Lo scorso 14 marzo, la Corte di Giustizia Europea ha emesso due sentenze circa l’ammissibilità del velo sul luogo di lavoro relativamente a due casi, uno in Belgio e l’altro in Francia. Protagoniste delle due vicende sono Samira Achbita, dipendente della G4S Secure Solutions NV per il primo caso, e Asma Bougnaoui, ingegnere progettista presso la Micropole per il secondo. Ma potremmo citare anche il più recente caso dello scorso 15 aprile della donna all’aeroporto di Ciampino che si è rifiutata di togliere il velo. Intento di questo contributo non è quello di ripercorrere l’excursus normativo inerente al divieto di indossare il velo sul luogo di lavoro, ma di mostrare alcuni paradossi legati, più in generale, al divieto di esporre o indossare simboli religiosi tanto nei luoghi pubblici, quanto in quelli privati, con particolare riferimento ai luoghi di lavoro. Approfondirò i seguenti punti:
- Vietare l’esposizione di un simbolo religioso sul luogo di lavoro, sostenendo che la sua ostentazione comprometterebbe la neutralità religiosa, politica e filosofica dell’azienda, costituisce già di per sé una presa di posizione ben precisa (il divieto, appunto, per compromessa neutralità) che contraddice e annulla la stessa neutralità che l’afferma.
- Se anche dovessimo approvare la motivazione della compromessa neutralità a sostegno del divieto, è sufficiente l’ostentazione di un simbolo per indirizzare religiosamente, politicamente o filosoficamente un certo luogo?
Che cos’è un simbolo? Una domanda che percorre la storia del pensiero occidentale da quello anglosassone con Hobbes e Peirce, a quello tedesco con Hegel, Heidegger e la filosofia delle forme simboliche di Cassirer. Secondo quest’ultimo ad esempio, la «funzione simbolica» indica la capacità dell’uomo di unificare il molteplice sensibile in virtù di forme simboliche quali il linguaggio, il mito, la conoscenza concettuale. Invece Hans-Georg Gadamer distingue il simbolo dal segno affermando che il primo è pura rappresentanza, mentre il secondo puro rimando e che entrambi costituiscono i due estremi dell’immagine. Il simbolo è quindi per Gadamer pura rappresentanza, cioè «lo stare in luogo di» qualcos’altro.[1] Da queste due prospettive, emerge che il simbolo da un lato, per Cassirer, unifica; dall’altro, per Gadamer, rappresenta. Ma l’unificazione presuppone la divisione precedente (si unifica, cioè, ciò che prima era separato) e la distinzione successiva (ciò che è unificato si distingue da qualcos’altro di altrettanto unificato). Se guardiamo all’etimologia del termine – in greco symbolon, dal verbo symballo composto da syn che significa con, insieme e ballo ossia metto, pongo – il simbolo è un «mettere insieme», unificazione che è «posta», movimento accentrante che «sta» –per l’unificato. In questo «stare per» risiede il doppio volto del simbolo: è un posto –per, uno stare che si dirige –verso qualcosa: movimento che, movendosi, si ferma.
Far luce sul concetto di simbolo può aiutarci a comprendere le controversie e i paradossi che ne scaturiscono in campo giuridico e sociale sulla questione del divieto dei simboli religiosi. Se il simbolo «sta per» qualcos’altro – che in questo caso specifico indica qualcos’altro di religioso –, vietarne l’esposizione – l’ex-positio appunto, cioè la visibilità (su questo termine torneremo più avanti) – significa non solo vietare l’esposizione del simbolo in sé, ma anche di quel qualcosa per cui il simbolo sta. E’ necessario, perciò, chiarire il rapporto tra rappresentante e rappresentato: se il simbolo sta per qualcosa, quest’ultimo permane indipendentemente dalla visibilità del simbolo oppure, vietato il simbolo con esso scompare anche ciò per cui esso sta? E’ evidente che questa seconda opzione è assurda perché se si eliminasse il simbolo, e con esso ciò per cui il simbolo sta, significherebbe che rappresentante e rappresentato coincidono – anzi, non si darebbe neanche una “rappresentanza” e il simbolo in questo caso non sarebbe un simbolo – cioè ciò che sta per qualcosa – ma sarebbe direttamente la cosa. Considerando l’altra opzione invece – cioè la permanenza del rappresentato al di là della visibilità del simbolo che lo rappresenta – l’eliminazione della visibilità sarebbe pressoché inutile, o comunque probabilmente insufficiente, se la finalità è la salvaguardia della neutralità:
[…] il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.[2]
Siamo nella sentenza della sig.ra Samira Achbita. La direttiva cui fa riferimento la Corte è la 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro per la parità di trattamento sul luogo di lavoro e, in particolare, si fa riferimento all’articolo 2, paragrafo 2 in cui è tracciata una distinzione tra la discriminazione diretta e discriminazione indiretta[3]. Secondo la Corte, non ci sarebbe discriminazione diretta nel vietare la visibilità di un simbolo religioso, politico o filosofico – in questo caso il velo – se ciò deriva da una norma interna all’azienda, perché contrario alla neutralità cui essa si attiene. Il problema risiede quindi non tanto nella visibilità del simbolo che sta per il religioso, ma paradossalmente nella in-visibilità del religioso che il simbolo rappresenta e che lo rende così visibile. Ma come può un simbolo racchiudere e definire ciò che vuole rappresentare? Cioè, simbolo e ciò cui esso rinvia, sono adeguati?
