Traduzione a cura di Valentina Francescon
Dopo quasi otto mesi di temporeggiamenti, il governo del Primo Ministro Hatoyama Yokio è caduto. È stato come se, fedele al suo soprannome di “alien”, Hatoyama fosse scomparso nello spazio assieme ai suoi piani per un cambiamento del modello di gioco, assumendo quell’espressione di piacere sublime a lungo rimossa dalle catene e dagli stenti dei terrestri, portando con sé anche l’uomo che fungeva da vera autorità nel paese, il segretario generale del Partito Democratico del Giappone (DPJ), Ozawa Ichiro.
Ma la storia è crudele. Hatoyama ha lasciato la scena senza aver risolto il problema della base marina americana a Futenma e senza essere riuscito ad imprimere una direzione alla diplomazia giapponese dopo che il suo partito aveva sconfitto il Partito Liberal-democratico (LDP), a lungo al potere. Sono stato amico di Hatoyama per molti anni e, fino all’avvio della sua amministrazione, ho condiviso con lui opinioni sulla politica estera che il Giappone dovrebbe perseguire. Ma osservando a distanza come il dibattito sulla diplomazia del Giappone è stato affrontato nel corso del braccio di ferro tra il primo ministro e lo staff di burocrati degli affari esteri e i ministri della difesa, nonché dall’approccio isolazionistico dei media nazionali, non posso che essere intimamente angustiato ed arrabbiato per la profonda gravità dei mali che affliggono il paese.
Reprimendo in questa sede la mia rabbia, vorrei ora valutare l’amministrazione Hatoyama e cercare di delineare le basi per gli sviluppi futuri. Nell’edizione di febbraio di Sekai ho pubblicato un saggio dal titolo “Il desiderio e l’immaginazione di ritornare al senso comune: verso una revisione dell’alleanza tra USA e Giappone”, dove ho condotto un riesame dell’alleanza tra USA e Giappone nel suo complesso, ivi incluso il problema di Futenma. Il presente saggio altro non ne è che un seguito, nel quale prenderò in considerazione le possibili evoluzioni per i prossimi sei mesi e presenterò un’analisi maggiormente strutturata della natura del problema.
Nei rabbiosi corsi di eventi della storia mondiale, la cornice della “ diplomazia alleata”, in tipico stile da Guerra Fredda, ha raggiunto il suo massimo. In particolare, il meccanismo dell’alleanza tra USA e Giappone, che nei 65 anni dalla fine della guerra è stato cristallizzato dall’inerzia e da interessi particolari, ha chiaramente iniziato a scricchiolare, rendendone evidentemente impellente uno svecchiamento.
Ma il racconto di una nuova éra è solo all’inizio.
Perché è fallita la politica estera di Hatoyama: la natura del voltafaccia.
La ragione del fallimento della politica estera di Hatoyama è chiara. Egli ha, infatti, considerato il problema di Futenma come una questione meramente legata alla riduzione del fardello delle basi USA che grava su Hokinawa, senza mai dimostrarsi in grado di uscire da questo schema fisso. In un certo senso Hatoyama è un uomo molto benevolente ed è profondamente turbato dal fatto che oltre il 70% delle basi americane siano concentrate ad Okinawa, con inevitabili pesanti conseguenze sulla popolazione della prefettura. È proprio per questo che si era impegnato a cercare un altro sito fuori Okinawa per riallocare la base di Futenma.
Ma trasferire la base fuori dalla prefettura, per esempio a Tokunoshima, non risolverebbe il problema: disseminerebbe semplicemente le basi, cosa che gli stessi abitanti di Okinawa ricoscono. Per loro sarebbe stato più facile comprendere, benché malvolentieri, che il governo del DPJ avesse accettato come un fatto compiuto l’accordo negoziato dal precedente governo del LDP in base al quale si prevedeva di spostare la base a Henoko, pur tuttavia inserendo il problema di Futenma in un più ampio contesto di lungo termine concernente l’intera problematica delle basi in Giappone. Ne è, invece, nata una disputa su come trovare un sito sostitutivo ed è degenerata nel follo gioco di offrire un pezzo di un puzzle.
Il problema di Futenma è emerso nel 1995 dopo che alcuni soldati statunitensi stuprarono una ragazza di Okinawa, per poi ripresentarsi nel 2004 a seguito dello schianto di un elicottero. Si tratta essenzialmente di una questione di sicurezza delle basi americane. Come tale, ci si sarebbe aspettati che la parte che causò questi incidenti – l’esercito USA – si assumesse la responsabilità di risolvere il problema e di identificare un sito alternativo. Gli USA assunsero, al contrario, la posizione del “saremo felici di spostarci se ci piacesse la nuova collocazione” e rimasero in attesa che il Giappone dirimesse la propria disputa interna, esercitandovi, con il passare del tempo, delle pressioni implicite.
