Proponiamo in esclusiva ai nostri lettori la prefazione di Daniele Scalea al nuovo libro di Francesco Brunello Zanitti Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro e dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Il libro, pubblicato pochi giorni fa, è la terza pubblicazione dell’IsAG, dopo la rivista “Eurasia” e Capire le rivolte arabe di Pietro Longo e Daniele Scalea. Maggiori informazioni sul libro cliccando qui.

 

«Ciò che si fa per amore

lo si fa sempre al di là del bene e del male»

Friedrich Wilhelm Nietzsche

 

 

 

Questo libro è, per certi versi, la narrazione d’una storia d’amore, una delle più longeve ed appassionate relazioni della politica internazionale recente: quella tra USA e Israele. Due nazioni che, all’apparenza, avrebbero ben poco da spartire. Gli USA sono grandi quasi cinquecento volte Israele, la cui popolazione è inferiore a quella della più grande città statunitense, New York. Gli USA sono una nazione a maggioranza cristiana, Israele è lo “Stato ebraico” per definizione. Gli USA sono una grande potenza bioceanica nell’emisfero occidentale, Israele è una potenza regionale affacciata sul Mediterraneo. Spesso gli opposti s’attraggono, ma in questa storia ad essere stati valorizzati sono alcuni legami di tipo ideologico: delle vere e proprie “affinità elettive”, per dirla con Goethe.

I “padri pellegrini” dei futuri Stati Uniti d’America, imbevuti di religiosità calvinista, si sentivano il nuovo “popolo eletto” in cerca della sua “terra promessa”: questa mistica vetero-testamentaria ispirò l’intera epopea della colonizzazione del Nordamerica (ebbe anche i suoi “Cananei” da sterminare, in questo caso i “pellerossa”), ed ancora oggi si risente in certe formulazioni politico-ideologiche, come quella della “unica nazione necessaria”. È qui fin troppo palese il legame con la tradizione ebraico-giudaica, ma vale la pena notare come esso divenisse ancor più stringente sul finire dell’Ottocento, con la nascita del movimento sionista, e nel secondo dopoguerra, quando il sionismo si diffuse rapidamente in Europa e nel mondo. Dopo aver subito le persecuzioni naziste, la ricerca d’una terra promessa diveniva una nuova priorità per i giudei europei. Benché molti dei padri fondatori d’Israele non fossero credenti, il mito della terra promessa aveva un fascino particolare ed una notevole “spendibilità” presso l’opinione pubblica cristiana. Il risveglio evangelico verificatosi negli USA a partire dagli anni ’60 del secolo scorso lo dimostra chiaramente: milioni di statunitensi sono divenuti sostenitori d’Israele, perché nella sua rinascita leggono un segno dell’imminente ritorno del Cristo in Terra. Entrambi i popoli, statunitense ed israeliano, traggono dal comune humus religioso biblico la certezza d’essere eletti da Dio, e da Egli destinati a compiere una decisiva missione storica: questo sostrato mistico si manifesta nella mentalità collettiva anche laddove prevalgano il laicismo o l’ateismo, poiché determinati archetipi si sono radicati nel modo di pensare di quei popoli. Ciò spiega anche la comune tendenza alla schmittiana “de-umanizzazione” del nemico, e la spiccata propensione alla militarizzazione dei rapporti internazionali ed all’unilateralismo politico.

Un’alleanza pluri-decennale fondata su una comunanza, più ancora che ideologica, di forma mentis, non può che suscitare le perplessità di alcuni, nella fattispecie all’interno del partner più forte – che sopporta il peso maggiore dell’amicizia, ed avrebbe delle opzioni alternative. L’appoggio statunitense a Israele s’è fatto più saldo in coincidenza della guerra del 1967 (quattordici anni prima Washington aveva difeso l’Egitto dall’aggressione sionista), e da allora è evoluto fin quasi a farsi incondizionato. Di recente alcuni pensatori, come il guru geopolitico Zbigniew Brzezinski, hanno messo in dubbio che tra USA e Israele vi sia una perfetta coincidenza d’interessi strategici. Stephen Walt e John Mearsheimer, col loro The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, hanno evidenziato il ruolo della camarilla sionista nell’influenzare la politica estera statunitense facendo pressione – con lusinghe e minacce, denaro e ritorsioni – sui decisori ed i cosiddetti opinion makers. Il tema non è affatto nuovo, ma fino ad allora era stato sussurrato esclusivamente da radicali di destra e, più timidamente, di sinistra. La novità è che con Walt e Mearsheimer il ruolo della “lobby ebraica” era denunciato da due eminenti accademici, con argomenti scientifici che non potevano essere rigettati agitando il solito, ricattatorio spettro del “antisemitismo”.

