Sono ormai diverse settimane che, sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, tiene banco il caso di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata a morte nel suo paese per aver assassinato, in complicità coll’amante, il proprio marito.

Fiumi d’inchiostro e di parole sono stati spesi per difendere la Ashtiani, il cui caso ha mobilitato personaggi più o meno famosi, che vanno dalla signora Carla Bruni in Sarkozy al calciatore Francesco Totti. Stridente è il contrasto col silenzio tombale che avvolge invece la sorte di molte altre “Sakineh”, donne che hanno affrontato o stanno per affrontare la pena di morte nel proprio paese.

Queste donne non hanno nomi orientali, non sono di religione musulmana e non hanno il capo velato. Incredibilmente, ciò sembra essere sufficiente perché i milioni di “attivisti dei diritti umani”, che si stracciano le vesti per la Ashtiani, si disinteressino totalmente della loro causa.

Il caso più eclatante è quello, attualissimo, di Teresa Lewis, che ha molte analogie con la vicenda della Ashtiani. La signora Lewis, infatti, è stata condannata per aver agevolato l’omicidio del marito e del figliastro al fine d’intascare il premio dell’assicurazione; gli assassini materiali sono due uomini che, per ammissione stessa d’uno di loro, hanno circuito la donna. Teresa Lewis, infatti, ha un fortissimo deficit intellettivo, dimostrato anche tramite la misurazione del quoziente d’intelligenza. Ciò malgrado, sarà giustiziata proprio in queste ore: il governatore della Virginia, Bob McDonnell, le ha rifiutato la grazia. È emblematico che il conservatore McDonnell si sia schierato apertamente in difesa dell’Ashtiani, e non stupisce che la stampa iraniana abbia sollevato il caso della Lewis, accusando quella occidentale d’applicare due pesi e due misure.

Ma il caso di Teresa Lewis è solo la punta di un iceberg, quello della pena di morte negli USA – paese non di meno tra i più impegnati nella causa pro-Ashtiani. All’inizio di quest’anno erano 3.261 i detenuti nei bracci della morte statunitensi: sei volte di più che nel 1968, il triplo del dato relativo al 1982. Dal 1900 ad oggi sono cinquanta le donne giustiziate negli USA: oltre un terzo erano nere o asiatiche, benché le loro etnie rappresentino, assieme, nemmeno il 17% della popolazione totale degli USA.

Inoltre, la storia del paese registra 364 esecuzioni di minorenni o condannati per reati compiuti durante la minore età. Nel Novecento il più giovane fu il nero George Junius Stinney Junior, ucciso nel 1944 a soli 14 anni. Il 23 marzo di quell’anno due bambine bianche furono trovate uccise nella Carolina del Sud: il giorno stesso il ragazzino di colore fu arrestato, interrogato da poliziotti bianchi in assenza del suo avvocato, ed in un’ora indotto a confessare il delitto. Il processo si tenne un mese dopo, e durò due ore in tutto: la giuria impiegò 10 minuti a raggiungere il verdetto di colpevolezza. Ottanta giorni dopo il delitto, il giovanissimo George Junius fu messo su una sedia elettrica, che l’uccise dopo circa 4 minuti d’agonia. A qualche migliaio di chilometri di distanza, le truppe statunitensi (coi neri rigidamente confinati in propri battaglioni, ma comandati da ufficiali bianchi) stavano combattendo contro la Germania nazista, in quella che sarebbe stata glorificata a posteriori come crociata anti-razzista d’una nazione che, tuttavia, a casa propria abolì la segregazione razziale solo nel 1968.

Dal 1976, anno in cui la pena di morte fu reintrodotta negli USA dopo la breve sospensione imposta dalla Corte Suprema, sono 22 le esecuzioni che hanno colpito minori all’epoca dei fatti incriminati, e talvolta persino dell’esecuzione. Il caso più recente è quello di Leonard Schockley, asfissiato in una camera a gas nel 1959, quand’era diciassettenne. Anche Schokley era nero. Nel 2005 la Corte Suprema ha proibito di comminare la pena di morte per reati compiuti durante la minore età: l’ultimo a subirla è stato quindi Scott Hain, giustiziato nel 2003.