Il Giappone avrebbe dovuto coinvolgere direttamente gli USA. Ci furono certo delle consultazioni tra i due paesi in merito al sito sostitutivo, ma esse si svolsero sempre entro i limiti dell’attuale quadro di sicurezza. Poiché il futuro del trattato di sicurezza tra USA e Giappone non venne preso in considerazione, non ci fu alcuna possibilità di cambiarne il modello. Quando poi la discussione si blocca a livello micro, le opzioni tecniche del personale burocratico vicino alla scena hanno la precedenza e la questione si riduce alla valutazione del fatto che un’opzione sia “realistica” o meno. La politica di ridurre il carico della base su Okinawa è stata, così, monopolizzata dai burocrati degli affari esteri e della difesa, che attribuiscono la priorità alla visione americana. L’ufficio del primo ministro non è, infatti, mai riuscito a costituire un fronte unito con i ministeri della difesa e degli esteri poiché i burocrati di tali ministeri credono fermamente che non dovrebbe essere apportato nessun cambiamento all’alleanza di sicurezza USA-Giappone o all’attuale stato delle basi.
Sull’onda del cambiamento di regime politico interno, ci sono stati dibattiti su un’eventuale transizione da un governo retto da burocrati ad una leadership politica. Ma vi sono due ministeri in cui la leadership politica non è operativa: il Ministro degli Affari Esteri e il Ministero della Difesa. Questo però non è imputabile alla debolezza dei direttivi esecutivi, quanto piuttosto al fatto che tra i funzionari che occupano un ruolo chiave all’interno di questi due ministeri viga, come fosse uno strato spesso di roccia, la ferma determinazione di essere solleciti alle intenzioni degli USA. Durante il periodo post-bellico questi burocrati hanno consolidato la loro carriera nel corso di addestramenti ed esperienze nel settore amministrativo proprio negli USA, dove hanno sviluppato una sorta di ragione comune. Secondo loro, insomma, “la considerazione degli USA” e “la comprensione statunitense” rappresentano le scelte più realistiche e naturali.
Molti di questi funzionari sono certo validi, dotati di notevole equilibrio e di una ricca umanità, ma affrontare una discussione seria con loro richiama alla mente lo spirito dei burocrati cinesi che guidarono il loro paese alla rovina alla fine della dinastia dei Qing. Al tempo della ribellione dei Boxers, cioè circa 60 anni dopo la Guerra dell’Oppio, i burocrati Qing del 1900 ritenevano che l’impero britannico fosse un affare indiscutibile. In altri termini, la dinastia Qing fu guidata da specialisti che consideravano come un dato di fatto la pressione della Gran Bretagna e delle altre grandi potenze e che, allo stesso tempo, erano convinti che, anziché cercare una svolta, fosse meglio accettare l’esistenza delle grandi potenze come un fatto naturale e sperare che la situazione si risolvesse pacificamente. Questi burocrati erano molto colti e sapienti, ma si trovarono impantanati nella rigida cultura dominante dell’epoca. Divennero, così, prigionieri degli eventi e frustati dalle routine quotidiane, mentre la loro inerzia finì con il causare la caduta del governo. Nel Giappone di oggi sta accadendo la stessa cosa: piuttosto che inaugurare una politica basata sulla valutazione oggettiva delle condizioni esistenti, la condotta da assumere è innanzitutto valutata per il suo impatto sulle relazioni con gli USA. Non ci si potrà, dunque, aspettare una politica estera ponderata e flessibile, capace di adattarsi alla situazione cangiante.
La lezione del recente drammatico voltafaccia non è altro che la dimostrazione di quanto le modalità di determinazione della politica estera giapponese siano rigide e vincolate. Hatoyama e molti dei primi ministri che lo precedettero mancarono, in effetti, di quell’immaginazione e di quell’arte di governo necessarie per guidare il paese come il loro ruolo imporrebbe. E non si può far altro che annuire quando l’Economist pubblica un rapporto speciale sul nostro paese intitolandolo “Il Giappone senza leader” (edizione del 3 giugno 2010).
“Le mie parole non hanno raggiunto il popolo giapponese”, ha dichiarato Hatoyama durante la conferenza stampa in cui ha annunciato le sue dimissioni. Benché durante il suo mandato non abbia mai espresso le sue intenzioni in merito al futuro dell’alleanza USA-Giappone, ecco che finalmente, nei suoi ultimi istanti di incarico governativo, parla con il cuore. La politica estera richiede la comprensione delle condizioni globali e del contesto storico dell’epoca. Questa consapevolezza era evidente nella politica estera di Yoshida Shigeru del primo periodo post-bellico, in quella di Hatoyama Ichiro al tempo della conferenza di Bandung nel 1955 e in quella di Kishi Noubusuke quando, nel 1960, si procedette alla revisione del trattato di sicurezza USA-Giappone. L’amministrazione Hatoyama, invece, priva di una leadership forte basata su una chiara comprensione dell’éra storica, è stata velocemente spazzata via ed immobilizzata dal “mantenimento dello status quo” su entrambe le coste del Pacifico.
