La vittoria di Trump segna la fine di un ciclo storico cominciato molti anni fa con il crollo dell’Unione Sovietica, ma non si sa ancora se sia davvero l’inizio di una nuova fase storica sotto il profilo geopolitico. Certo, in queste elezioni presidenziali americane hanno giocato un ruolo non indifferente le ragioni della politica interna. I fallimenti di Obama anche in questo campo hanno convinto molti americani a votare contro “i politici di Washington”, ossia contro il circo mediatico e il mondo della capitale e dei “salotti buoni”. Un mondo sempre più lontano dai reali problemi dell’uomo della strada, che ha saputo tutelare solo gli interessi dei ceti più abbienti, mentre si è dimostrato incapace di affrontare le questioni sociali ed economiche con cui la maggior parte dei cittadini americani deve fare i conti tutti i giorni. Né ha saputo dare risposte concrete alla questione dell’immigrazione (la “Mexifornia”) o al conflitto tra bianchi e negri, che sembrava appartenere definitivamente al passato e invece sta di nuovo “lacerando” la società americana.

Scegliere Trump ha dunque significato in primo luogo rifiutare i luoghi comuni e la melensa retorica del mondo “politicamente corretto”, tanto arrogante quanto incapace, al punto che gli attacchi ad personam contro Trump da parte di tutti i media mainstream degli oligarchi occidentali possono paradossalmente avere perfino giovato allo stesso Trump. Considerato “rozzo”, “sessista”, “xenofobo” e addirittura “fascista”, osteggiato perfino dal suo partito, il partito repubblicano, Trump ha invece saputo, bene o male, parlare al popolo americano in modo franco e diretto, intuendo che era “terminato” il tempo degli “equilibrismi” di Obama, che non volendo scontentare nessuno ha finito per scontentare tutti. Viceversa, gli americani non hanno dimenticato quel che ha “combinato” in Libia la Clinton, la “nuova eroina” del mondo ipocrita dell’informazione e dei “demosinistri” del ceto medio semicolto occidentale. E anche l’insabbiamento della vicenda che è costata la vita all’ambasciatore americano Stevens ha pesato in queste elezioni. Come ha pesato la politica fallimentare di Washington in Iraq e in Afghanistan, ma anche e soprattutto nei confronti della Russia, con tutto quello che ne è conseguito in Medio Oriente, mentre perfino i rapporti con Paesi che sono degli “alleati tradizionali” degli Usa, come la Turchia e l’Arabia Saudita, suscitano, sia pure per diversi motivi, non poche preoccupazioni.

Trump, pertanto, eredita un situazione grave e difficile sia sul piano interno che su quello internazionale. Che cosa veramente voglia e possa fare il nuovo presidente degli Stati Uniti lo sapremo comunque nei prossimi mesi (sempre che non rimanga vittima come John Kennedy di qualche attentato, perché dagli Usa purtroppo ci si può aspettare di tutto). Ma è meglio non farsi soverchie illusioni, benché l’America di Trump non possa essere peggiore di quella della Clinton (tanto che qualcuno si è spinto ad osservare, non del tutto a torto, che perlomeno con la vittoria di Trump è cessato l’allarme nucleare). La politica degli Stati Uniti non può però cambiare di punto in bianco, è come una superpetroliera che ha bisogno di tempo per mutare rotta. Non è un mistero per nessuno, del resto, che a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale il cosiddetto “Warfare State” è stato il motore dell’economia e della politica americana. E questo gigantesco apparato militare e industriale, insieme con le potenti agenzie di intelligence e gli strateghi del capitale finanziario, continuerà certamente a condizionare la politica di Washington.

