In principio era Maastricht. 1992. Questo il nodo politico dell’era contemporanea che ha definitivamente attuato quanto era stato immaginato dai padri costituenti della Ceca, il più innovativo accordo internazionale tra Paesi del continente Europeo.

Quando si parla di Unione Europea o dei suoi sistemi precedenti, bisogna avere chiaro che si sta prendendo in esame un accordo internazionale. Per quanto il sistema delle percezioni dei cittadini e degli Stati abbia avuto un’evoluzione nel tempo, l’Unione Europea è un’organizzazione che prende vita da un trattato internazionale ed emana norme derivanti da questo trattato, non è uno Stato unitario e nemmeno un sistema di tipo federale. Può essere, volendo, paragonata ad una Confederazione di Stati. Sei Paesi, i fondatori, hanno ritenuto di studiare e sperimentare una convergente forma di integrazione, con uno scopo prioritario: evitare altre guerre totali su suolo europeo e, al contempo, ricostruire economicamente quanto era andato distrutto dopo il conflitto.

Il tentativo è lodevole. L’obiettivo del trattato era chiaro, creare un’economia integrata tra tutti i Paesi aderenti, sulla base del principio di solidarietà tra gli Stati membri.[1]

Nel 1992, quando si abbandonarono le Comunità e nacque l’Unione, era appena caduto il muro di Berlino, la Germania si era appena riunificata, era appena collassata l’Unione Sovietica, si era appena allontanata la minaccia nucleare. Il mondo viveva uno spirito di rampante positivismo. La Storia era arrivata, nell’idea di molti, alla sua conclusione. Il mondo era per così dire, terminato. Proprio nel 1992 Francis Fukuyama scriveva il celebre saggio “La fine della Storia”, testo che rende largamente l’idea di quale fosse lo spirito di quell’epoca, a noi così vicina, ma apparentemente già così lontana.[2]

A partire da quel ’92 presero progressivamente forma le ultime Istituzioni che hanno permesso l’attuale integrazione economica. Passaggio focale di questa integrazione, oltre all’abbattimento delle barriere ai movimenti di capitali, è l’Unione Monetaria.

Quando si fa riferimento al sistema Euro è bene considerare la storia monetaria che ha portato alla valuta condivisa: la moneta unica non è stata ideata repentinamente. Ben prima che l’Euro fosse anche solo un progetto, infatti, esistevano già strumenti di controllo della politica monetaria dei Paesi.

In particolare, dopo che Nixon nel 1971 fece crollare il sistema di Bretton Woods del ‘44, che prevedeva un apparato di cambi fissi legati al dollaro il quale era a sua volta legato all’oro, i Paesi dell’allora Comunità Europea diedero vita al cosiddetto “serpente monetario” e, successivamente (nel ’79), al Sistema Monetario Europeo (SME), entrambi sistemi di cambi fissi, nel primo caso ancorati al dollaro e nel secondo all’ECU, una moneta artificiale.

La motivazione principale di queste scelte era di ridurre il rischio di cambio tra le valute.[3] Se ciascuno dei Paesi partecipanti ad un mercato unico ha una moneta libera di fluttuare e quindi di rivalutarsi o svalutarsi, di conseguenza i valori delle vendite di beni attraverso le frontiere vengono alterati dal valore di scambio della moneta, il tasso di cambio, causando inaspettati guadagni o perdite da parte di esportatori ed importatori. Avendo invece una certezza su quale sia il cambio, sostanzialmente fisso, ad esempio tra la Lira ed il Franco, un venditore italiano non teme di perdere danaro nel momento in cui deve essere pagato in Franchi francesi. Stesso ragionamento vale anche per gli investimenti in titoli di Stato.