Ma che gioco politico di basso livello è stato svolto agli occhi di tutti! Il primo ministro ha dichiarato che avrebbe mantenuto la sua promessa di trasferire la base fuori da Okinawa. I media pressavano affinché fosse stabilita una data ed egli si era impegnato per la fine di maggio. “Hai preso un impegno, realizzalo!”, chiedevano i media. Nel corso del dibattito si è, però, perduta ogni prospettiva sul nocciolo del problema ed esso fu ridotto ad un’ingannevole farsa, mentre gli USA e il resto del mondo restavano a guardare dalle linee laterali, incapaci di trattenere sorrisi ironici.
Che cos’è questo pervasivo senso di impotenza? Anche tra i membri del DPJ eletti nella Dieta prevalgono i sentimenti di “non pestate la coda alla tigre americana” e “finirai con il bruciarti se toccherai l’alleanza USA-Giappone e lo stato delle basi”. L’era post-bellica del Giappone non finirà mai a meno che non si riesca in qualche modo a superare quest’atavica debolezza.
Che cosa ha rivelato il voltafaccia: le vere posizioni dell’America e la realtà che bisogna affrontare
Esaminato in dettaglio, il voltafaccia di Futenma rivela diverse questioni, che alimenteranno il ragionamento sugli sviluppi futuri.
- Rivelazione numero 1: anche gli USA subiscono il fascino del sistema di sicurezza USA-Giappone.
In seguito al cambio di regime in Giappone ed alla conseguente preoccupazione che il problema di Futenma potesse portare ad una più ampia riconsiderazione delle basi americane, si sono manifestate le vere posizioni dell’esercito statunitense. Se precedentemente gli USA parlavano con rassicurante coraggio riguardo all’assunzione di tutti i rischi per la difesa del Giappone, ora, invece, essi iniziano ad avanzare una rivendicazione diversa, sostenendo che le basi in Giappone sono essenziali per la stabilità dell’Asia orientale. Mantenere delle basi permanenti sulle isole giapponesi serve, insomma, anche gli interessi americani.
La rivelazione che l’esercito USA intende restare in Giappone è significativa e il motivo è piuttosto chiaro. Non c’è altro paese al mondo che si accolli il 70% dei costi per far risiedere le truppe straniere e dove queste truppe operino secondo un accordo sullo stato delle forze virtualmente paragonabile a quello di un esercito di occupazione. Ci possono forse essere altre valide ragioni per la presenza americana, quali ad esempio le considerazioni strategiche globali e le responsabilità dell’alleanza, ma lo stretto interesse economico di dipendenza dalla ripartizione dei costi con il Giappone ha certamente affascinato gli USA. Il “budget solidale” del Giappone, che iniziò nel 1978 con un pagamento di 6.2¥ miliardi (circa 27 milioni $ ai tassi di cambio di allora), ha raggiunto il picco nel 1995 con lo stanziamento di 271 miliardi ¥ (circa 2.9 miliardi $). Il Giappone continua a pagare il conto per tutto, dai beni di prima necessità alle spese ricreative, oneri che la nazione ospitante una base militare straniera non dovrebbe addebitarsi. La spesa è stato ridotta a 188.9 miliardi ¥ (circa 2.1 miliardi $) nel budget del 2010, ma l’intesa rimane immutata dal punto di vista strutturale.
Sono passati circa 20 anni dalla fine della Guerra Fredda e durante questo ventennio il Giappone ha pagato circa 15 trilioni ¥ (circa 167 miliardi $ all’attuale tasso di cambio) per il mantenimento ed il recente restauro delle basi americane, per il suo contributo alla prima guerra del Golfo, per la spedizione del SDF nell’Oceano Indiano e in Iraq, etc.. Gli stessi USA sono ormai ammanettati a questo rapporto di alleanza.
Al tempo del cambio di regime, gli specialisti nelle relazioni tra USA e Giappone a Washington, al di là della preoccupazione per il futuro dei loro interessi particolari, iniziarono a provare dell’imbarazzo. Assieme ai loro colleghi in Giappone, cominciarono a strillare che “la proficua relazione tra USA e Giappone” non doveva essere sovvertita. Ogni alterazione dello status quo è, insomma, una perdita per loro. La parola chiave che hanno utilizzato a supporto del mantenimento dello status quo è “deterrenza”.
In effetti, durante gli otto mesi in cui si è consumato il voltafaccia di Futenma, la strategia di difesa americana è cambiata in modo sostanziale. Il profilo della politica di difesa dell’amministrazione Obama si è fatto chiaro. In marzo, Obama ha ammesso che il ruolo delle armi nucleari nella strategia di sicurezza nazionale è diminuito e ha sollecitato a porre fine al pensiero dominante nel corso della Guerra Fredda secondo cui la sicurezza era legata al bilanciamento delle minacce nucleari. In aprile, ha annunciato che gli USA non useranno armi nucleari contro paesi che non possiedono questo tipo di armi e che sono membri o che rispettano il Trattato di non proliferazione nucleare (TPN). In maggio, gli USA hanno ospitato a New York la conferenza di revisione del TPN e si sono fatti promotori dello sforzo per ottenere un appoggio quanto più condiviso ad un piano di azione per la pianificazione di un quadro che possa portare ad un mondo senza armi nucleari.
