“πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους.”
“Conflitto, di tutte cose padre, di tutte cose re, alcuni foggiò dei, uomini altri, servi alcuni, altri liberi fece”.
(Eraclito, Frammento 53)
In una lettera datata 1933, Martin Heidegger, congratulandosi con il giurista e compatriota Carl Schmitt per il successo dell’opera Il concetto del politico giunta alla terza edizione, si felicitava per la citazione che quest’ultimo aveva fatto del Frammento 53 di Eraclito e per la corretta interpretazione che aveva dato dei concetti fondamentali di πόλεμος e βασιλεύς. Allo stesso tempo, Heidegger non solo rivelò a Schmitt che stava preparando una sua personale interpretazione del frammento eracliteo direttamente interconnessa al concetto di ἀλήθεια, ma anche che stava attraversando lui stesso una forma di “conflitto”.
Tanto Heidegger quanto Schmitt erano ben consapevoli del fatto che il Superbo di Efeso, con il termine “conflitto”, non volesse indicare solo ed esclusivamente una lotta armata. Questo, infatti, era da intendersi anche nell’accezione di conflitto interiore. Tale πόλεμος, per Heidegger, altro non era che quel “travaglio dell’io” che lo porterà a ciò che egli stesso definì come un “corpo a corpo con il proprio sé”, ad abbandonare l’insegnamento per diversi anni, ma anche a produrre successivamente alcuni lavori fondamentali come il voluminoso studio su Nietzsche e Holzwege[1].
La scelta di iniziare con il Frammento 53 di Eraclito questa riflessione sull’influenza che il pensiero di Carl Schmitt sta conoscendo in Cina non è casuale. Il conflitto di cui tratta il pensatore greco e di cui Heidegger comprese l’essenza rientra di diritto nel novero di quei concetti teologici che, secondo Schmitt, sono stati “secolarizzati” dalla dottrina moderna dello Stato.
In ambito islamico, essendo la rivelazione al contempo profezia e legge, il significato reale del termine conflitto utilizzato da Eraclito appare con tutta la propria dirompente forza nel concetto teologico di gihad. Questo, è bene ricordarlo, letteralmente significa “sforzo” ed indica l’impegno dell’uomo a migliorarsi, a divenire un essere umano “vero”, parafrasando l’interpretazione che di esso fornisce l’Imam Khomeini[2].
Il gihad, come riportato in un noto hadith del Profeta Muhammad, può essere di due tipi: maggiore (o interiore) e minore (o esteriore). Il gihad maggiore è costituito dalla suddetta lotta interiore per divenire un uomo vero; mentre il gihad minore indica effettivamente la lotta armata contro un nemico esterno al dar al-Islam (casa dell’Islam). Dunque, contro qualcuno che si trova nel dar al-harb (casa della guerra).
Tale concetto si ritrova già nella civiltà cinese tradizionale. Al di là dei confini imperiali, infatti, si trovava lo spazio dei “barbari”: una regione “incolta”, un regno della guerra ed uno spazio puramente quantitativo in cui le virtù del jen (solidarietà di gruppo) e dello yi (equità) non hanno avuto compiuta realizzazione.
In termini di teoria geopolitica classica, i concetti di conflitto interno ed esterno si possono facilmente applicare all’idea organica dello Stato (entità vivente al contempo morale e spirituale) elaborata da Friedrich Ratzel[3]. Così, se lo Stato viene considerato alla stregua di organismo, il suo conflitto interiore è costituito dal suo sforzo a divenire un’entità forte, unita e pienamente sovrana capace di agire in modo indipendente ed in condizione di parità con gli altri attori internazionali in un teatro regionale o globale. Ed è chiaro che questo sforzo interno rappresenta il presupposto essenziale per quello esterno e, rispetto a quest’ultimo, ricopre un ruolo primario.
Ora, volendo trasferire all’attualità geopolitica della Repubblica Popolare Cinese l’idea fin qui ricostruita, appare evidente che i concetti schmittiani della politica come “conflitto” e dell’opposizione dicotomica amico/nemico hanno conosciuto una notevole (e magari anche inconsapevole) diffusione a Pechino.