Fu proprio nel 1992 però che, a seguito di attacchi speculativi alla moneta italiana e a quella inglese, il Sistema Monetario Europeo collassò e, sul tavolo della nascente Comunità Europea, venne proposto definitivamente di creare una moneta unica. La valuta unica europea, inutile dirlo, avrebbe reso irreversibile il problema dell’uscita di uno Stato dall’accordo di cambio fisso. In altri termini, mentre è ben facile per un Paese uscire da un sistema di cambi fissi, uscire dall’Euro può essere oggi particolarmente costoso per un’economia nazionale. Il sistema che conosciamo oggi è pertanto difficilmente mutabile. L’armonizzazione delle economie tramite l’introduzione della valuta unica ha però portato con sé alcune difficoltà strutturali, ed ha cambiato repentinamente gli strumenti di politica economica a disposizione dei governi.

Il primo vero banco di prova dell’Euro è stato quello della crisi economica che nel 2008 ha investito il globo, in particolare quello occidentale. In questa occasione il sistema euro ha dimostrato una forte incapacità a reagire positivamente agli shock della crisi. In particolare, l’Unione ha faticato ad intraprendere una linea di politica monetaria che soddisfasse le esigenze dei Paesi in crisi e non ha dimostrato di possedere strumenti efficaci di controllo della politicia fiscale dei Paesi membri.

Non appena i Paesi hanno attuato politiche fiscali espansive, aumentando la spesa pubblica, per porre un freno alla crisi economica e stimolare il PIL, il debito degli Stati è aumentato sensibilmente, mettendo a repentaglio la solidità dei conti pubblici di alcuni di questi. L’instabilità fiscale di bilancio è diventata un’occasione per gli attacchi speculativi ai debiti sovrani degli Stati.

Il primo Paese a subire il colpo è stato la Grecia, con la crisi della quale si è aperto il trend di divario crescente tra i rendimenti dei titoli di stato emessi dalla Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS) e quelli emessi dalla Germania. L’acronimo PIGS o PIIGS, “maiale” in lingua Inglese, è emblematico della considerazione di larga parte del mondo giornalistico europeo nei confronti del Paesi c.d. periferici.[4]

Da questo focus sui conti pubblici il tanto celebre concetto di “Spread”, che non è altro che il differenziale di punti percentuali di rendimento tra i titoli di stato di un Paese e quelli della Germania, usata come modello di riferimento. Quando un Paese è costretto ad alzare drasticamente il livello di rendimento di un suo titolo di Stato, lo scopo del rialzo è quello di attrarre investitori per un bene finanziario che è sempre meno attraente perché meno sicuro. Questa necessità ha fatto presto avviare una spirale negativa. Gli economisti la chiamano ‘profezia che si autoavvera’. Più i titoli alzano il loro rendimento, più dimostrano di essere rischiosi e, più sono rischiosi, più lo Stato è costretto ad alzarne il rendimento. Questo è un indicatore della possibilità di insolvenza del Paese e del vituperato timore di fallimento. Non esistendo più le monete nazionali, questi Paesi non hanno più la possibilità di utilizzare lo strumento monetario per fare fronte a crisi del debito. Non possono più utilizzare la moneta di proprietà per ripagare gli enormi debiti. Sono, in tal senso, succubi della situazione. L’unica scelta che possono percorrere è quella della cosiddetta austerità, con le conseguenze che conosciamo in termini di stagnazione economica, soprattutto nel nostro Paese.

La crisi all’interno dell’eurozona ha focalizzato quindi l’attenzione su due problematiche tra loro dipendenti: in primis si sono resi evidenti gli squilibri già esistenti tra i Paesi membri. Economie e apparati statali così differenti avevano necessità di essere più armonizzati prima di fare il passo verso l’Unione Economica e Monetaria. In secundis, si è palesata la grande incapacità di funzionamento di un Mercato Unico che sebbene abbia frontiere commerciali comuni, moneta unica, ha ancora sistemi fiscali totalmente diversi e, parimenti, debiti differenti.

A fronte di questa apparentemente inconciliabile dicotomia, ha recentemente avuto nuovo successo una teoria che sottolinea l’importanza degli effetti di una stessa moneta in sistemi che possono essere ritenuti non pienamente compatibili. È la Teoria della Aree Valutarie Ottimali (AVO), la quale dimostra come una moneta unica non sia sempre benefica, ma è necessario possedere economie strutturalmente compatibili al fine di possedere, in una stessa area, la stessa valuta.

