Negli ultimi mesi in Perù si è riacceso il dibattito, in realtà mai sopitosi, circa l’identificazione ed il riconoscimento dei popoli indigeni e dei loro diritti. La querelle ruota, ancora una volta, attorno alla definizione di “popoli indigeni” ed in particolare, alla determinazione ufficiale di quelli attualmente presenti nel Paese. Non si tratta solo di elucubrazioni concettuali di accademici e giuristi, ma di una necessità definitoria concreta, resasi ancor più importante alla luce di due eventi strettamente correlati: da un lato, il via alle prime consultazioni degli indigeni peruviani, conformemente a quanto stabilito da una recente “legge di consultazione previa”; dall’altro, il dietrofront del governo circa la pubblicazione di una banca dati ufficiale delle popolazioni native del Perù, contrariamente a quanto già annunciato. Eventi che costituiscono due dei tasselli della molto più vasta e complicata “questione indigena” e che affondano le loro radici nella storia dello sviluppo legislativo e sociale del Paese.
L’impasse governativa di fronte alla definizione di “popoli indigeni” peruviani
Alla base della questione definitoria attuale vi è, appunto, tale “legge di consultazione” (testualmente, Ley del Derecho a la Consulta Previa a los Pueblos Indígenas u Originarios) – promulgata dal governo Humala nel settembre 2011 e che entra ora in fase di implementazione. Essa dispone che i popoli indigeni vengano consultati prima che sia data autorizzazione a qualsiasi tipo di progetto che coinvolga i loro territori e che possa pregiudicare i loro diritti. La disposizione crea dunque un importante strumento di tutela dei diritti dei nativi, ma al tempo stesso va a toccare gli interessi degli investitori, in quanto lo svolgimento del processo di consultazione potrebbe costituire un rallentamento dei progetti di investimento, in particolare delle concessioni minerarie previste in zone indigene.
Ma quali soggetti ricadono nell’applicazione di tale norma e possono quindi richiedere la consultazione? La legge parla di “popoli indigeni o originari” ed impone, inoltre – attraverso il suo regolamento – la pubblicazione di una banca dati ufficiale che indichi chiaramente i numeri di questi e la loro presenza sul territorio nazionale. Sorge quindi un’altra, cruciale, domanda: quali comunità identificare come indigene e quali no? Esistono alcuni criteri di riferimento nelle dichiarazioni e convenzioni internazionali, ma la linea di demarcazione rimane in molti casi sottile e discrezionale. È proprio su questa che gioca l’esecutivo, timoroso di definire e di rendere pubblico un registro ufficiale delle comunità riconosciute. Il governo si trova infatti nell’empasse: se si adottasse un’interpretazione estensiva del concetto di “popoli indigeni”, ciò rischierebbe di portare ad un amplio ricorso allo strumento della consultazione (e dunque ad un potenziale freno di diversi progetti); se invece si utilizzasse un’interpretazione restrittiva, si provocherebbe l’insorgere di quelle comunità che non risultassero nell’elenco statale, pur auto-identificandosi come indigene. È il possibile caso, quest’ultimo, delle comunità campesine andine, sulla cui inclusione il governo ha espresso dubbi, ottenendo già forti opposizioni da parte delle federazioni campesine che si sono già mobilitate ricorrendo anche, come nel caso di Cusco, alla giustizia con domanda di amparo.