Inoltre, leggendo la Rivista quadriennale di difesa del Pentagono, pubblicata in febbraio, e il Rapporto sulla Strategia di Sicurezza Nazionale del mese di maggio, è chiaro che la strategia di sicurezza nazionale USA si trovi ora ad un punto di svolta. Ciò è parimenti evidente in un saggio, “Aiutando gli altri a difendersi da soli”, che il segretario alla difesa Robert Gates ha pubblicato nell’edizione di maggio/giugno di Foreign Affairs. Questi documenti testimoniano che l’abilità americana di organizzare operazioni militari su larga scala oltremare si è ridotta, imponendo un cambiamento che abbracci una politica di sostegno dalle retrovie come paesi alleati e che permetta alle parti in un conflitto di difendersi autonomamente. Il Pentagono ha anche annunciato un programma di tagli di bilancio per i prossimi cinque anni, cosa che indica che gli USA non sono più in grado di sostenere fiscalmente l’alto livello di spese militari che ha accompagnato le guerre in Iraq e in Afghanistan.
Dopo la fine della Guerra Fredda, l’amministrazione Clinton ha tagliato costantemente il budget militare e, nell’anno fiscale 2000, esso è stato ridotto a 294.5 miliardi $. Le spese si sono nuovamente gonfiate dopo l’11 settembre fino a raggiungere quota 728 miliardi $ nel 2010. Con il programma di riduzione delle spese nei prossimi anni è chiaro che la politica dell’amministrazione Obama miri a porre un termine alla politica di Guerra Fredda della deterrenza militare ed a tagliare i bilanci militari.
Tuttavia, per quanto riguarda il Giappone, questa svolta nella strategia di difesa americana assume una luce diversa. Il Giappone rappresenta, infatti, un’eccezione: non ci saranno chiusure di basi né riduzione di spese. Ci si potrebbe piuttosto aspettare una richiesta di aumentare addirittura l’onere della condivisione delle spese. Poiché il Giappone copre il 70% dei costi delle basi americane, è meno costoso mantenere le basi qui rispetto al territorio statunitense stesso, e mantenere il più alto numero possibile di basi in Giappone permette di evitare la necessaria contrazione delle spese. Dato che la strategia globale americana sta cambiando, quello che si profila sempre più importante sono il buonsenso e la lungimiranza del pensiero strategico giapponese.
Rivelazione numero 2: la struttura del pensiero fossilizzato nei media giapponesi
Il voltafaccia di Futenma testimonia che il Giappone non approccia i problemi considerandone gli aspetti fondamentali. Esso conferma, innanzitutto, che non c’è posto in Giappone oltre ad Okinawa che accetterebbe di ospitare una base americana. Alla fine di maggio Hatoyama ha chiesto ai membri dell’associazione nazionale dei governatori di ospitare una base sostitutiva di Futenma, ma nessuna prefettura si è offerta volontaria: una base è un problema che nessuno vuole avere vicino. Allo stesso tempo, il pretesto che le basi assicurino la sicurezza del Giappone e dell’Asia non viene messo in discussione e molti giapponesi sono convinti che la presenza delle basi sia inevitabile, vista la minaccia proveniente dalla Cina e dalla Corea del Nord. Si deve, insomma, ammettere che il Giappone esiste come paese sulla base del ragionamento deformato secondo il quale “non ci preoccupiamo delle basi finché restano ad Okinawa”.
Vorrei affrontare la questione dei mezzi di comunicazione giapponesi, che dovrebbero, in quanto tali, fornire ai cittadini dei punti di vista al riguardo. Il dibattere prolisso ed inutile sul problema di Futenma che sta coinvolgendo la nazione trova spazio anche nei media. Ho deciso così di andare a rileggere i commenti giornalistici sulle dispute di politica estera occorse negli scorsi decenni, incluse la conferenza di pace di San Francisco, la conferenza di Bandung e la revisione del trattato di sicurezza del 1960. Il deterioramento della qualità intellettuale degli articoli è innegabile e si può solo concludere che i giornalisti hanno perso di vista la ricerca dell’essenza dei problemi.
Per esempio, il commento su Futenma e sulla sicurezza USA-Giappone nel Nihon Keizai Shimbun, che offre il proprio punto di vista a coloro che vivono nel mondo del business, non è riuscito a fare un solo passo avanti rispetto al modello di Guerra Fredda. Il giornale ha sostenuto la guerra in Iraq e l’invio dell’SFD in Iraq e, lungi dall’ammettere il fallimento del conflitto iracheno, afferma, inoltre, che la presenza di forze americane in Giappone sia un investimento per la stabilità dell’Asia e che l’alleanza con gli USA sia il modo più economico per garantire la sicurezza del Giappone. Nell’asserire questo si legge poi che se nel regno del business l’economia giapponese dovrebbe funzionare all’interno di una relazione di mutua dipendenza con il resto dell’Asia, nell’agone politico l’alleanza USA-Giappone dovrebbe invece essere pronta a fronteggiare la minaccia posta dai vicini asiatici del paese. L’abisso tra queste due linee di pensiero è alquanto ridicolo.