La politica della “Cina unica” portata avanti dalla Repubblica Popolare, di fatto, si traduce apertamente in uno sforzo interiore il cui obiettivo è la realizzazione di una completa unità nazionale non solo in termini territoriali (ristabilendo la sovranità su Taiwan, ad esempio) ma anche in termini ideologici, combattendo quel “nemico interno” che si presenta sotto le diverse forme di separatismo sostenuto dall’“Occidente”: dal modello terroristico del Movimento Islamico del Turkestan Orientale (non a caso recentemente rimosso dalla lista delle organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti) alla ribellione “sorosiana” di Hong Kong, fino all’influenza esercitata da sette antitradizionali come Falun Gong, oggi rinvigorite dall’alleanza con il fenomeno QAnon.
Lo studioso cinese Liu Xiaofeng (profondamente influenzato proprio da Schmitt), nella raccolta di saggi Sino-Theology and the Philosophy of History sottolinea le differenze esistenti tra il concetto europeo di Stato-nazione ed il sostrato ideologico nel quale si è sviluppato l’odierno Stato cinese. I migliori pensatori politici cinesi, afferma il professore dell’Università di Renmin, si sono perfettamente resi conto che il moderno imperialismo europeo era ben lontano dall’antica concezione di “Impero” (più simile, per certi aspetti, a quella persiana e cinese). E si sono resi conto che, in epoca moderna, non esisteva un solo imperialismo, ma diverse forme di imperialismo confliggenti, una per ogni Stato-nazione[4].
In questo contesto, secondo lo storico e politico Liang Qichao, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo nel momento dell’inesorabile declino e di spartizione imperialistica dello spazio cinese, la soluzione non poteva che essere la creazione di una forma di nazionalismo cinese. Tuttavia, ciò che Qichao considerava come nazionalismo era sì una forma di coscienza e consapevolezza politica e culturale nazionale, ma non un nazionalismo nel senso europeo del termine[5]. Questo, infatti, rimaneva un concetto del tutto estraneo ad una forma imperiale tradizionale che ancora oggi, nella sua espressione modernizzata ed influenzata dal marxismo-leninismo, risulta maggiormente simile al modello achemenide piuttosto che all’idea europea di Stato-nazione ed ai suoi slanci imperialistici. E, in quanto tale, si poneva sin dalla sua origine come superamento in nuce di questa idea.
La storiografia occidentale, attraverso la cosiddetta global history, ha cercato di superare il sistema eurocentrico basato sullo Stato-nazione sostituendo ad esso un’idea di storia incentrata sul cambiamento delle strutture sociali. Liu Xiaofeng, a differenza di alcuni suoi colleghi e connazionali, ha avuto il merito di intuire che questa global history non è nata con il saggio di William H. McNeill del 1963, The rise of the West. A history of the human community[6]. Egli ha anche capito che la volontà di superare l’eurocentrismo si è semplicemente risolta in una forma abbastanza paradossale di cosmopolitismo che nasconde un naturale imperialismo di matrice anglo-americana (quello uscito vincitore dallo scontro con le altre forme di imperialismo europeo). Questo cosmopolitismo, infatti, continua a considerare il canone “occidentale”, ispirato ai valori del liberal-capitalismo, come il modello migliore in assoluto. Tuttavia, esso guarda agli altri modelli con la benevolenza dovuta al buon selvaggio da studiare antropologicamente e, magari, da educare (anche per mezzo di “bombardamenti umanitari”) per emanciparlo da se stesso.
Dunque, la global history non è stata altro che la sovrastruttura storiografica del liberalismo occidentale nel periodo della Guerra Fredda e nell’istante unipolare.