Si è più volte sottolineata l’identità etnica dei condannati perché la questione del razzismo è spesso sollevata da chi critica il sistema giudiziario statunitense. I neri sono il 12% della popolazione, ma dal 1976 ad oggi le esecuzioni hanno riguardato per il 34% afro-americani. La tendenza non è destinata ad invertirsi, se consideriamo che il 41% degli attuali detenuti nei bracci della morte statunitense sono neri. Ancor più rilevante è la razza della vittima, dato che a tale proposito non vale l’obiezione che, forse, i neri delinquono più dei bianchi. Benché le vittime d’omicidio siano per metà bianche e per metà nere, l’80% delle condanne a morte (dal 1976 a oggi) sono state comminate per l’assassinio di un bianco.

L’omicidio non è l’unico reato punibile con la morte negli Stati Uniti d’America: sono passibili di pena capitale anche tradimento, spionaggio, terrorismo, stupro, rapimento, dirottamento, traffico di droga e spergiuro. L’ultimo condannato ad essere ucciso per un reato diverso dall’omicidio è stato il trentottenne James Coburn, nel 1964 mandato sulla sedia elettrica per una rapina. Demarcus Sears, attualmente detenuto in Georgia, potrebbe presto rubargli il poco invidiabile primato, essendo in attesa d’esecuzione dopo una condanna per rapimento aggravato.

Queste poche righe non vogliono sollevare il problema dell’accettabilità o meno della pena di morte. Su questo tema esiste un ampio dibattito, con opinioni contrapposte. Ciò che inquieta è la differenza di interesse, giudizio ed atteggiamento che l’opinione pubblica italiana (ed occidentale in genere) mostra di fronte a casi analoghi, ma riguardanti paesi diversi. La vicenda di Sakineh Ashtiani e quella di Teresa Lewis s’assomigliano fortemente: entrambe hanno aiutato il proprio amante ad uccidere il marito. Alcuni elementi, tuttavia, fanno pensare che il caso Lewis dovrebbe essere prioritario per gli oppositori della pena di morte. Infatti, la Lewis morrà in queste stesse ore, mentre il caso della Ashtiani è ancora al vaglio degl’inquirenti, e c’è pure la possibilità che finisca assolta. Si potrebbe aggiungere che la Lewis è mentalmente minorata, a differenza della Ashtiani, e ciò costituisce una sorta di attenuante per la giurisprudenza di numerosi paesi.

Eppure, tutte le voci o quasi si sono alzate solo per la Ashtiani. Cosa ha determinato questa differenza di trattamento, questo rovesciamento di priorità logiche? Presumibilmente, il comportamento dei media di massa. Il caso della Lewis ha valicato i confini degli USA solo negli ultimi giorni, mentre quello della Ashtiani tiene banco da settimane. Inoltre, vuoi per incompetenza vuoi per malafede, numerose sono state le imprecisioni giornalistiche nel raccontare la vicenda iraniana. Ancora oggi certi cronisti affermano che Sakineh Ashtiani sarebbe stata condannata (in realtà deve ancora arrivare la sentenza definitiva) per “adulterio” (in realtà per complicità in omicidio) alla “lapidazione” (in realtà rischia l’impiccagione: dal 2002 in Iràn c’è una moratoria su questa forma particolarmente brutale ed odiosa di esecuzione). Non è difficile capire perché i principali media di paesi del Patto Atlantico abbiano dato tanto risalto (e tanta distorsione) al caso Ashtiani, mentre con incredibile freddezza hanno taciuto del caso Lewis fino a pochi giorni prima dell’esecuzione. E non è difficile capire perché l’opinione pubblica di quei paesi si mobiliti facilmente in difesa d’una condannata del paese musulmano, ignorando la sua omologa del paese cristiano. Perché è più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui, che ammettere d’avere una trave nel proprio.

* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).


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