Va sottolineato e ben capito che tali querelles circa l’adozione di un criterio più o meno inclusivo costituiscono in realtà solo un aspetto di una questione che va ben oltre quella meramente definitoria. Il dettato della legge di consultazione solleva infatti criticità che vanno ad inserirsi nel quadro più amplio di quella che viene denominata la “questione indigena”. Una questione che affonda le sue radici nella storia. Una storia che vede la manipolazione e la repressione degli indigeni peruviani (e latinoamericani in generale) a seconda delle convenienze (1). Una storia in cui si incrociano, e quasi sempre scontrano, vari elementi: il valore spirituale della Pachamama (2) ed il carattere economico e negoziabile delle terre, la tutela delle risorse naturali ed il loro sfruttamento in nome del profitto, il riconoscimento formale del multiculturalismo ed il razzismo indotto (con successo) nella società. Tutti elementi vivi e difficilmente conciliabili, figli di due visioni profondamente distinte: una, quella degli indigeni, di chi ne rispetta e difende i diritti, di chi lotta per preservare la diversità ed il legame ancestrale che esiste tra gli appartenenti ad una stessa comunità e tra essi e le loro terre; l’altra, quella di stampo neoliberista, di chi vede nelle terre una risorsa non naturale, ma economica, generatrice di guadagno, ed in chi le occupa un ostacolo al progresso, ma anche una forza da tenere a bada ed ingraziarsi in tempo di campagna elettorale.
È questa la sintesi di ciò che Eduardo Galeano (3) definirebbe una “vena aperta” dell’America Latina. Uno scontro di interessi – e di approcci allo sviluppo – che trova nel colonialismo il suo generatore originario e che risulta tutt’oggi una vena pulsante. Ciò sottende le scelte del potere centrale, impegnato nel cogliere e seguire la scia dell’interesse preponderante del momento.
In quest’ottica vanno lette le recenti vicende peruviane innescate dalla legge di consultazione, che pare opportuno collocare nella loro dimensione storica, da considerarsi intrecciata con lo sviluppo della legislazione e delle politiche nazionali in materia di popoli indigeni.
Dal riconoscimento giuridico alla “sindrome del cane dell’ortolano” ed al baguazo
“Tutte le persone hanno diritto alla loro identità etnica e culturale. Lo Stato riconosce e protegge la pluralità etnica e culturale della Nazione”, recita l’articolo 2 comma 19 della Costituzione peruviana. A sostegno di questo, la legge fondamentale sancisce altri diritti correlati, quali:
– il riconoscimento del Quechua, dell’Aimara e di altre lingue aborigene come lingue ufficiali, accanto allo Spagnolo (art. 48 Cost.);
– il riconoscimento delle comunità campesine e native come persone giuridiche con propria esistenza legale;
– il diritto di queste all’autonomia nell’organizzazione, nel lavoro comune e nell’uso e la libera disposizione delle loro terre, nonché all’autonomia amministrativa ed economica;
– il diritto all’imprescrittibilità della proprietà delle loro terre (art. 89 Cost.).
Con tali disposizioni costituzionali, a partire dal 1993, il Perù rende esplicito il suo carattere di Stato multiculturale, dando valore all’elemento soggettivo di identificazione della sua gente.
Qualche tempo dopo, il riconoscimento del multiculturalismo peruviano e soprattutto dei diritti degli indigeni, è sembrato consolidarsi attraverso la recezione della Convenzione n.169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), conosciuta anche come “Convenzione sui diritti dei popoli indigeni e tribali”. Il Perù la ratifica a fine 1993 ed essa entra in vigore per lo Stato nel febbraio 1995. Specificazioni importanti, in quanto la Convenzione n.169 risulta tutt’oggi uno dei pochi riferimenti per l’individuazione dei diritti degli indigeni, ma soprattutto rappresenta la base giuridica della legge di consultazione. Seppure non fornisce una definizione di popoli indigeni, essa indica criteri generali per la loro individuazione, sintetizzabili nell’elemento soggettivo dell’auto-identificazione accompagnato da elementi oggettivi, quali: la continuità storica del gruppo etnico che deve avere origini pre-esistenti alla Conquista, la connessione con il territorio occupato, la presenza di istituzioni sociali, economiche, politiche e culturali distinte e riconosciute dalla comunità.