Cos’era accaduto? Pochi anni prima l’identificazione ideologico-strategica tra USA e Israele aveva raggiunto l’acme sotto la lunga presidenza di George W. Bush. Il giovane Bush, eletto coi voti dei “cristiani rinati”, aveva abbandonato la politica di Clinton e prima ancora del padre – i quali, pur non abbandonando mai la fedeltà all’alleato israeliano, avevano costretto Tel Aviv ad impegnarsi in concreti negoziati di pace – cominciando ad assecondare i propositi più bellicosi e radicali della destra israeliana. Il tavolo negoziale è stato abbandonato, solo fuggevolmente ripreso – e per pura formalità, ma senza alcun desiderio di raggiungere una vera pace di compromesso – con la cosiddetta Road Map. I cannoni hanno ripreso a tuonare per affermare la legge del più forte, con la dura repressione della Seconda Intifada, l’assedio di Gaza, l’aggressione al Libano, le incursioni in Siria, l’incoraggiamento dell’invasione statunitense dell’Iraq e le minacce all’Iran.

Nel frattempo, Bush ha terminato il suo secondo mandato ed i neoconservatori hanno perduto le redini della nazione, lasciando spazio a Obama, il presidente passato alla storia perché mulatto, ma che – cosa ben più importante – si poneva come il paladino dei “realisti”, la corrente più cauta e diplomatica della speculazione geostrategica statunitense. Tutto è cambiato da allora? Non esattamente. Incomprensioni e nervosismi sono sorti tra Washington e Tel Aviv, perché la Casa Bianca ha impresso un cambio di rotta, cominciando a tener maggiormente conto di quelli percepiti come i propri interessi strategici, a dispetto di quelli israeliani. Ma la barra è rimasta dritta a proposito dell’alleanza e della special relationship, anche perché, per ragioni di politica interna, Obama non può arrivare allo scontro frontale con Israele: ogni volta che l’ha rischiato, ha dovuto cedere e piegare la schiena davanti alle resistenze di Tel Aviv. Le odierne rivolte arabe aprono nuovi scenari e nuovi fronti di disaccordo tra Israele e USA, nel momento in cui quest’ultimi corteggiano sempre più palesemente la Fratellanza Musulmana ed altri movimenti islamisti, insensibili alle perplessità sioniste.

Ma un nuovo ribaltamento si profila all’orizzonte. La rivendicazione dell’uccisione di Osama Bin Laden non ha risollevato, se non in maniera effimera, la popolarità di Obama, rovinata dalla difficile gestione della crisi economico-finanziaria. Nel novembre 2012 si voterà per il nuovo presidente degli USA, e le possibilità di rivedere un repubblicano alla Casa Bianca sono elevate. Ciò non significa automaticamente un ritorno al precedente indirizzo politico: già Bush jr. aveva dovuto riconoscere i fallimenti della strategia neoconservatrice e licenziare il “falco” Rumsfeld, sostituendolo col realista Gates. Ma nel Old Grand Party in fermento, per ora sono proprio le correnti più radicali a mettersi maggiormente in luce.

Lo studio di Francesco Brunello Zanitti, dunque, è una ricerca storica con una forte componente d’attualità. Esso s’interroga sulle affinità tra il neoconservatorismo statunitense ed il neorevisionismo israeliano senza limitarsi ad osservare, in maniera scontata, gli otto anni di Bush, ma risalendo alle radici del fenomeno, alcuni decenni addietro. E la fine della presidenza Bush non ha consegnato alla storia il neoconservatorismo, ch’è ancora vivo e vegeto e si prepara, forse, a riprendere il potere tra poco più di un anno. Frattanto in Israele il neorevisionismo vive la sua stagione di grazia. Governato per i primi ventotto anni della sua esistenza, ininterrottamente, dai laburisti, negli ultimi trentaquattro anni solo otto hanno visto un primo ministro di sinistra. Alle ultime elezioni (2009) il Partito Laburista è precipitato in quarta posizione, con meno del 10% dei consensi, superato anche da Yisrael Beiteinu, la formazione dei russofoni anch’essa d’ispirazione revisionista, proprio come il Likud e Kadima, i primi due partiti nel paese.

Il confronto tra neoconservatorismo e neorevisionismo, dunque, non è solo un tema di grande rilevanza storica con riferimento all’ultimo mezzo secolo circa; è anche uno studio foriero di suggestioni per ciò che potrebbe attenderci nel futuro prossimo.

 

 

* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’IsAG, redattore della rivista di studi geopolitici “Eurasia”, autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe (Dublin 2011).


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