Nondimeno, è lecito ritenere che con il nuovo inquilino della Casa Bianca vi possa essere, oltre ad un’America più concentrata sui problemi del popolo americano, un netto miglioramento delle relazioni tra Washington e Mosca, vale a dire una ridefinizione della politica strategica della Nato che tenga conto della necessità di confrontarsi con una “realtà multipolare”, per mettere fine a quella geopolitica del caos che si è rivelata anche per gli Stati Uniti una politica tutt’altro che vantaggiosa (almeno a “medio termine”) e che peraltro non ha impedito il declino relativo della superpotenza d’oltreoceano, mentre ha favorito, direttamente o indirettamente, la diffusione del terrorismo non solo nel Vicino Oriente e in Africa Settentrionale, ma nella stessa in Europa. E proprio per l’Europa un cambiamento della strategia di Washington sarebbe in ogni caso un’occasione da sfruttare. In particolare ne dovrebbero approfittare quelle forze politiche che si battono per la difesa della sovranità nazionale e per un nuovo polo europeo, che possa smarcarsi dalla politica degli strateghi del capitale d’oltreoceano (e di conseguenza liberarsi dai diktat dei “mercati” e degli “eurocrati” di Bruxelles).

Va da sé che questo spiega perché “euro-gazzettieri” ed “euro-intellettuali” hanno fatto il tifo per la Clinton con “la bava alla bocca”. Ma non è tanto di costoro che ci si deve preoccupare, quanto piuttosto del fatto che ancora si continui a pensare che il destino del mondo dipenda esclusivamente dalla politica di Washington. In realtà, da tempo vari attori geopolitici muovono i pezzi sulla scacchiera internazionale, non solo Mosca e Pechino, ma anche attori geopolitici regionali, mentre è proprio l’Europa che è assente sulla scena della politica internazionale, i Paesi europei accontentandosi di svolgere il ruolo di vassalli di Washington, convinti che i problemi dell’Europa li si possa risolvere in un’ottica meramente economicistica, nonostante che in questi ultimi anni ancora una volta si sia dimostrata non solo l’importanza del ruolo politico-strategico degli stessi potentati economici e finanziari, ma l’impossibilità di lasciare la geopolitica fuori della “porta di casa”. Anche sotto questo aspetto, pertanto, ciò che sarà l’America di Trump dipenderà pure da quel che faranno Paesi come la Russia o la Cina e la stessa Europa. Ma è appunto su questo terreno che si dovrà valutare e giudicare la politica di Washington, per sapere se con Trump gli Stati Uniti hanno voltato solo pagina o hanno effettivamente rinunciato ad un progetto di egemonia globale in cui non vi è spazio tranne che per vassalli o per nemici da annientare.

Comunque sia, è evidente che non gioverebbe nemmeno agli Stati Uniti ostinarsi a difendere il sistema delle relazioni internazionali che si era formato negli anni Novanta, allorquando nulla pareva potesse ostacolare l’egemonia degli Stati Uniti. La “sovraesposizione imperiale” della potenza egemone occidentale prima o poi rischierebbe di trascinare nell’abisso gli Usa con l’intero pianeta. Di questo Trump, nonostante quelli che possono essere i suoi limiti personali (ma anche questi sono ancora tutti da verificare), ha dimostrato di essere più consapevole di una “politica consumata” come la Clinton, ma così “legata” all’oligarchia plutocratica atlantista e alla parte più aggressiva e pericolosa del gruppo dominante americano, da essere considerata da non pochi analisti una pericolosa e irresponsabile guerrafondaia. Ovviamente, vale la pena ripeterlo, la vittoria di Trump non significa di per sé che gli Stati Uniti siano disposti a fare un “passo indietro”, adoperandosi per dar vita ad una nuova Bretton Woods e accettando di confrontarsi su un piano paritario con altri attori geopolitici (Europa compresa). Ma non si può nemmeno affermare che Trump sia solo un “bluff”. E la reazione “scomposta” delle gazzette degli oligarchi occidentali alla sconfitta della Clinton è sufficiente per rendersene conto. In definitiva quel che adesso conta, non solo per gli americani ma pure per gli europei, è l’uscita di scena della Clinton. Tuttavia, anche la vittoria di Trump conferma, con buona pace di Fukuyama, che la storia è ben lungi dall’essere finita, sebbene questo equivalga a riconoscere che squilibri e conflitti di vario genere caratterizzeranno comunque anche il XXI secolo.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.