Con il seguente articolo cercheremo di analizzare gli effetti dell’incontro Lavrov – Clinton e del caso Magnitsky sulle relazioni tra Mosca e Washington. Dopo un sintetico background dei principali problemi che i due Paesi dovevano discutere, analizzeremo successi e fallimenti dell’incontro citato per poi concentrarci sul’importanza della presa di posizione statunitense riguardo a Magnitsky e su quanto questo atto sembri conflittuale con la politica perseguita da Washington. Chiuderemo con alcune considerazioni sui possibili sviluppi futuri.

 

Il recente viaggio della delegazione russa guidata dal Ministro degli Esteri Sergei Lavrov a Washington e l’incidente diplomatico scaturito dal caso Magnitsky fanno riaprire il dibattito sull’efficacia del c.d. reset delle relazioni russo-statunitensi voluto dal Presidente Obama. Nel seguente articolo cercheremo di fare il punto della situazione seguendo questo schema:

 

– inizieremo con una breve presentazione della situazione diplomatica e dell’incontro Lavrov – Clinton;

– in seguito, parleremo del peso del caso Magnitsky sullo stato delle relazioni tra i due Paesi;

– concluderemo infine con delle valutazioni sugli eventi citati ed i potenziali sviluppi futuri;

 

Apriamo la trattazione con alcune sintetiche note di background.

Dal 2009, i Presidenti Obama e Medvedev hanno deciso di concerto di “ripartire da zero” in tema di relazioni internazionali tra i loro rispettivi Paesi, cercando di lasciarsi alle spalle le tensioni del periodo Bush jr. Il c.d. tentativo di reset ha visto le due controparti concentrarsi su di una rinnovata cooperazione, le cui principali tappe sono individuabili nei seguenti eventi: consenso di transito sul territorio russo per le truppe NATO operative in Afghanistan; lancio dell’accordo New START in tema di disarmo nucleare; operazioni antiterrorismo congiunte tra militari USA/NATO e russi.

 

A fronte di questi successi, questo nuovo appeasement non è riuscito ancora a sciogliere alcuni nodi critici, si pensi ad esempio alle tensioni georgiane e le discussioni sulla difesa missilistica europea, senza dimenticare la “lotta per procura” in tema di approvvigionamento energetico dell’Europa, i nuovi screzi scaturiti dalla gestione della crisi libica e sulla gestione dei diritti umani sul territorio russo – con rinnovata attenzione al caso Magnitsky, di cui riparleremo infra.

Su queste contrastanti basi è stato presentato, con grande spinta mediatica da ambo le parti, il viaggio di una delegazione del Cremlino a Washington, culminato con l’incontro tra il Ministro degli Esteri russo Lavrov e Hilary Clinton per il 13-14 luglio: scopo del meeting era quello di “fare il punto” sulla rinnovata cooperazione tra le due potenze, gettando le basi per lavorare sui futuri sviluppi delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

 

Ambo le parti hanno lasciato trapelare un notevole ottimismo sulle potenzialità dell’incontro. Anche sui media governativi del Cremlino si parlava di un meeting dai possibili grandi risultati, pur senza fornire le basi adeguate sulle quali costruire queste assunzioni. In una lunghissima intervista rilasciata al magazine online RT (ex Russia Today) una settimana prima della partenza per Washington, Lavrov ha sottolineato gli ottimi risultati raggiunti dal reset per poi sottolineare i punti caldi del meeting, in particolare in tema di cooperazione militare e diplomatica.

 

Una volta concluso l’incontro, ambo le parti confermavano lo stesso entusiasmo ostentato in precedenza: limitiamoci per ora ad elencare i temi principali e gli accordi di massima.

In tema di difesa missilistica europea si è parlato dell’intenzione di cooperare onde evitare screzi e di “impegno di Obama e Medvedev per intavolare una futura possibile cooperazione”, senza però dare né dettagli né calendari.

Riguardo allo START, se ne è parlato solo per citarne “l’ottimo funzionamento”, senza ulteriori approfondimenti.

E’ stato ovviamente citato il caso Libia, alquanto scottante viste le numerose critiche fatte dal Cremlino all’azione della NATO, senza contare il mancato appoggio di Mosca a qualsivoglia operazione militare sin dall’inizio della crisi. Ebbene, in questo frangente la Russia si è definita, nonostante alcune “leggere differenze”, “più vicina agli USA che all’Europa”, pur senza fornire basi pratiche a tale affermazione; la Clinton ha poi parlato dell’impegno ad accelerare il processo politico in Libia e la cacciata di Gheddafi.

Si è parlato del caso del nucleare iraniano, riguardo al quale le due potenze hanno affermato l’impegno congiunto, nel quadro IAEA, per controllare l’azione del governo di Teheran.