La Convenzione costituisce uno strumento internazionale giuridicamente vincolante, che impone agli Stati che l’hanno ratificata (ad oggi solo 20) di adeguare la propria legislazione e politica a quanto disposto nel documento, entro un anno dalla ratifica. Il suo principio cardine è quello della non discriminazione dei popoli indigeni, i quali devono poter godere pienamente dei diritti umani e delle libertà fondamentali, senza distinzioni. La Convenzione indica le linee guida che gli Stati-parte devono seguire nell’adottare misure speciali che rendano effettivi tali diritti, tra queste: il riconoscimento e la protezione dei valori, delle pratiche sociali e delle istituzioni dei popoli indigeni, il rispetto dei costumi e del diritto consuetudinario delle comunità (4), nonché il rispetto del diritto delle comunità a decidere le proprie priorità, per quanto riguarda il loro processo di sviluppo.
Ma la vera pietra miliare della Convenzione n.169, risiede nell’obbligo per gli Stati-parte a “consultare i popoli interessati, mediante procedimenti appropriati ed in particolare attraverso le loro istituzioni rappresentative ogni volta che si prevedano misure legislative o amministrative che li concernono direttamente”. È così che si configura per la prima volta il diritto alla consultazione ed alla partecipazione dei popoli indigeni, che il Perù si obbliga a riconoscere e regolamentare nella sua legislazione nazionale.
Già a partire dal 1993, sembra così intraprendersi un cammino verso la configurazione di un disegno normativo che affermi e permetta l’effettiva fruizione di un diritto identitario. Ma tale intenzione è solo apparente e la legislazione vista è destinata a rimanere lettera morta per decenni, fino ai giorni nostri: se infatti nella teoria le norme adottate vanno nella direzione di un maggior riconoscimento dei diritti indigeni, nella pratica il discorso politico si muove in senso opposto, in particolare con riferimento alla tematica dell’uso delle terre ed allo sfruttamento delle risorse naturali presenti in territori indigeni.
“Ci sono milioni di ettari da destinare allo sfruttamento del legno che non sono utilizzati, altrettanti milioni di ettari che le comunità e le loro associazioni non hanno coltivato né coltiveranno mai […] ma la demagogia e le menzogne dicono che queste terre sono oggetti sacri e che questa organizzazione comunitaria è quella originaria del Perù […] questo avviene in tutto il paese, terre incolte perché il proprietario non ha formazione né risorse economiche e pertanto la sua è una proprietà apparente. Questa stessa terra venduta in grandi lotti porterebbe tecnologia della quale beneficerebbe anche l’indigeno delle comunità”. Così si esprimeva l’ex presidente Alan García (2006 – 2011), in un suo articolo intitolato “El sindrome del perro del ortolano”, pubblicato sul quotidiano El Comercio il 26 ottobre del 2007. In questo, che può essere considerato come il manifesto del neoliberalismo peruviano, i popoli indigeni vengono paragonati a cani dell’ortolano, che, come recita un antico detto “non mangiano (perché non gli piacciono le verdure), ma nemmeno lasciano mangiare gli altri”. Lungi quindi dall’essere considerati come gruppi etnici originari riconosciuti, la cui relazione ancestrale con le terre occupate va protetta – come indica la Convenzione n.169 – gli indigeni sono dipinti come un ostacolo allo sviluppo del Paese.
In particolare, essi costituiscono un freno alla realizzazione del Trattato di Libero Commercio siglato con Washington nel 2005 e ratificato proprio nel 2007. In nome di questo, per agevolarne l’applicazione, l’Esecutivo del tempo vara nel primo semestre 2008 un pacchetto di 99 Decreti Legislativi (denominati anche “Ley de la Selva”) che vanno nel senso della liberalizzazione, di una totale apertura all’investimento privato, senza alcun rispetto dei diritti di proprietà dei popoli indigeni, né del loro diritto di partecipazione alle decisioni riguardanti la gestione del territorio. Di fronte a questa aperta violazione di diritti riconosciuti sia nella costituzione che in convenzioni internazionali, scatta la protesta dei popoli indigeni. Essa ha il suo epicentro a Bagua Grande, nella parte settentrionale del Paese, e dopo mesi di proteste pacifiche accompagnate da domande di incostituzionalità, sfocia nella violenza all’inizio di giugno del 2009. In seguito ad un’incursione della polizia in una zona chiamata Curva del Diablo, si verifica quello che è tuttora considerato come il conflitto sociale più cruento dell’ultimo decennio, tanto che il termine “baguazo” è da allora entrato a far parte del vocabolario peruviano come sinonimo di “massacro”. 33 morti, un disperso e centinaia di feriti, questo il risultato di uno scontro nato in nome del progresso.