Ben prima del saggio di McNeill, come ricorda ancora una volta Xiaofeng, Carl Schmitt pubblicò Il nomos della terra, un’opera che, più che sovvertire l’ormai defunto eurocentrismo, si rendeva perfettamente conto che questo era già stato sostituito da un sistema americanocentrico[7]. Ma Schmitt, al contrario dei profeti della global history, utilizzava ancora un modello storiografico incentrato sulle entità statali. L’intuizione fondamentale di Schmitt era costituita dalla comprensione del fatto che lo scontro tra Stati sarebbe rimasto comunque frequente ed intenso a prescindere dal mito cosmopolita della cittadinanza globale e che questo si sarebbe addirittura estremizzato.
Schmitt, infatti, comprende che la creazione e la crescita/sviluppo degli Stati Uniti avvenne in un contesto in cui lo jus publicum europaeum (quello che regolava la guerra fra le monarchie cristiane europee sul suolo del Vecchio Continente) non aveva alcun valore.
Gli Stati Uniti nascono in uno “spazio libero” dove vige la legge del più forte dello stato di natura e sullo sfondo ideologico-religioso del tema biblico dell’Esodo e della convinzione messianica di costruzione della “Nuova Israele” e della “Gerusalemme in terra”: principi che sono alla base della puritana idea di superiorità morale e predestinazione e rappresentano i fondamenti esistenziali dell’americanismo. Gli Stati Uniti nascono in totale opposizione al modello europeo. Il loro ingresso nel Vecchio Continente segna il passaggio dalla guerra “legale” alla guerra “ideologica”: il nemico non deve essere solamente sconfitto, ma demonizzato, criminalizzato e dunque annichilito. Ciò che hanno fatto gli Stati Uniti è stato riportare in Europa la legge del più forte, considerandola, al pari di quanto fecero gli Europei con l’emisfero occidentale in età moderna, uno “spazio libero” da sottoporre a mera conquista.
Xiaofeng applica queste idee schmittiane all’attualità geopolitica dell’Estremo Oriente e della Cina in particolare. La Cina, in un momento in cui la suddetta “lotta interiore” non aveva ancora portato alla formazione di uno Stato forte e pienamente sovrano che le consentisse piena (ed in condizione di equità) partecipazione al consesso internazionale, dovette optare per un accesso nel sistema di tipo “tecnico”, attraverso l’ingresso nelle istituzioni internazionali. Metodo che si opponeva a quello prettamente politico-militare utilizzato dal Giappone a cavallo tra il XIX ed il XX secolo nel momento in cui il processo di modernizzazione endogena conseguito dall’Impero ne consentì l’affermazione come potenza globale.
Tuttavia, l’errore fondamentale della classe politica cinese nella prima metà del XX secolo è stato quello di credere che il diritto internazionale si applicasse con equità a tutti i membri della comunità che ne accettavano le norme. Ricorda Xiaofeng che Chiang Kai-shek rimase fermamente convinto, nonostante l’avviso del consigliere militare tedesco Alexander von Falkenhausen, che le potenze europee (Francia e Gran Bretagna) e gli Stati Uniti sarebbero giunti in soccorso della Cina di fronte all’aggressione nipponica alla fine degli anni ’30[8]. Ovviamente, non avvenne nulla di ciò e solo con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto la situazione iniziò a cambiare.
La reale natura del diritto internazionale venne ben descritta al delegato in URSS dell’allora Repubblica di Cina, Chiang Ching-kuo, da Iosif Stalin. Il Vožd’, in modo abbastanza franco, gli disse: “tutti i trattati sono carta straccia, ciò che conta è la forza”[9].
Di fatto, il metodo “tecnico” descritto da Xiaofeng, attraverso il quale la Cina ha cercato di garantirsi inizialmente una partecipazione al sistema delle relazioni internazionali, non le ha consentito una piena realizzazione di un bilanciamento di potere con le potenze europee o con gli Stati Uniti. Solo con la Rivoluzione maoista e con la vittoria nella guerra di Corea inizia a palesarsi la possibilità di questo obiettivo.