In tema commerciale, Lavrov ha riferito di un incontro positivo tra il Ministro russo per lo Sviluppo Economico Nabiullina ed Obama, per poi sottolineare come gli USA si siano definiti “ben disposti” a patrocinare l’ingresso della Russia nel WTO. Infine si è parlato di impegno a perseguire la semplificazione del regime di visti per viaggi d’affari e la cooperazione in tema di adozioni a distanza.

 

Nonostante questo clima positivo – al quale hanno contribuito anche alcuni media – le relazioni tra i due Paesi hanno incontrato un nuovo punto di minimo a causa del ritorno in auge dell’impegno USA sul caso Magnitsky. Riassumiamo brevemente i fatti: Sergei Magnitsky era un legale della Hermitage Capital, coinvolto come testimone in un caso di corruzione di ufficiali governativi. In seguito, visto il suo interesse per faccende “scomode”, lo stesso Magnitisky è stato prima accusato e poi incarcerato per corruzione, per poi perdere la vita in carcere nel 2009, in circostanze poco chiare.

Il Senato statunitense già dallo scorso maggio era al lavoro su di una proposta di legge – il Sergei Magnitsky Act – per creare una lista nera in tema concessione visti ai danni di soggetti coinvolti in atti lesivi verso attivisti russi per i diritti umani – progetto questo ampiamente mal visto dal Cremlino. Con l’entrata in vigore dell’atto, numerosi ufficiali governativi russi sono stati impossibilitati ad entrare in territorio USA, per lo scontento generale del governo di Mosca che ha immediatamente chiesto una revoca del decreto pena rappresaglie.

La Casa Bianca ha risposto negativamente, in nome dell’impegno degli Stati Uniti nella promozione dei diritti umani in Russia come nel resto del mondo.

La reazione di Mosca non si è fatta attendere: il Cremlino ha risposto con una blacklist uguale e contraria, che mette al bando ufficiali statunitensi coinvolti nei casi che vedono cittadini russi sottoposti a giudizio negli USA. Ma la rappresaglia non finisce qui: la Russia ha comunicato che, se la lista nera non sarà revocata, il supporto alle truppe NATO (in Afghanistan in particolare) potrà essere immediatamente interrotto, aprendo la porta ad una nuova crisi strategica tra le due potenze.

 

Arricchiamo i fatti con un’ultima nota: il supporto militare russo alla Siria, altro topic ignorato durante il detto meeting, è stato denunciato pubblicamente il 12 agosto dalla Clinton stessa, che ne ha chiesto l’immediata cessazione. La risposta moscovita non è stata ancora resa pubblica.

 

Sulla base di questi fatti, è opportuno fare alcune riflessioni, iniziando dai contenuti del tanto pubblicizzato meeting di Washington.

 

L’incontro di luglio ha vagamente la connotazione di una sorta di evento “promozionale” per le relazioni internazionali dei due Paesi, più che un vero e proprio nuovo step nel riassetto dei rapporti tra le due potenze. Il meeting ha fondamentalmente confermato i risultati raggiunti dalle due nazioni tramite il dialogo, con alcune aggiunte configurabili un po’ troppo come di intenti e di principio che realmente pratiche. La vera novità giace sul piano commerciale e sull’integrazione russa nel sistema WTO, fattore da troppo tempo pendente e che di certo necessita di una soluzione. Tenere la Russia alla berlina è sempre stata una decisione statunitense, e dunque l’idea di integrazione di Obama si configura come un importante passo avanti nei rapporti tra i due Paesi. L’obiettivo USA è quello di sfruttare l’intesa economica come base per la normalizzazione permanente delle relazioni internazionali, accanto alla costruzione di una più salda base comune per il contenimento dell’Iran: in ogni caso, visto il comportamento storico degli USA, il fatto aiuta la percezione esterna a vedere il tutto come una vittoria diplomatica russa, che vede soddisfatte le proprie richieste di integrazione dopo “appena” 18 anni – tutto questo a danno ulteriore della reputazione della politica estera obamiana in patria.

In ambito prettamente militare e strategico si sperava di più dal punto di vista del problema dei “nuovi euromissili” e di altri temi caldi, sui quali è ricaduto un assordante silenzio. Non si è parlato della situazione dei confini georgiani né degli interessi configgenti nel Caucaso, per non parlare dell’ “abitudine” russa ad approvvigionare di armamenti Paesi “non graditi” agli USA. Infine, anche le discussioni di principio sui diritti umani, tanto cari alla Casa Bianca solo quando non è lei a violarli, sono state assenti ingiustificate: tutto questo è, da un certo punto di vista, facilmente esplicabile in nome del generale clima di appeasement creato per e dal meeting. Parlare di Georgia e di carceri russe con Mosca è sempre motivo di screzio, e pertanto si è preferito lasciare tali questioni fuori della porta per porre l’enfasi sui risultati ottenuti – ed ottenibili – in altri campi.