Ci si poteva forse aspettare un tale sostegno allo status quo da parte del Nihon Keizai Shimbun, ma è stato proprio il liberale Asahi Shimbun a guidare l’equivoco mediatico su Futenma, riassunto da una lettera aperta dell’editore Funabashi Yoichi al primo ministro, datata il 5 maggio. In un certo senso tale lettera è scritta con equilibrio, secondo lo stile di Funanashi, ex corrispondente a Beijing e Washington. Tuttavia, man mano che il saggio si sviluppa con il suo prudente equilibrio, diventa ambiguo fino a confondere il senso delle argomentazioni esposte.
Questa è la tesi di Funabashi: “le basi americane in Giappone non sono solo atte a proteggere il Giappone, ma contribuiscono parimenti alla pace e alla stabilità dell’Estremo Oriente. I vicini del Giappone e gli USA guardano con preoccupazione ad ogni eventuale indebolimento di tale ruolo, che funge da deterrente nell’intera regione…per integrare la Cina all’interno di un ordine internazionale liberale, una alleanza solida tra USA e Giappone nell’area del Pacifico è indispensabile”. Egli continua, poi, citando i commenti di un funzionario amministrativo statunitense: “ che cosa pensa accadrebbe alle isole Senkaku se i marines lasciassero Okinawa? Dal giorno successivo vi svolazzerebbe una bandiera cinese”. Poi osserva che “il compito di proteggere le isole Senkaku dovrebbe essere assunto dalle forze di autodifesa e dalle guardie costiere del Giappone”, ma sottolinea “la crescente frustrazione degli USA, secondo cui le isole Senkaku dovrebbero essere utilizzate per risvegliare il Giappone dall’attuale torpore garantito dalla pace in cui versa”. In considerazione dell’”ambiguità strategica” dell’alleanza tra USA e Giappone, Funabashi è perfettamente consapevole che non vi è certezza che gli USA difenderebbero le isole Senkaku. Ma quello di cui dovremmo occuparsi oggi è di analizzare il vero significato del termine “deterrenza”. Dobbiamo liberarci dalla concezione che porta a congelare lo status quo e disegnare, di conseguenza, un quadro per la stabilizzazione regionale che sia appropriato ad un ordine internazionale post Guerra Fredda.
Il saggio di Funabashi mirava a indurre il primo ministro a riaffermare lo status quo, non certo a traghettare la politica giapponese verso un reale cambiamento. Che cosa anima Funabashi, un uomo che, in un libro del 1993, rivendicava il “potere civile attivo globale” come linea guida della diplomazia giapponese del post Guerra Fredda, a sostenere ora lo status quo? Questo è ciò su cui dobbiamo interrogarci.
Rivelazione numero 3: la relazione tra USA e Cina si è fortificata in seno ad una svolta strutturale globale
Il Dialogo Strategico ed Economico tra USA e Cina, svoltosi a Beijing alla fine di maggio 2010, ha confermato l’intento dei due paesi di evitare scontri e di consolidare i loro rapporti. L’amministrazione Obama ha esteso lo scambio a livello ministeriale inaugurato dall’amministrazione Bush per coinvolgere anche gli affari di sicurezza nazionale. Non c’è bisogno di rilevare l’enorme quantità di tematiche che potrebbero dare adito a seri contrasti tra USA e Cina: il valore del cambio dello yuan, il Tibet e il problema dei diritti umani, la vendita di armi americane a Taiwan, lo sviluppo di ordigni nucleari in Iran e Corea del Nord, senza dimenticare la più recente questione delle sanzioni alla Corea del Nord per l’affondamento della nave sudcoreana Cheonan.
Gli USA sono stati riguardosi nei confronti della Cina e hanno accuratamente evitato lo scontro sulle tematiche come il lancio di missili nordcoreani e i test nucleari di Pyongyang, in merito ai quali Washington è stata sostanzialmente sopraffatta dalla presa di posizione della Cina, che ha difeso la Corea del Nord come fosse un suo autentico protettorato, tanto che le sanzioni imposte dall’ONU si sono rivelate decisamente tiepide e tutt’altro che mordaci. Alcuni sostengono che mentre il mondo unipolare americano è diventato progressivamente sempre più multipolare, quello che sta emergendo è una struttura di vero potere di tipo G2. Detto altrimenti, l’ascesa della Cina ha incrementato l’importanza della coordinazione tra gli interessi americani e quelli cinesi per raggiungere un consenso globale. Se l’idea di un G2 è in parte un’iperbole giornalistica, è innegabile comunque che la considerazione che gli USA attribuiscono alla Cina sia notevole.
Secondo le statistiche americane, il commercio tra USA e Cina (considerando sia importazioni che esportazioni) ammontava, nel 2009, a 365.9 miliardi $, una cifra circa 2.5 volte maggiore rispetto a quello tra USA e Giappone ( 146.9 miliardi $). Un altro dato sorprendente è che l’anno scorso circa 700.000 americani visitarono il Giappone mentre il numero di turisti in Cina ammonta, per lo stesso periodo di riferimento, ad 1.71 milioni. Che sia deducibile dal movimento di persone o di beni, è un fatto incontestabile che la base dell’interrelazione economica tra USA e Giappone stia rapidamente cambiando.
