Il conflitto fra Russia e Ucraina, e la conseguente proclamazione della secessione della Crimea, parlano non solo di equilibri geopolitici e di un presunto ritorno alla Guerra Fredda, ma di un tema di particolare rilievo: la forma che il mondo, e dunque l’ordine internazionale, stanno prendendo. Ciò che è, a tutti gli effetti, un conflitto regionale, può essere interpretato come uno dei tanti conflitti che possono potenzialmente rimettere in discussione le regole secondo cui si svolge la vita internazionale. La disputa parla di libertà dei popoli, di interventi esterni, di sanzioni: ma parla soprattutto di una mancata collaborazione e integrazione di Paesi e popoli con sistemi valoriali profondamente diversi.
Quando, nel 2001, la Goldman Sachs coniò il termine BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), si avviò subito un vivace dibattito su quanto queste nuove potenze emergenti si stessero sviluppando economicamente, e sulla direzione che tali processi di sviluppo avrebbero potuto intraprendere. Negli anni successivi il dibattito si è arenato, in parte a causa della recessione economica, in parte a causa delle performance economiche discontinue di alcuni di questi Paesi. Soprattutto, però, l’aspetto importante è la poca coesione interna delle nuove potenze, che hanno obiettivi strategici spesso divergenti. Il fil rouge che continua, ciononostante, ad accomunare questi Paesi, è la costante critica all’ordine internazionale e a come esso è stato concepito e strutturato.
L’atteggiamento critico nei confronti dell’ordine internazionale esistente rappresenta ovviamente una critica nei confronti degli Stati Uniti, che ne sono stati gli architetti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Mentre con la nascita dell’ONU si sanciva una nuova concezione di controllo e sicurezza internazionale, con gli accordi di Bretton Woods si sancivano, contemporaneamente, nuovi principi che regolassero la vita economica internazionale. Nel giro di un decennio, un nuovo ordine internazionale era entrato in vigore. Questo ordine, però, ha sempre subito numerose critiche, per due ragioni principali: la prima riguarda la sua legittimità, la seconda riguarda la sua universalità. Critiche che, nell’ultimo decennio e con l’ascesa di nuove potenze, si stanno trasformando da voci fuori dal coro a voci importanti.
L’avvento, nei prossimi decenni, di un mondo multipolare è un dato ormai inevitabile e innegabile. Alcuni ritengono che le nuove potenze abbiano una portata distruttrice e revisionista nell’ordine internazionale, e che, di conseguenza, ogni accenno a un ripensamento delle regole internazionali vada prevenuto e combattuto. Altri, come G. John Ikenberry, ritengono, invece, che le istituzioni create dopo la Seconda Guerra Mondiale siano state progettate per essere inclusive, e non esclusive, e che sia dunque più vantaggioso aderirvi che cercare di modificarle. Questa visione dell’ordine internazionale sembra avere un riscontro empirico nell’ambito economico: l’India e la Cina hanno tratto, negli anni, innumerevoli vantaggi dal dispute settlement mechanism del WTO; e le potenze emergenti sembrano aver accettato i principi economici liberisti dettati da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, seppur mischiati a visioni e interventi economici neo-mercantilisti. Sebbene ci siano stati tentativi di formare “coalizioni” tra Paesi emergenti (come il G-22), la profonda diversità esistente tra i Paesi in via di sviluppo e le potenze di medio rango e, soprattutto, la crescente deriva regionalista che ha caratterizzato gli ultimi anni, hanno in qualche modo minato le basi di un nuovo sistema di alleanze. Le potenze emergenti, in termini economici, sono viste più come “riformatori moderati” che come “revisionisti radicali”, atteggiamento che caratterizza soprattutto la Cina, tesa negli ultimi anni a dimostrare che la propria non è una politica estera aggressiva e revisionista, bensì una politica di “ascesa pacifica”. La ragione di queste posizioni relativamente moderate è dovuta, ovviamente, alla globalizzazione e all’interdipendenza economica mondiale che ne è diretta conseguenza. In termini strettamente geoeconomici, non conviene cercare di cambiare un sistema di regole che potrebbe potenzialmente danneggiare le economie emergenti di quegli stessi Paesi che le hanno sfidate. Ma se questa è la situazione presente, il futuro potrebbe essere molto diverso.
La questione della sicurezza internazionale, del suo controllo e della sua gestione, si presenta invece ben più problematica. Paesi come la Cina, l’India, il Brasile e, soprattutto, la Russia, sono Paesi emergenti non solo da un punto di vista economico, ma anche e soprattutto da un punto di vista geopolitico. Ciascuno di questi punta a diventare una potenza geopolitica regionale, tendenza dimostrata dai numerosi tentativi di alleanza e aggregazione (come l’Unione Eurasiatica). Robert Gilpin notava come le potenze di medio rango tendano sempre a sfidare l’ordine stabilito dalla potenza egemone, con l’obiettivo di prevalere e di imporre un nuovo ordine che risponda a propri interessi strategici, con due possibili risultati: una modifica, o il conflitto. Gli sviluppi delle ultime settimane nella questione della Crimea non fanno che confermare questa nota teoria. Ed è qui che intervengono le questioni di legittimità e universalità accennate in precedenza.