La legge di consultazione previa: riscatto del passato
Al di là di un’analisi specifica dello svolgimento di tale conflitto, quello che qui interessa sottolineare è che il baguazo di indigeni è ancora vivo nella memoria del Paese e risulta anch’esso intrecciato con la legge di consultazione. Il suo ricordo è un’eredità che pesa tuttora fortemente sulle spalle di Ollanta Humala, al tempo sostenitore con il suo Partito Nazionalista Peruviano della protesta contro i decreti. Le vicende di Bagua rappresentano una leva che il presidente ha saputo ben maneggiare al tempo della campagna elettorale, proponendosi come paladino dei diritti dei nativi e dei campesini, condannando atti come quelli accaduti e promettendo che non si sarebbero verificati in futuro. Il baguazo è stato senza dubbio un fattore che ha dato la spinta ad incrementare i diritti degli indigeni ed ha favorito l’approvazione della legislazione di consultazione previa. Non è certo un caso che il 6 settembre 2011, Humala abbia scelto proprio la provincia di Bagua per promulgare la suddetta Ley de consulta previa e che questa sia stata salutata inizialmente con entusiasmo dall’opinione pubblica e dalla stampa, che l’ha definita come un riscatto del debito passato. Al tempo stesso però, lo spauracchio della ripetizione di un simile conflitto è ben presente. Ieri la ragione scatenante era principalmente il mancato riconoscimento del diritto alla proprietà delle terre, oggi potrebbe essere il mancato riconoscimento in quanto popolo indigeno, attraverso l’esclusione dalla banca dati ufficiale ed il conseguente negato accesso al processo di consultazione.
La legge di consultazione previa: la disposizione e le incertezze presenti e future
Come accennato, la legge di consultazione previa affonda le sue radici nella Convenzione n.169 e finalmente ne recepisce le disposizioni, dopo circa vent’anni di silenzio normativo. Si è detto che crea uno strumento di tutela dei diritti dei nativi, imponendo all’ente proponente l’obbligo di consultazione della comunità indigena che possa essere direttamente pregiudicata da una misura legislativa o amministrativa (e quindi anche da una disposizione che approva un piano o un progetto d’investimento o di sviluppo). La finalità della consultazione è di arrivare ad un accordo o ad una concertazione tra lo Stato ed i popoli indigeni interessati, “attraverso un dialogo interculturale che garantisca la loro inclusione nel processo di presa delle decisioni dello Stato e l’adozione di misure rispettose dei loro diritti collettivi”.
Ma come avviene più nello specifico tale consultazione? Paradossalmente il testo della legge stessa più che fornire una risposta, apre ulteriori interrogativi, sempre legati all’incertezza nell’interpretazione di alcuni termini utilizzati. La legge fornisce solo dei principi e finalità generali. È invece il regolamento che la accompagna – frutto questo di un esercizio di consultazione e di dialogo svoltosi con le organizzazioni indigene all’interno di una Commissione multi-settoriale temporanea – lo strumento che definisce nel concreto il processo della consultazione. Esso dovrebbe svolgersi seguendo le tappe di:
- identificazione della misura in oggetto;
- identificazione della comunità in questione;
- pubblicità della misura;
- informazione su di essa;
- valutazione interna, in seno alle istituzioni indigene;
- processo di dialogo tra i rappresentanti indigeni e lo Stato (con il coinvolgimento dell’impresa che desidera sviluppare l’eventuale progetto);
- decisione.
