Diceva Oswald Spengler che il pericolo che già ai suoi tempi incombeva sulla civiltà bianca era doppio: da una parte c’era l’imminente “rivolta dei popoli di colore” contro il dominio colonialista degli Stati occidentali; dall’altra parte esisteva un pericolo interno, la rivolta dei ceti proletari, guidata dalla casta sobillatrice dei sindacalisti. Il panorama che il filosofo della storia dipingeva quasi cent’anni fa è noto: l’Occidente avrebbe arrestato il suo inevitabile declino solo affidandosi a figure di Cesari dittatoriali, che attraverso regimi autoritari avrebbero potuto liquidare sia la minaccia esterna sia quella interna. Indubbiamente, l’occhio di Spengler era quello del profeta. Non era facile, al culmine del potere mondiale degli Stati nazionali euro-occidentali, dar forma a simili prognosi. Per certi versi, soltanto oggi, sotto la pressione degli eventi quotidiani, anche i più tardi si rendono conto che l’Occidente (il mondo “bianco”) vive il suo epocale arretramento dinanzi alla crescita dei popoli emergenti del Terzo Mondo. Anche se, nel frattempo, il proletariato euro-occidentale, una volta uscito di scena il socialcomunismo e affermatasi la società consumista di massa, è stato sostituito dal nuovo proletariato degli immigrati di colore, insediatosi all’interno degli Stati attraverso la massiccia infiltrazione immigratoria e andando grosso modo a ricoprire il medesimo ruolo destabilizzatore della vecchia classe lavoratrice sindacalizzata.
Spengler ragionava nei termini di un conservatore imperialista prussiano. Vedeva le cose in chiave planetaria, secondo i principi di un “nazionalismo razziale” aristocratico e fortemente gerarchizzato. Non percepì il ruolo che le masse moderne avrebbero potuto recitare nel ridisegnare scenari rivoluzionari, secondo nuovi assetti di potere. Non vide l’asse dei “popoli giovani”, come li chiamava Moeller van den Bruck (essenzialmente Italiani, Tedeschi, Russi), da lanciare alla conquista dell’eredità dei popoli in declino, quelli atlantico-occidentali a guida liberista. Spengler dopotutto era l’uomo della grande industria tedesca e del tradizionale padronato agrario, un sistema che mirava a controllare i circuiti economici mondiali: una concezione “all’inglese”, diciamo, cioè schiettamente imperialista, figlia diretta della politica di competizione mercantile già seguita dal Secondo Reich, con esiti catastrofici. Il suo “socialismo prussiano” non era in fondo che un potente e affascinante argomento a favore della dominazione globale, per la cui gestione le antiche caste nobiliari tedesche avrebbero dovuto rilanciarsi saldandosi alle classi dirigenti franco-anglosassoni. La sconfitta del 1918 gli suggerì la possibilità che la Germania solo attraverso il “cesarismo” avrebbe potuto tornare a dire la sua parola nel gioco del potere mondiale, inserendosi nel “cartello” delle potenze bianche.
Tali argomenti – centrali in quella che è stata chiamata la “Rivoluzione Conservatrice”, spesso più conservatrice che rivoluzionaria – non potevano piacere a chi, dalla sconfitta tedesca e dai rivolgimenti post-bellici (crollo di imperi, rivoluzioni, protagonismo delle masse, vertiginosa ascesa del macchinismo industrialista, etc.), aveva tratto un altro tipo di lezione. Il Fascismo, ad esempio. Il quale, lungi dal voler rinnovare i ceti liberali con un più aggressivo imperialismo economico e politico, si proponeva proprio di abbattere quel potere per sostituirlo con nuove aristocrazie popolari, avendo di mira la costruzione di una civiltà di nuovo tipo, innestata su forme di socialità avanzata e di espansionismo su base non di sfruttamento economico, ma popolazionista e insediativa. Il Nazionalsocialismo, che ebbe una sua robusta ala “sinistra”, era largamente attestato su queste stesse posizioni. C’è racchiusa, in questa dinamica politica fra le diverse interpretazioni sui futuri assetti mondiali, un’intera stagione di ideologia politica europea, che ha avuto ed ancora ha un suo peso sulla percezione degli eventi, anche quelli attuali. E che quindi ci è maestra circa la possibilità di leggere correttamente quanto anche oggi accade intorno a noi. La presente situazione planetaria, infatti, è erede dell’errata presa di posizione che una parte consistente dell’Europa prese nei decisivi anni Trenta-Quaranta, volendosi saldare all’Occidente atlantico anziché agli spazi euro-asiatici.
