran. Tuttavia, la cooperazione con il vicino iraniano va al di là delle semplici questioni economiche in quanto a coinvolgere i due stati in un impegno comune è la questione dei Curdi e la loro rivendicazione di uno stato autonomo che andrebbe, per forza di cose, a ledere la sovranità della Turchia e dell’Iran. L’avanzata in Vicino Oriente ha quindi contribuito a rafforzare il ruolo della Turchia anche in funzione diplomatica per le questioni riguardanti il Caucaso. Il progressivo impegno per i negoziati con l’Armenia per la normalizzazione dei rapporti diplomatici e le continue offerte di mediazioni (in ultimo l’offerta di mediare tra Russia e Georgia nel conflitto dell’estate 2008), ha portato la Turchia ad essere uno dei partner strategici più importanti della Russia, che guarda ad Ankara anche come terminale dei flussi energetici verso l’Europa. Infatti, la posizione geografica della penisola anatolica, a cavallo tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, la rende uno snodo fondamentale per il flusso di energia. La Turchia infatti è il secondo hub energetico (dopo la Russia), in cui convergono alcuni dei gasdotti più importanti per l’approvvigionamento dell’Europa. Il suo ruolo di fulcro energetico, lungi dal costituire motivo di scontro, ha anzi rappresentato l’occasione per avviare una politica di dialogo e cooperazione con Mosca, cosa che ha in qualche modo allentato i rapporti con l’alleato storico: gli Stati Uniti. Non è un caso infatti che proprio in queste settimane la Camera dei Rappresentanti abbia votato una risoluzione per riconoscere il “genocidio degli Armeni” del 1915. In uno schema di relazioni così complesso, con le sempre più strette relazioni che intercorrono tra Ankara e Mosca, la scelta di Washington appare un’arma di pressione per strappare Ankara dall’abbraccio di Mosca, che comporterebbe un accresciuta influenza russa sull’area vicino-orientale e caucasica. Gli sbocchi dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyan ed il gasdotto Nabucco sono centrali nella strategia statunitense per alleggerire il peso energetico della Russia verso l’Europa. Il gasdotto Nabucco, attraversando Balcani e terminando in Austria, Germania e Repubblica Ceca, permette di bypassare la Russia. Indebolire il peso di Mosca nei flussi energetici é prioritario per gli Stati Uniti, ma l’allontanamento progressivo della Turchia da Washington e Tel Aviv, iniziato con il rifiuto della richiesta statunitense di utilizzo delle basi militari per l’invasione dell’Iraq, potrebbe accrescere questo peso. Di conseguenza, la decisione di votare a favore della mozione sul genocidio armeno risulta essere una azione di moral suasion sulla Turchia per allontanarla da Mosca.

Ma il Vicino Oriente rimane il banco di prova privilegiato per l’efficacia dell’azione internazionale della Turchia. Il cambiamento di prospettiva seguito all’arrivo dell’Akp al governo ha visto anche il disancoramento turco dalla causa israeliana. Durante la Guerra Fredda l’appartenenza alla NATO, e quindi l’alleanza con gli Stati Uniti, comportava un impegno turco anche in favore di Israele che si concretizzava in esercitazioni militari comuni e collaborazione tra le forze armate. Durante gli anni Novanta, il partito kemalista sottoscrisse numerosi accordi commerciali con Tel Aviv. Le violenze perpetrate dagli israeliani nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, hanno però portato i governi di Erdogan ad esprimere una ferma condanna delle azioni militari israeliane, esprimendosi a favore del popolo palestinese. Le parole di Erdogan, che definì “terrorismo di stato” l’operazione Piombo Fuso, rende il senso di quanto le relazioni tra i due paesi si siano deteriorate negli ultimi anni. Va ricordato però che nonostante la Turchia dell’Akp abbia sposato in pieno la causa dei palestinesi e sia diventata uno dei principali sostenitori della “soluzione a due stati”, Ankara si è offerta di fare da mediatore per cercare di far ripartire i negoziati tra i due paesi. Il fallimento del tentativo turco è stato fragoroso: palestinesi ed israeliani non hanno compiuto alcun passo in avanti rispetto alla situazione pre-esistente e gli assetti politico-diplomatici non sono mutati, come dimostrano le dichiarazionie di Gul sulla moschea di Al-Aqsa.