In totale il processo di consulta dovrebbe durare non più di 120 giorni, i costi per la sua realizzazione rimangono a carico dell’entità promotrice (ossia o lo Stato o l’impresa). È da evidenziare che non si tratta quindi di un diritto di veto da parte delle comunità indigene: l’eventuale mancato accordo non inficia infatti lo svolgimento successivo delle misure considerate. Nonostante il grande entusiasmo generatosi attorno alla legge soprattutto da parte di organizzazioni indigene ed ONG, bisogna quindi notare che in realtà la tutela effettiva dei diritti delle comunità indigene prevista dal suddetto strumento, rimane debole; tuttavia esso costituisce un’importante possibilità per esse di essere informate e coinvolte nel processo decisionale.
Dal lato degli investitori – che è quello che evidentemente più preoccupa il governo – risulta ancora difficile prevedere quale possa essere la percezione dell’obbligo del meccanismo di consulta; i pareri sono discordanti: c’è chi – come l’ambasciatore del Regno Unito a Lima – sostiene che essa costituisce un avanzamento per l’economia peruviana (5) e che favorirà gli investimenti, dal momento che porterà ad una diminuzione dei conflitti sociali e fornirà dunque maggiori sicurezze alle imprese; c’è chi invece crede che essa sarà percepita come un freno, dal momento che costituisce una “perdita” di tempo e di denaro. Si stima, infatti, a titolo di esempio, che Petro-Perù dovrà spendere più di 1,5 milioni di dollari per la realizzazione di 26 consultazioni per i suoi progetti nel settore degli idrocarburi da implementarsi in varie aree dell’Amazzonia (6).
Ovviamente, il governo segue a parole la linea dei primi, con Ollanta Humala che ripete che la legge di consultazione non è un ostacolo per le imprese, ma al contrario serve a dare legittimità e credibilità agli investimenti nel Paese (7). Nei fatti, sembra però agire dando ragione ai secondi: l’implementazione della legge arranca, essendo legata, come visto, alla definizione e pubblicazione della banca dati ufficiale dei popoli indigeni. Come sottolinea bene il quotidiano nazionale La Republica (8), Humala non sapeva a cosa andava incontro quando promise e poi promulgò la legge: si ritrova ora con investitori nell’indecisione, ma soprattutto con comunità che reclamano l’inserimento nella banca dati e l’accesso alla consultazione.
Dentro al gabinetto, il dibattito è acceso e vede, molto emblematicamente, scontrarsi il Ministero di cultura, nello specifico il suo Viceministerio dell’interculturalità – che è l’ ente incaricato di realizzare la banca dati e vegliare sull’evoluzione del processo di consultazione – ed il Ministero dell’energia e dell’industria mineraria. Mentre infatti quest’ultimo, nella persona del Ministro Jorge Merino, considera solo le 48 comunità dell’Amazzonia come strettamente indigene, il Viceministerio spinge per un’interpretazione più amplia ed una maggiore inclusione ed apertura dell’accesso alla consultazione. Proprio tali discrepanze, particolarmente sul punto dell’inserimento nella banca dati dei popoli campesini andini, fortemente osteggiato da Merino, hanno portato alle recenti dimissioni (a maggio) del Viceministro dell’interculturalità, Ivan Lanegra. Un episodio che non ha fatto che accrescere l’incertezza circa il futuro dell’applicazione della legge ed aumentarne il ritardo. Tuttavia si intravedono segnali positivi, in quanto proprio in questi giorni, il nuovo insediatosi al Viceministerio, Paulo Vilca, sembra essersi mostrato aperto al dialogo con le numerose ONG impegnate nel tema, ed ha comunicato, per ora in via non ufficiale, l’intenzione di aprire un tavolo di lavoro congiunto di esperti e di leader delle comunità indigene, al fine appunto di identificare in maniera concertata quali sono i popoli indigeni del Perù. Intanto però le comunità campesine si mobilitano ed alcune, come la federazione di Cusco, già ricorrono alla giustizia, attraverso una domanda di amparo.