La Teoria AVO, inaugurata da Mundell nel lontano 1961[5], poi ripresa da McKinnon e Kenen negli anni immediatamente successivi, si è concentrata, nell’ambito dell’analisi costi e benefici di un’unione monetaria, sull’aspetto relativo ai vantaggi della creazione di un’area valutaria comune oltre che a definire le convergenze necessarie per crearne una.

In primis è fondamentale che, tra i Paesi che decidono di formare un’unione monetaria, ci sia un alto grado di apertura ed integrazione economica. Se si analizza il dato dei singoli Paesi del mercato UE in termini di esportazioni intracomunitarie dopo pochi anni dall’introduzione dell’Euro, si nota come in realtà le economie più integrate siano quelle del centro Europa. Partendo dal Belgio e Lussemburgo che hanno un elevatissimo grado di apertura, del 68,7% nei confronti degli altri Paesi UE, si arriva fino ad Italia e Regno Unito che si attestano rispettivamente al 14 ed al 9,5. Non sono da meno la Spagna al 11,7%, Portogallo e Grecia.[6]

Tra gli altri criteri che portano a definire un’Area di valuta unica ottimale rientra il concetto di simmetria degli andamenti economici, che possono portare a quelli che Mundell stesso definisce “shock”. Tra i Paesi che compongono un’area valutaria ottimale, solitamente i cicli economici sono simmetrici. Sia in momenti di espansione che di recessione, o crescono mediamente tutti assieme o altrimenti sono tutti in crisi. Questo spiega anche perché, se vi dovesse essere una crisi asimmetrica tra Stati membri di un’unione monetaria, la Banca Centrale avrebbe grosse difficoltà ad attuare una politica monetaria efficace per entrambe le economie nazionali. È quanto sembra stia accadendo ad oggi con la BCE, la quale sta attuando una politica monetaria fortemente espansiva per stimolare la domanda aggregata dei Paesi in stagnazione economica, quali l’Italia, la Grecia, la Spagna. Questa politica non va a genio però alla Germania, la quale auspica invece una politica tendenzialmente restrittiva che miri a mantenere alto il potere d’acquisto della moneta e porti in alto i tassi di interesse al fine di rendere appetibili i suoi titoli di debito, attualmente molto solidi.

In ultima istanza, è importante osservare il mercato del lavoro. In un’unica area monetaria, la flessibilità lavorativa tra i Paesi deve essere alta. Questo è utile a riequilibrare il mercato del lavoro dell’intera unione a seguito di una recessione.  Con flessibilità lavorativa si intendono l’elasticità dei salari e la piena mobilità della manodopera, sia essa specializzata o meno.

In altri termini, a seguito di uno shock in un’area valutaria, i salari devono potersi riequilibrare a seconda della situazione del mercato dell’unione. Essendo un’economia unica, se alcuni salari rimangono rigidi, si rischierà una grave crisi di disoccupazione e, peggio, un aumento esponenziale del lavoro nero.

È questo ad esempio il caso di alcuni Paesi tra i quali l’Italia. Nel nostro paese, i salari sono largamente regolati dai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro (CCNL) e non sono previsti riaggiustamenti se non per via dell’inflazione. Sono salari assolutamente rigidi. Nel momento in cui il Paese vive una recessione economica, se i salari non si possono abbassare, le aziende tenderanno a non assumere o, come è largamente successo, ricorreranno al lavoro nero. Da qui il problema di mercato del lavoro che ha investito l’Italia con l’abuso della retribuzione occasionale.

Pertanto, al netto di considerazioni di merito sulla recente normativa riguardante il lavoro varata dal governo Renzi,  l’Italia necessita di un mercato pienamente flessibile se vuole rimanere all’interno del mercato unico senza subire ancora i contraccolpi di eventuali crisi economiche.