La legittimità di un sistema di regole dipende, ovviamente, dall’autorità e credibilità di chi stabilisce e gestisce l’ordine entro cui tali regole esistono. La legittimità statunitense non è mai stata tanto messa in discussione come negli ultimi due decenni, e tanto più le nuove potenze acquistano potere negoziale in termini geoeconomici, tanto più aperta è la sfida che le potenze emergenti pongono alle grandi potenze quando si tratta di delicati problemi di sicurezza internazionale. Il punto focale di questa sfida riguarda il concetto di “sovranità nazionale”, la sua estensione e la sua difesa. Il problema si è posto, negli anni recenti, riguardo all’“interventismo”occidentale in Libia, in Siria, in Iran e, ovviamente, in Ucraina. I meccanismi (che dovrebbero essere automatici) di risoluzione di conflitti sono marcatamente fallimentari e parziali, e sono dunque aspramente criticati dalle potenze emergenti, le quali non accettano questo paradigma in nome della difesa della sovranità nazionale dei popoli: in parte, questa critica nasce da una volontà di autodifesa nei confronti di atteggiamenti pregiudiziali da parte dell’Occidente verso le potenze emergenti. Nasce però, soprattutto, da un’ipocrisia di fondo nell’ordine internazionale che queste potenze non mancano di rimarcare e porre a loro vantaggio.
Nel caso della Russia, gli Stati occidentali preferiscono paragonare l’intervento in Ucraina con l’intervento in Georgia, mentre la Russia preferisce evocare paralleli con l’intervento occidentale in Kosovo, e le due guerre in Afghanistan e in Iraq combattute dagli Stati Uniti, l’ultima contro una risoluzione delle Nazioni Unite. Con quale criterio si definisce la legittimità di un intervento negli affari interni di uno Stato terzo? La Russia ritiene, in questo caso, di potersi avvalere delle stesse leggi internazionali che hanno permesso l’intervento in Kosovo. Tali leggi, però, non si fondano su uno dei capisaldi delle Nazioni Unite, ovvero la R2P, “responsibility to protect”, concepita nei primi anni 2000 come giustificazione per l’intervento armato contro altri Stati per la protezione delle popolazioni civili. La Russia ha esplicitamente dichiarato che il suo intervento è giustificato, in quanto necessario a proteggere la popolazione etnicamente russa in Crimea, un concetto radicalmente diverso dalla R2P. In questa sostanziale differenza si intravede con chiarezza l’intersezione fondamentale tra legittimità e universalità delle regole fondanti l’ordine internazionale.
L’ordine internazionale si fonda su valori che in Occidente vengono riconosciuti come universali e universalmente validi, quando sono in realtà valori di derivazione europea, che si rifanno dunque a una filosofia politica che esprime una visione del mondo regionalmente definita. L’“imposizione” di questa visione ha funzionato finché l’Europa dominava il mondo attraverso lo sfruttamento coloniale, ha funzionato quando ha ceduto il proprio ruolo agli Stati Uniti, e continua a funzionare, nonostante tutto, dalla fine della Guerra Fredda. La sfida alla superpotenza non è però lontana: le azioni in termini geopolitici delle potenze emergenti stanno dimostrando una volontà precisa di contrastare gli Stati Uniti. Se l’assunto è il declino degli Stati Uniti come superpotenza, il risultato ditale declino dipende da molte variabili, e, tra queste, fondamentale è la negoziazione di nuovi concetti e norme che regolino le relazioni internazionali. Il rifiuto di riconoscere la possibilità di una diversa concezione del mondo e dell’ordine che ne dovrebbe derivare, coniugato con una sostanziale e persistente ipocrisia nell’applicazione dei valori che si ritengono universali, è gravido di conseguenze pericolose per la sicurezza internazionale, poiché la questione, ovviamente, non si riduce alla prevalenza di una visione rispetto a un’altra. La globalizzazione delle merci e dei capitali non ha avuto solo effetti positivi, ma ha anzi portato con sé un ampliamento del divario economico tra classi sociali e nuove forme di diseguaglianza sia interna, che internazionale. Inoltre, un mondo interconnesso condivide minacce prima inesistenti, o strettamente domestiche: terrorismo, cyberterrorismo, cambiamento climatico sono problemi che riguardano tutte le nazioni, e, ciononostante, sono forieri di scontri riguardanti, appunto, la legittimità e l’universalità delle risposte occidentali.
La soluzione del dilemma potrebbe consistere in una graduale assimilazione delle potenze emergenti nell’ordine esistente, condizione che potrebbe verificarsi se le asimmetrie, le disuguaglianze e le imperfezioni che caratterizzano quest’ordine venissero corrette, ascoltando le istanze proposte da Paesi che non hanno contribuito a forgiarlo. Un esempio valido è la contesa riguardante il cambiamento climatico e le sue conseguenze: le politiche imposte sulla riduzione delle emissioni di CO2 aspramente criticate dai Paesi in via di sviluppo, non solo perché impediscono l’accesso a una fonte di energia poco costosa, ma soprattutto per via della scarsa o addirittura inesistente fermezza dimostrata nei confronti delle infrazioni di Paesi industrializzati che hanno costruito il proprio benessere industriale sul carbone. Un più imparziale ed efficace sistema di sanzioni, unito a una rinegoziazione che preveda trasferimenti di tecnologie a basso costo e di capitali potrebbe, potenzialmente, estendere l’utilizzo di energia pulita anche nei Paesi in via di sviluppo. Lo stesso concetto di maggiore equità, di maggiore integrazione e comprensione fra nazioni può e deve essere applicato anche a temi che riguardino la sicurezza internazionale.
La risposta a un mondo multilaterale non risiede dunque automaticamente in uno scontro frontale: la teoria di Gilpin precedentemente citata non deve rivelarsi come necessariamente vera. Una cooperazione a lungo termine, che preveda rinegoziazioni e ripensamenti riguardo alla gestione dell’ordine internazionale è possibile e auspicabile in un nuovo mondo multipolare.
*Giulia Micheletti è laureata in Geopolitics and Grand Strategy presso la University of Sussex
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