Conclusioni
In definitiva, lungi dal fornire sicurezze, per il momento la legge di consultazione apre più che altro conflitti dentro e fuori del governo, generando proprio quell’incertezza che si voleva evitare. La via d’uscita più probabile dall’impasse appare ora la messa in opera, per lo meno di facciata, di tale lavoro di concertazione che porti infine alla pubblicazione della banca dati. Rimane ferma però la consapevolezza che di fronte ad un’arma a doppio taglio come quella generata da tale meccanismo, non potranno che risultare degli scontenti, siano essi, a seconda dei casi e delle prospettive, le imprese che saranno obbligate a sostenere i costi per realizzare la consultazione, o le popolazioni che si sentiranno escluse dall’accesso ad un diritto.
Al di là delle modalità di risoluzione della vicenda attuale, resta però aperta la questione indigena, che con la legge di consultazione avanza solo in maniera lieve, rimanendo l’approccio a questa sostanzialmente immutato.
Sebbene siano passati quattro anni dal baguazo, la presidenza sia cambiata ed è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti (come la creazione di un Ministero di cultura, già sul finire del mandato di Alan Garcìa) in merito alla tutela degli indigeni, il discorso politico della sindrome del cane dell’ortolano è in realtà perfettamente attuale, recepito e fatto proprio dalla maggioranza della popolazione cittadina, che guarda agli indigeni con avversione. Non più esplicito e duro come attraverso le parole di Alan Garcìa, il concetto degli indigeni come problema ed ostacolo al neoliberalismo rimane di fondo ed in maniera celata sottende oggi l’operare di Ollanta Humala, che pur se in superficie si è proposto come in collisione con le idee del suo predecessore, di fatto segue la scia dell’opportunismo politico ed economico, ponendosi in linea di continuità con Garcìa.
*Laura Sesenna ha una Laurea triennale in Giurisprudenza a Genova ed una Laurea specialistica in Relazioni internazionali presso l’Université Catholique de Louvain. Ha lavorato per un anno a Lima con Fedepaz, ONG di avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani e del diritto dell’ambiente.
(1) A riguardo, l’articolo “La questione indigena in Perù” di Annalisa Melandri: http://www.annalisamelandri.it/2009/06/la-questione-indigena-in-peru/
(2) La Pachamama è per le popolazioni originarie, la Madre Terra. L’elemento della terra, in particolare quella da loro abitata, assume per loro carattere sacro, essendo simbolo di fertilità.
(3) Eduardo Galeano, “Le vene aperte dell’America Latina”
(4) La necessità rispetto del diritto consuetudinario delle comunità indigene, fa sì che in Perù esista un sistema giuridico duale, in cui cioè coesistono il diritto nazionale e quello proprio della comunità, che, salvo per reati di una certa entità, applica verso i suoi membri e nei suoi territori.
(5) La Republica, “Ley de consulta previa atraerà inversiones al Perù”, 6 settembre 2011:
http://www.larepublica.pe/06-09-2011/ley-de-consulta-previa-atraera-inversiones-al-peru
(6) El Comercio, “Petro-Perù iniciarà en julio 26 consultas previas en la Amazonia”, 11 giugno 2013: http://elcomercio.pe/economia/1589101/noticia-peru-petro-iniciara-julio-26-consultas-previas-amazonia
(7) La Republica, “Humala afirma que Ley de Consulta previa no es un obstaculo para la inversión”, 23 maggio 2013: http://www.larepublica.pe/23-05-2013/humala-afirma-que-ley-de-consulta-previa-no-es-un-obstaculo-para-la-inversion
(8) La Republica, “La Consulta Previa: una fuente de conflictos dentro y fuera del gobierno, 5 febbraio 2013: http://www.larepublica.pe/05-02-2013/la-consulta-previa-una-fuente-de-conflictos-dentro-y-fuera-del-gobierno
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