Un piccolo libro da poco pubblicato dalle Edizioni All’insegna del Veltro ci immerge in queste inquadrature: si tratta di Contro Spengler, scritto nel 1934 da Johann von Leers in polemica con il libro spengleriano Anni decisivi, uscito in quel medesimo anno e divenuto testo famoso di ideologia politica del Novecento. Parliamo dunque di un momento importante di lotta ideologica contemporanea, niente affatto un dettaglio, ma un elemento centrale, che ci parla ad un tempo di quegli anni ma, con uguale profondità, anche delle ricadute che quelle antiche polemiche hanno drammaticamente avuto sul destino dell’Europa, fino agli attuali esiti di inabissamento della capacità europea di avere una politica propria.
Von Leers è certamente una personalità tanto poco nota al grande pubblico, quanto interessante. Claudio Mutti, nelle pagine introduttive al testo, ne ricorda l’appartenenza ai Freikorps, l’impiego per un periodo nel corpo diplomatico, l’iscrizione alla NSDAP nel 1929, la collaborazione alla rivista “Der Angriff” di Goebbels e la fondazione, nel 1932, del periodico “Nordische Welt”, espressione della Società per gli studi della preistoria germanica diretta da Herman Wirth. La vicinanza con le posizioni del nordicismo razzialista, la sua collaborazione al periodico “Nationalsozialistische Monatshefte”, una delle principali tribune ideologiche della NSDAP, facevano di Leers uno dei maggiori animatori ideologici völkisch, con addentellati nella “sinistra” del partito, a favore della quale aveva finanche intrattenuto fugaci rapporti col Fronte Nero di Otto Strasser. Lo stesso Leers, nel dopoguerra, lo vedremo accanto a Nasser in qualità di consigliere politico, inteso a costruire un fronte dei popoli arabi raccolti dai partiti socialnazionalisti baathisti, in lotta contro l’egemonia atlantista. Tale personaggio si presenta come ideale per dar conto, dal punto di vista storiografico, delle differenze di approccio ideologico fra il comparto socialista della NSDAP, e quel vasto ambiente di fiancheggiatori nazionalpopolari – di solito riferito alla Rivoluzione Conservatrice – che nel 1933 si affiancò al nuovo regime spesso identificandovisi, ma altrettanto spesso operando distinguo e precisazioni nel senso di una franca ostilità per gli aspetti popolari, ovvero “populisti”, manifestati dalla dirigenza nazionalsocialista. E in specie da quella SA, che proprio nel 1934 (anno di uscita del pamphlet di Leers e del libro di Spengler) fu al centro di una cruenta quanto conosciuta crisi politica.
Uomini di sentimento nazionalpatriottico come Spengler erano favorevoli a concezioni di competizione economica mondiale sulla falsariga della vecchia politica imperiale del Kaiser. Ed avevano in dispregio le concessioni a politiche economiche di tipo socialista. Tali posizioni Leers tacciò di reazionarismo e liberismo scatenato. Spengler ai suoi occhi diventava espressione del potere liberale, il cui razzialismo bianco “panariano” finiva per agevolare il grande capitalismo anglo-francese, a detrimento di nuovi posizionamenti geo-strategici. Che invece – secondo Leers – dovevano andare nel senso di un’alleanza con la Russia e coi popoli assoggettati dall’internazionale economica. «Oswald Spengler – scriveva Leers – è assolutamente l’uomo degli strati sociali che vivono dell’esportazione ad ogni costo, della penetrazione imperialistica del mondo. Anche qui egli è, come nella sua opposizione al lavoratore, un imperialista antebellico dell’Europa occidentale che arriva fino alle estreme conseguenze, ma non è un nazionalista, tanto meno un nazionalsocialista». La biforcazione tra le due posizioni era semplice: da una parte uno Stato organico popolare; dall’altra un dirigismo mondialista e grande-capitalista. Nel nome della “razza bianca” Spengler di fatto spianava la strada al liberismo cosmopolita. Al suo opposto, stava la politica mondiale del Terzo Reich, che avrebbe dovuto affiancare i popoli del Terzo Mondo nemici del capitalismo occidentale, ed unirsi con gli spazi russi per creare un blocco euro-asiatico. La storia, come sappiamo, nel momento in cui Hitler imboccò la strada fatale del Drang nach Osten, andò diversamente. Ma quelle idee di antagonismo anti-mondialista ed eurasista, nate tanti decenni fa, rimangono drammaticamente attuali: un’Eurasia dei popoli contro un Occidente atlantista delle banche.
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