Eppure, nonostante la chiara prevalenza della politica di coinvolgimento dei propri vicini, la Turchia non ha abbandonato la strada occidentalista. Al contrario, questa sembra essersi ridefinita ancora una volta dopo il periodo di incertezza degli anni Novanta, in senso più europeista. Nel 1999, il summit di Helsinki ha conferito lo status di paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea alla Turchia. Dal 2002, anche l’Akp ha perseguito la strada dell’adesione all’Ue considerandola come una sola delle possibili declinazioni della propria politica estera. Nel 2004 il Consiglio dell’Unione Europea si è espresso favorevolmente riguardo all’ingresso della Turchia nell’Ue, avviando le procedure per l’allargamento che si basano su tre presupposti: realizzazione di una democrazia matura e rispetto dei diritti umani; libero mercato funzionante; ricezione dell’acquis comunitario, ovvero il complesso di norme che regolano il funzionamento dell’Unione. Stando all’ultimo rapporto annuale sull’allargamento dell’Unione, la Turchia sarebbe in ritardo nel soddisfacimento di tali requisiti, rispetto ad altri stati candidati (Albania; Macedonia; Bosnia-Herzigovina; Kosovo). I dubbi riguardano soprattutto l’ingombrante presenza delle elite militari nella vita politica (anche se in misura nettamente minore rispetto ai decenni precedenti) e la questione delle minoranze. Su quest’ultimo fronte importanti passi avanti sono stati fatti concedendo ai curdi il permesso di insegnare nella propria lingua e la possibilità di trasmettere in curdo sulle tv locali. Ma non basta, anche perché il processo di ricezione dell’acquis è molto farraginoso. Unica nota positiva riguarda il mercato. Il rapporto infatti evidenzia come questo possa definirsi in Turchia perfettamente funzionante.

La questione dell’ingresso della Turchia, però, si scontra anche con altri scogli. Dopo l’ingresso di Cipro nel 2004, il problema del posizionamento geografico può dirsi ampiamente superato ma rimane l’ostacolo della sua natura islamica. Proprio mentre in Europa si moltiplicano le spinte islamofobe, la Turchia riscopre la sua identità di stato islamico. Ciò potrebbe rappresentare un ostacolo per l’integrazione. Due spinte opposte che si incontrano non possono che produrre uno scontro che in questo caso si concretizzerebbe in una non integrazione della Turchia nell’Europa politica. Dal punto di vista giuridico, l’identità islamica della Turchia non rappresenta un impedimento. Anche se nel preambolo del Trattato di Lisbona fossero state riconosciute le presunte radici giudaico-cristiane dell’Europa, questo non avrebbe significato un arroccamento su quella precisa eredità ed una chiusura al contributo culturale che potrebbe provenire dall’islam turco. Semmai, la questione dell’ingresso della Turchia è mal posta. Il nodo fondamentale, dato il ruolo della Turchia nel sistema internazionale, è capire in quale Europa dovrebbe entrare la Turchia. Poiché se l’Unione Europea sulla spinta del Trattato di Lisbona trovasse lo slancio per “parlare ad una sola voce”, cioè trovasse l’opportunità di presentarsi come una entità politica stabile ed unita, allora l’ingresso della Turchia non potrebbe che rafforzare questo progetto, completandolo dal punto di vista geografico ed aprendo nuove prospettive dal punto di vista geo-strategico. Al contrario, se l’Unione non saprà sfruttare questa opportunità l’ingresso della Turchia potrebbe essere un fattore destabilizzante proprio in virtù dell’islamofobia dilagante in Europa. Quindi, l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea è legato alle evoluzioni dell’Unione stessa. La Turchia potrebbe essere il tramite per agire nel Caucaso e nel Medio Oriente per l’Ue, ma ciò dipenderà soltanto dal progetto che i leader europei avranno del processo di integrazione.

In conclusione, la politica estera della Turchia ha subito dei mutamenti sostanziali a partire dagli Novanta seguiti a dei cambiamenti interni iniziati nel decennio precedente. Il duplice riconoscimento identitario della Turchia kemalista ha generato un progressivo disimpegno dall’area mediorientale, per cercare una maggiore integrazione nel blocco occidentale. Impegno che invece si è riproposto prepotentemente a partire dal 2002 quando l’Akp arriva al potere trasformando la Turchia in uno “stato in bilico” non dal punto di vista culturale ma da quello della politica internazionale. L’ambivalenza geopolitica turca permea tutta la sua azione di politica estera ed è dovuta al particolare posizionamento della penisola anatolica al confine tra l’Europa e l’Asia Minore. Un duplice ruolo che si mostra con tutta evidenza anche nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, nei quali la Turchia può rappresentare l’ago della bilancia nell’accrescere o nel diminuire l’influenza dell’una o dell’altra potenza.


* Carmine Finelli, dottore in Scienze politiche e delle relazioni internazionali, collabora con “Eurasia”


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