Ora, è bene ricordare che gli Stati Uniti hanno storicamente applicato nei confronti della Cina, prima e dopo Mao (e sebbene in fasi alternate), una strategia detta “open door policy”. Nel momento unipolare, tale politica strategica si era concretizzata in una sorta di intesa (teoricamente perfetta) secondo la quale la Cina, esportatrice di merci e importatrice di liquidità, si faceva carico dei titoli di debito americani, mentre gli Stati Uniti, consumatori e debitori, potevano contare sulla durevole supremazia militare puntando su una nuova rivoluzione tecnologica, per la quale la concorrenza cinese non era neanche presa in considerazione. Come afferma lo storico Aldo Giannuli: “Nella visione neoliberista, l’apertura mondiale dei mercati avrebbe dovuto fare della Cina il principale snodo manifatturiero del sistema globale, ma a condizione che il divario tecnologico restasse costante, se non aumentato, e che la bilancia commerciale non pendesse troppo a Oriente”[10].
Tuttavia, con la crisi del 2008, tale intesa si è rapidamente incrinata e deteriorata già sotto l’amministrazione Obama, che, per cercare di correre ai ripari, optò per la strategia geopolitica del Pivot to Asia in relazione al rapido spostamento del centro del commercio globale in Estremo Oriente. Una strategia che l’amministrazione Trump ha cercato di portare ai suoi estremi attraverso una costante militarizzazione dei mari adiacenti alle coste cinesi ed incentivando le operazioni di sabotaggio lungo le rotte della Nuova Via della Seta.
L’errore di valutazione nordamericano, dunque, ha un’origine ben più lontana rispetto a ciò che viene costantemente proposto nelle analisi geopolitiche odierne. Con l’attraversamento del fiume Yalu e l’ingresso dei volontari cinesi in Corea, Pechino aveva già mandato un segnale abbastanza chiaro agli Stati Uniti: non siete i benvenuti al di là del 38° parallelo. Con le riforme e le politiche di apertura di Deng Xiaoping nei primi anni ’80 ed il fallimento dell’insurrezione di Piazza Tienanmen, Pechino inviò un altro segnale agli USA: la Cina non è più uno “spazio libero” dove si può operare a proprio piacimento (come è stato fatto da Washington in Europa) o divisibile attraverso mezzi economici e politiche di infiltrazione culturale.
La rapida ascesa cinese fuori dal “contesto liberale” ed in virtù di un sistema “illiberale”, profondamente statalista e ben delineato anche nel nuovo piano quinquennale del PCC incentrato sul principio della doppia circolazione (domanda interna/domanda esterna), ha mandato un nuovo segnale: la fine del sistema globale americanocentrico è vicina.
L’accordo di libero scambio RCEP – Regional Comprehensive Economic Partnership è il primo tassello per la costruzione di una sfera di cooperazione asiatica libera dalla destabilizzante presenza nordamericana.
È chiaro che una simile eventualità non verrà accettata di buon grado dagli Stati Uniti. Ma oggi Pechino, schmittianamente consapevole della necessità di uno Stato forte anche in termini di omogeneità ideologica e di obiettivi, è ben preparata anche alla lotta contro il nemico esterno.
NOTE
[1]Chi scrive ha trattato questo argomento nel libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, NovaEuropa, Milano 2018.
[2]Si veda R. Khomeini, La più grande lotta. Per liberarsi dalla prigione dell’ego ed ascendere verso Dio, Irfan Edizioni, Roma 2008.
[3]Si veda, F. Ratzel, Lo Stato come organismo, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 3/2018.
[4]L. Xiaofeng, Sino-Theology and the philosophy of history. A collection of essays by Liu Xiaofeng, Brill, Boston 2015, p. 99.
[5]Ibidem.
[6]L. Xiaofeng, New China and the end of the international American law, www.americanaffairsjournal.org.
[7]Si veda C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano 1991.
[8]New China and the end of the international American law, ivi cit.
[9]Ibidem.
[10]A. Giannuli, Coronavirus. Globalizzazione e servizi segreti, Ponte alle Grazie, Milano 2020, p. 236.
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