L’intenzione di usare la deterrenza americana per contenere la Cina è irrefutabile, ma la teoria che la minaccia cinese debba essere affrontata dall’alleanza tra USA e Giappone è fuori luogo. Ed è questo il motivo per cui gli USA stanno cercando di consolidare un maggior livello di reciproca comprensione con la Cina piuttosto che con il Giappone. E Washington, nel frattempo, sta sfruttando il timore giapponese di essere tagliati fuori man mano che il rapporto tra USA e Cina si fa più stretto per attuare una strategia psicologica del tipo “Obama ha concesso solo 10 minuti a Hatoyama durante il summit, ma ha dato alla Cina…”, instillando la paura che il Giappone sarà isolato se non si allinea alla politica americana. Come lo è stato per molto tempo, il Giappone è abbastanza ingenuo da rendere davvero efficaci questi stratagemmi. Il paese dovrebbe, invece, senza trepidazioni, proporre un dialogo strategico a livello ministeriale con gli USA per poter affrontare direttamente il problema del futuro status dell’alleanza USA-Giappone.
50 anni dopo il rinnovo del trattato di sicurezza, un’indispensabile percezione di indirizzo storico.
Quest’anno cade il 150esimo anniversario del viaggio di Kanrin Maru attorno al Pacifico, che portò la prima delegazione ufficiale giapponese negli USA. Nel 1960, 100 anni dopo quel viaggio, si è assistito all’acceso scontro politico sull’estensione del trattato di sicurezza. Nessun giapponese che abbia vissuto nell’epoca del Kanrin Maru – il tardo periodo Edo e l’inizio dell’era Meiji – avrebbe mai immaginato di dover dipendere da un esercito straniero per garantire la sicurezza della nazione. La sconfitta del Giappone nelle guerra vi influisce pesantemente, ma ora, 65 anni dopo, quanto sono diventati sciatti i giapponesi?
Dal punto di vista del pensiero diplomatico giapponese postbellico continuiamo a cercare un modo per superare lo schema di Yoshida Shiregu (primo ministro tra il 1946 e 1947 e tra il 1948 e il 1954). Con la firma del trattato di pace di San Francisco nel 1951, il Giappone ha potuto riprendere velocemente posto nella comunità internazionale come estensione del campo occidentale ed intraprendere la strada della propria esistenza come potenza economica, scarsamente armata e alleata con gli USA. Il primo punto di svolta avvenne nel corso dell’amministrazione di Hatoyama Ichiro, che succedette a Yoshida come primo ministro nel 1954. Cercando di smarcarsi dalla politica estera di Yoshida, il nuovo governo ritornò, benché timidamente, all’interno del campo asiatico, partecipando alla conferenza afro-asiatica di Bandung, svoltasi in Indonesia nel 1955, durante la quale un incontro con il premier cinese Zhou Enlai riaprì le porte al commercio con la Cina. Solo il giorno seguente furono ristabilite anche le relazioni diplomatiche con l’URSS. Nonostante vi fossero dei limiti su quanto la politica estera giapponese potesse essere indipendente dagli USA e benché il “ritorno in Asia” abbia avuto luogo sempre all’interno dei margini stabiliti dall’alleanza con Washington, si trattò ad ogni modo di sviluppi inediti.
Poi venne la revisione del 1960 del trattato di sicurezza USA-Giappone, precedentemente negoziato nel 1951. Pare che circa 5.8 milioni di persone abbiano dimostrato contro il trattato in tutto il paese fino a quando la protesta culminò, il 15 giugno 1960, fuori dalla Dieta, con la tragica morte di uno studente dell’università di Tokio. Il Giappone fu travolto da uno straordinario furore collettivo anche perché i giovani abbracciarono gli insegnamenti del teorico politico Maruyama Masao e furono spronati dalla “logica dell’azione” a partecipare ai movimenti cittadini. I leaders giapponesi dell’epoca, dal primo ministro Kishi Nobusuke in giù, condividevano, del resto, con gli oppositori al trattato una profonda inquietudine per la razionalizzazione del rapporto di alleanza con gli USA.
Non si dovrebbe, comunque, travisare l’essenza della politica estera di Yoshida. Egli diede priorità all’armonia con gli USA, ma ciò non significa che appoggiasse un’estrema dipendenza o una subordinazione a Washington. Come le sue memorie e le testimonianze di quanti gli erano vicino testimoniano, egli credeva fermamente che “non può esserci uno stato senza uno spirito di indipendenza”. Fino alla revisione del trattato nel 1960 i suoi successori ne continuarono gli sforzi per ottenere un’alleanza militare più equa, ivi inclusa l’introduzione di un sistema di consultazione preventiva in merito alle basi americane in Giappone. Ma mano a mano che, dopo la sua morte nel 1967, la figura di Yoshida si faceva sempre meno nitida, i suoi imitatori iniziarono ad abbondare, fornendo tuttavia una visione distorta della sua politica estera. All’epoca della revisione del trattato di sicurezza, nel 1970, la volontà di riesaminare la relazione con gli USA era, così, già scivolata via dalla coscienza nazionale.