A seguito di questa sommaria analisi riguardo un’area valutaria ottimale, si può dire che l’Eurozona a 17 Paesi non risulta essere un’AVO, tesi largamente sostenuta dall’economista Paul De Grauwe.[7]

Sembrerebbe piuttosto che un’area valutaria ottimale si possa formare tra Paesi quali la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Austria.[8] Probabilmente potrebbe entrare in questa unione anche la Repubblica Ceca, proprio per via del suo alto grado di apertura nei confronti dei Paesi del Centro Europa, mentre è ancora discussa la posizione della Francia, la quale conserva un sistema commerciale molto incentrato sulle ex colonie ed una discreta rigidità salariale.

È indubbio che l’attuale Eurozona stia progressivamente convergendo verso un’Area valutaria ottimale, ma è ancora ben lungi dall’esserlo. Proprio per questo ritroviamo spesso nella retorica politica europea dibattiti riguardanti presunte “riforme” che i Paesi necessitano di approvare. Sono quelle riforme che un Paese necessita di intraprendere se intende rimanere in un sistema monetario unico come quello attualmente esistente nel Vecchio continente. Il dibattito politico sulla sensatezza o meno della convergenza lo si lascia a sedi più opportune.

Sì può senz’altro dire che, per come si presenta attualmente e alla luce degli studi citati, l’Unione Economica e Monetaria europea non solo non risulta essere una AVO, ma è altresì dimostra di essere un’Unione incompleta. Questo perché, se da un lato vi è una forma di unione monetaria, si è tuttavia ben lontani da un’unione di tipo fiscale. I bilanci degli stati non sono integrati e non hanno ancora neppure voci di ricavo o spesa comune. Di conseguenza, anche il sistema di emissione ed il mercato dei titoli di stato è differente tra i 27 membri, il quale rischia di rimanere molto fragile, lasciando i Paesi più piccoli o quelli con finanze meno solide in balìa di attacchi speculativi ed inermi di fronte alle crisi economiche. Lo ha già dimostrato la crisi del debito del 2011 poc’anzi illustrata con lasciti che hanno effetti di stagnazione economica sino ad oggi.

Al termine di questa disamina sulla condizione del sistema euro e del mercato unico, la conclusione alla quale si può avvenire è che il sistema, per come si presenta attualmente, non dimostra di essere sostenibile né per ottenere una crescita aggregata complessiva dell’economia europea, né risulta essere capace di rispondere agli shock asimmetrici all’interno del mercato unico stesso. Si ritiene pertanto utile che tra gli Stati componenti l’Unione Monetaria si apra una riflessione che, senza idealismi ma piuttosto in una sana visione realista, avvenga ad una conclusione: o gli Stati dell’Eurozona procedono in un cammino di creazione di un bilancio consolidato, comprensivo di strumenti unificati di emissione del debito, o altrimenti può risultare più proficuo tornare nuovamente al sistema di valute nazionali, in seguito alle quali negoziare nuovi accordi di cambio fisso.


[1] Art. 3 Trattato sull’Unione Europea. “Essa [L’Unione] promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri

[2] The End of History and the last man, Francis Fukuyama, 1992

[3] Report of the EU Commission, One Market One Money, October 1990

[4] London School of Economics, institutional web site, http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2014/12/12/the-piigs-acronym-had-a-clear-negative-impact-on-the-market-treatment-of-the-piigs-countries-during-the-crisis/

[5] Robert Mundell, A Theory of Optimum Currency Areas, in American Economic Review, vol. 51, 1961, pp. 657-665.

[6] Fonte: European Commission, European Economy, Statistical Appendix

[7] [Paul De Grauwe 2013].

[8]Paul  De Grauwe, Economia dell’Unione Monetaria, il Mulino, 2012,  p.101


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Laureato Magistrale in Relazioni Internazionali all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, ha conseguito il Master in Diplomacy presso l’Istituto di Studi di Politica Internazionale (ISPI).