Ma proprio in quest’ottica sembra ancora più una “stecca” l’idea statunitense di fare muro sul caso Magnitsky: era ovvio che legiferare in quel modo sul tema si concretizzasse come una fortissima presa di posizione nei confronti dell’azione del governo russo sul proprio territorio, e che Mosca prendesse il tutto come una “invasione di campo” del proprio spazio giuridico e politico – attenendoci ai fatti, gli USA hanno oggettivamente legiferato per colpire cittadini di un altro Paese sospettati di crimini in un altro Paese.

Washington ha fatto una tipica mossa da Guerra Fredda, atta a delegittimare internazionalmente il proprio avversario sul piano politico-internazionale senza badare troppo alle conseguenze di rappresaglia: e se davvero Mosca metterà in pratica quanto minacciato, l’intero lavoro del tanto decantato reset subirà una battuta d’arresto di proporzioni storiche.

 

La politica di Obama oscilla tra tentativi di riconciliazione e azioni aggressive gestite in maniera opinabile e poco lungimirante, specchio dell’epoca di tensioni che si cerca forzosamente di superare, apparentemente senza averne la vera volontà politica: per ogni passo avanti se ne fanno due indietro.

I rigurgiti di durezza nella politica della Casa Bianca potrebbero anche essere visti come un tentativo del governo di non alienarsi troppe simpatie sia nelle due Camere che nell’elettorato: la politica di Obama viene percepita come molto debole in maniera trasversale, e pertanto occasionali esibizioni di “muscoli” potrebbero aiutare il Presidente a mantenere la propria posizione alle prossime elezioni, o almeno dargli una mano in ambiti differenti dell’attività governo. Non dimentichiamo inoltre il ruolo della frangia libertaria, ancora più aggressiva nei confronti del Presidente rispetto ai repubblicani “ortodossi”: i vari supporters del Tea Party, nell’ambito della già attivata maratona elettorale di Ron Paul, si configurano come i principali demolitori della politica obamiana tramite campagne stampa capillari.

 

Le anomalie politiche del Cremlino, invece, mettono Mosca in una posizione particolare. Il ruolo del “poliziotto buono” viene interpretato con perizia dal Presidente Medvedev, reduce da numerosi successi politici internazionali, mentre l’altra faccia del governo russo, Vladimir Putin, preferisce rappresentare ancora l’ideale di dura “politica di potenza” di una Russia vecchio stampo. Già poco dopo il ritorno di Lavrov in patria, Putin ha colto l’occasione per esprimere il suo dissenso vero la politica estera di Washington, con alcune affermazioni riconducibili più a delle minacce un po’ vuote che a delle vere e proprie dichiarazioni di peso – “minacce” che si sono intensificate dopo la pubblicazione della blacklist.

La duplicità dell’esecutivo russo si può inquadrare come il tentativo di soddisfare al contempo delle esigenze di politica interna ed estera. Il Medvedev dai toni meno aggressivi, ufficialmente slegato dalle logiche della “vecchia Russia”, serve a presentare al mondo un Paese incline al dialogo e all’abbandono di vecchie rivalità. Putin invece rappresenta l’opposto, quello che piace alla maggior parte dell’elettorato di Russia Unita, e cioè un “duro” che è in grado di tener testa agli Stati Uniti e che può riportare la Russia agli antichi splendori. L’anomalia sulla quale si basa il sistema politico di Mosca si tramuta in un interessante punto di forza: il Cremlino ha sia un leader “per la nazione” che un leader “per l’estero”, potendo così mantenere una linea duplice senza perdere né consenso in patria né credibilità internazionale – cosa che gli USA non possono fare. Sarà comunque interessante vedere come si scuoterà questo equilibrio interno russo dopo le prossime elezioni, con un possibile “scambio di posto” tra i due politici.

 

In conclusione, non resta che parlare del potenziale futuro delle relazioni russo-statunitensi.

Allo stato attuale dei fatti, tiene banco il braccio di ferro innescato dagli USA sul caso Magnitsky: bisognerà vedere se l’escalation di rappresaglie partirà o meno. La Russia potrebbe certo giustificare l’interruzione dei buoni rapporti con gli USA sulla base del Magnitsky Act, ma un simile modus operandi potrebbe comunque rivelarsi un’arma a doppio taglio: si darebbe a Washington – e di conseguenza al resto del mondo – la dimostrazione di essere un Paese chiuso e un partner poco affidabile. Mosca potrebbe comunque disinnescare il problema allentando di poco la presa sui dissidenti (cosa che sta tentando di fare in questi giorni), quanto basta per recuperare punti all’estero e poter “controbattere” meglio gli USA, togliendo loro l’arma morale. Accanto a questo rimane il caso Siria – al momento solo embrionale – che comunque potrebbe essere un’ulteriore variabile di irrigidimento delle relazioni, tenendo in mente le pessime basi gettate con l’affare Magnitsky. Sperando che le prospettive di integrazione economica contribuiscano a mantenere savi i governi delle due potenze, non resta che attendere le prossime mosse del Cremlino per poter effettuare nuove valutazioni.

*Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

 


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