Ed in effetti, il rinnovo del 1970 fu contestato da un movimento di studenti ancora più radicale, la Nuova Sinistra, ma il primario obiettivo della lotta verteva sulle università stesse e per questo non divenne un moto popolare nazionale nei confronti della Dieta. Lo sforzo di ristrutturare le relazioni internazionali del Giappone fu abbandonato e il fatto che nel 1970 il Giappone organizzò anche l’Expo di Osaka è simbolico. La politica fu relegata ad un posto secondario. Gli anni ’60 sono stati caratterizzati da una rapida crescita economica e la popolazione, intossicata dai tempi dell’economia, non bruciava più di fermento politico. Nel 1960 il PIL pro capite ammontava a circa 500$, nel 1966 passò a 1000$ e, dal 1981, ha raggiunto i 10.000$: gli anni ’70 sono, insomma, stati davvero un’età d’oro.
Nonostante questo, gli scienziati politici come Nagai Yonosuke continuarono a scrivere analisi ed indagini riguardanti gli affari esteri. Nel suo Heiwa no daisho (Il prezzo della pace, 1967), egli ammise che “dopo essere stato sconfitto, il Giappone fu ingabbiato nella struttura bipolare del confronto USA-URSS non per scelta, ma per destino”. Al fine di sviluppare una “strategia diplomatica con diverse opzioni”, Yonosuke propose che il Giappone restaurasse le relazioni diplomatiche con la Cina ed avviasse una politica estera ortodossa. Entro i limiti imposti dalla Guerra Fredda, “per scoraggiare attacchi dai nemici e per ottenere libertà d’azione”, ritenne che il Giappone dovesse adottare una linea di pensiero basata su ciò che potremmo chiamare “astuzia” ed “estorsione da parte del più debole”.
Dopo lo shock di Nixon (il Presidente americano annunciò improvvisamente che avrebbe visitato Beijing) nel 1971 e alla luce del possibile ravvicinamento tra USA e Cina, Nagai pubblicò l’acuto “Trappole di diplomazia alleata” nella rivista Chuo Koron. Non si può che storcere il naso al pensiero che, quasi 40 anni dopo, il Giappone tema ancora di essere tagliato fuori da una possibile convergenza tra USA e Cina, ma ammiro l’elasticità intellettuale del tentativo di Nagai di trovare un modo per aumentare la libertà di scelta del Giappone all’interno dei confini della Guerra Fredda, nel contemporaneo eterno conflitto tra “sicurezza” ( il welfare) e “indipendenza” (l’onore).
Sono rimasto sorpreso dall’apprendere che il nuovo primo ministro Kan Naoto abbia rilevato nel corso di un discorso che, quando era uno studente universitario, il suo pensiero sulle relazioni internazionali fu influenzato da Nagai. “Quando ero giovane ho partecipato a numerose sessioni di studio sul Professor Nagai Yosuke, il cui famoso libro Heiwa no daisho sosteneva che gli affari internazionali dovrebbero essere fondati sul realismo, piuttosto che sull’ideologia” – disse Kan Naoto, a difesa della sua volontà di perseguire una politica imperniata sul realismo. Ma se “realismo” significa mantenere lo status quo come una costante e non cercare alcun cambiamento, è ovvio che si tratti di una falsa lettura di Nagai.
Vent’anni dopo che il mondo si liberò dai vincoli della Guerra Fredda, quando “la strategia diplomatica con diverse opzioni” che Nagai aveva perseguito è diventata una reale possibilità, ci si rende conto che il Giappone non mira ad opzioni diplomatiche flessibili, ma resta legato mani e piedi alla visione del mondo della Guerra Fredda. L’assenza di politici esperti mossi da vigore intellettuale e il languore dei media sono certamente un fattore di disturbo.
Quello che serve non è un semplice “rafforzamento” dell’alleanza tra USA e Giappone, quanto piuttosto la sua “evoluzione”, fondata su osservazioni profonde. Questo è ciò per cui dobbiamo impegnarci con decisioni ponderate. In virtù della lezione appresa nel corso del voltafaccia di Futenma, potremmo concepire il seguente approccio modulare che potrebbe provocare una partecipata evoluzione dell’alleanza.
Primo passo: creare una piattaforma di dialogo strategico USA-Giappone.
Al posto delle discussioni a livello di Stato Maggiore in merito alla riallocazione della base di Futenma, si dovrebbe inaugurare un dialogo strategico USA-Giappone a livello ministeriale, che coinvolga i ministri dell’Economia come anche quelli della Difesa e degli Affari Esteri, al fine di ottenere una visione globale della relazione di alleanza. L’alleanza è presentata come un rapporto a sola dimensione militare e USA e Giappone non hanno ancora mai siglato un Accordo di commercio. L’obiettivo dovrebbe essere, allora, quello di rafforzare la cooperazione economica tra i due paesi attraverso meccanismi come un accordo di partnership economica che possa fungere da modello per la cooperazione nell’intera regione dell’Asia e del Pacifico; considerando, invece, la sfera della difesa, esso dovrebbe servire a riesaminare la relazione all’interno di un nuovo contesto in Asia, consentendo di eliminare progressivamente la struttura attuale di dipendenza eccessiva.
Secondo passo: esaminare la “deterrenza” delle basi USA in Giappone e indirizzarsi verso un uso condiviso delle stesse.
Proprio come fece la Germania nel 1993 quando portò al tavolo della discussione l’allora funzionamento di tutte le basi americane nel proprio territorio ed ottenne sia una graduale riduzione delle stesse che una revisione dell’accordo sullo stato delle forze (SOFA), così la questione concernente tutte le basi e i servizi USA in Giappone dovrebbe essere affrontata dalla prospettiva della deterrenza, mentre, ex art. 2 del SOFA, quelle che ormai vengono considerate inutili dovrebbe passare sotto controllo giapponese. Se ancora oggi una maggioranza del popolo giapponese ritiene che l’eliminazione delle basi USA sia rischioso nell’attuale Estremo Oriente, benché il loro potere deterrente sia piuttosto ambiguo, allora la soluzione potrebbe essere quella di passare da un uso esclusivo americano ad un utilizzo congiunto sotto controllo giapponese. Questo è quanto accade a Singapore. Quando gli USA furono costretti ad abbandonare le proprie basi nelle Filippine in modo da evitare un vuoto militare nel Sud-Est Asiatico, Singapore accettò che gli USA ne compartissero i servizi mentre Singapore ne manteneva il controllo.
La natura dell’attuale SOFA è chiaramente una estensione dello status delle basi esistente durante l’occupazione americana e l’accordo deve essere rivisto in modo da attribuire al Giappone la piena sovranità delle basi. In effetti, la dichiarazione congiunta della fine di maggio a proposito del problema di Futenma statuisce che “le due parti intendono valutare delle opportunità per consentire un’espansione dell’uso condiviso dei servizi tra le forze USA e l’SDF” e questo è, senza dubbio, un primo passo importante verso il riesame della relazione. Anche coloro che sostengono il potere deterrente dell’esercito USA posso facilmente comprendere l’importanza del ripristino della sovranità.
Terzo passo: stabilire un’alleanza USA-Giappone senza basi militari e un’appropriata struttura di autodifesa.
Nel passaggio successivo, monitorando nello stesso tempo gli sviluppi nell’Est Asia (per esempio la riunificazione della penisola coreana), si mira a realizzare il ritiro delle basi statunitensi dalle Hawaii e da Guam. In un tale scenario una delle opzioni possibili per rispondere alla crisi dell’Estremo Oriente è di mantenere come deterrente militare l’invio di forze di emergenza, del cui finanziamento e dei cui servizi si dovrebbe far carico il Giappone. Questo rappresenterebbe un’evoluzione verso un’alleanza di sicurezza senza reiterare il problema delle basi.
Certo, per ottenere questo è necessario che il Giappone elabori un piano concreto con cui si assuma le responsabilità per la propria difesa. Si tratterebbe di uno scenario esclusivamente difensivo, in cui il Giappone dovrebbe abbandonare la tentazione di trasformarsi in una potenza militare e, dunque, non rappresentare una minaccia militare per i propri confinanti. Una valida strategia diplomatica nella quale il Giappone svolga il ruolo di guida nella costruzione di un clima pacifico nell’Est Asia – attraverso misure quali ad esempio un trattato che istituisca nel nord-est asiatico una zona scevra dal nucleare – è un indispensabile prerequisito.
Dobbiamo tenere bene a mente che l’era nella quale la sicurezza e la stabilità del Giappone erano garantite dalla diplomazia alleata della Guerra Fredda sta volgendo al termine. La diplomazia alleata aveva un senso laddove fosse chiaramente identificabile un campo nemico, ma in un’epoca di partecipazione universale all’ordine mondiale il concetto di nemico diventa complesso mentre la pianificazione diviene più flessibile.
Durante i miei viaggi mi viene spesso chiesto cosa penso del fatto che la Cina stia crescendo mentre la presenza del Giappone sta diminuendo. Vi sono numerose ragioni che possono spiegare questi eventi, ma in quanto giapponese credo che sia importante osservare che alla base della verace diplomazia cinese vi è un profondo senso di sicurezza nella coscienza storica. Nei 170 anni dalla guerra dell’oppio ci sono stati periodi in cui la Cina ha subito umiliazioni per mano del colonialismo delle grandi potenze, ma nel corso della storia, dalla rivoluzione Xinhai del 1911 all’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, fino al ritorno di Hong Kong nel 1997, la Cina ha saputo restaurare un valido senso di indipendente fiducia in sé. Ed è proprio questo sentimento del poter contare su se stessi che si è andato perdendo in Giappone.
Non è ora il caso di elogiare a pappagallo “la benevola relazione USA-Giappone”, visto l’attuale stato delle basi americane. Quello che dobbiamo fare è raggiungere la stabilità nell’est asiatico riducendo le basi USA, in modo che l’alleanza USA-Giappone evolva in qualcosa che sia davvero meritevole di fiducia.
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.