Arrêtons-nous pour l’instant à cette définition, à ces propriétés et à cette sommaire classification du symbole en tant que signe renvoyant à un indicible et invisible signifié et par là étant obligé d’incarner concrètement cette adéquation qui lui échappe, et cela par le jeu des redondances mytiques, rituelles, iconografiques qui corrigent et complètent inépuisablement l’inadéquation.[4]
Attraverso questa definizione, Gilbert Durand evidenzia lo iato che c’è tra il simbolo e ciò che esso rappresenta: per quanto il simbolo possa rinviare ad un indicibile ed invisibile significato, quest’ultimo gli sfugge proprio per il gioco delle ridondanze mitiche, rituali e iconografiche che non fanno altro se non rivelare, al contrario, l’inadeguamento del simbolo al suo significato. Nel caso specifico del velo islamico – ma potremmo argomentare anche a proposito di altri simboli religiosi – esso è divenuto, in Occidente, quasi la «quintessenza dell’alterità dell’islam […] simbolo non soltanto della considerazione della donna musulmana come oggetto, ma anche dell’enorme abisso in termini di valori e costumi che, come molti affermano con insistenza, separa l’islam e l’Occidente»[5]. Il simbolo religioso del velo, insomma, è oggi incanalato in una logica binaria tutta occidentale che relega da un lato la donna ad una condizione di reificazione e costrizione[6], dall’altro che la emancipa da una cultura occidentale imperante.[7] In tutto ciò si cela un paradosso: quella polisemìa del simbolo di cui parlava Durand, si tramuta in Occidente in una sorta di bisemìa sociale e politica – e non propriamente religiosa – che divide il velo tra purezza religiosa e liberalismo laico, cosicché «all’originaria ricchezza semantica del segno, che in uno spazio caratterizzato dal rispetto delle libertà fondamentali come quello occidentale […] si è sostituita, infatti, un’interpretazione dogmatica, univoca ed esterna al soggetto»[8]. Paradossalmente, proprio l’Occidente delle libertà, rivela la sua chiusura oggettivante, a discapito di ciò che un simbolo esprime e può esprimere, ma soprattutto del soggetto che lo esprime: non solo la religiosità simbolica del velo si disperde nel dualismo sociale e politico descritto pocanzi, ma è compromessa soprattutto la stessa personalità del soggetto che lo indossa, così piegata alla oggettività di uno stereotipo che la nega. Il tutto, sotto la cappa della neutralità «a tutti i costi».
Ma che neutralità è una neutralità che vieta? Se, come pocanzi affermato, il simbolo rende visibile l’invisibile-religioso che in esso si cela, vietarne l’esposizione si tramuta non soltanto nel divieto dell’espressione – così che in gioco non è tanto la libertà di religione, quanto piuttosto quella di espressione – ma afferma ancora una volta una posizione di evidente laicismo. In un mio recente contributo su questa rivista[9] ho sottolineato la differenza tra laicità e laicismo. La laicità diventa laicismo quando si afferma in una posizione definita rispetto alla problematicità che le è propria: la laicità è un principio, non una ideologia. Nel momento in cui la laicità – cioè la neutralità – è un principio che nega libertà – invece di garantirle – si traduce in laicismo. Ma il paradosso sta nel fatto che la libertà salvaguardata dalla laicità, si nega attraverso un altrettanto atto di libertà e cioè di affermazione: il divieto di indossare il velo alle donne musulmane sul luogo di lavoro è un atto di negazione (il divieto, appunto) che si afferma, cioè che si racchiude e definisce in una posizione propria, sicché la neutralità che voleva affermare è negata dal suo stesso affermarsi. Potremmo dirla filosoficamente con l’ontologia della libertà di Luigi Pareyson: la libertà che rinnega se stessa non lo fa, paradossalmente, se non attraverso un atto di affermazione. Tanto che la libertà si confermi, quanto che si neghi, lo fa pur sempre mediante un atto di libertà, lo fa pur sempre, cioè, affermandosi. Essa è talmente libera che è anche libera di non essere libera, ma l’atto di negazione di se stessa è al contempo un atto di asservimento, perché rifiuta ciò che le permette di essere – che è per Pareyson l’essere stesso.[10] Applicato al nostro discorso, l’essere negato è quello dell’espressione insita nel velo islamico, cioè la religiosità cui rimanda il simbolo; la neutralità che si presume salvaguardare vietandone l’espressione, è asservita a se stessa negandosi nella sua stessa affermazione.
L’espressione religiosa così negata – taciuta – parla nella sua assenza, attraverso la rivendicazione delle donne che scopre così il paradosso del neutrale occidentale. Ma ancor più, quello stesso luogo di lavoro – così come ad esempio una scuola – che si vuole neutrale, si trasforma in questo modo nel palcoscenico della controversia sul velo che emerge proprio nel momento stesso in cui si vieta di indossarlo, cioè nel momento stesso in cui si vuol salvaguardare la neutralità: l’invisibile-religioso, cioè, diviene veramente visibile solo attraverso la discussione – generata dal divieto – sicché quella “neutralità” che si voleva salvaguardare rischia di generare più prese di posizioni di quelle che si volevano evitare. Il punto è che, come può un luogo ritenersi, in questo caso, religiosamente indirizzato con la sola esposizione di un simbolo? Luoghi di culto e associazioni confessionali a parte, riteniamo che un luogo di lavoro non possa dirsi religiosamente indirizzato fin tanto che la finalità dell’impiego non è subordinata alla confessione religiosa professata dall’impiegato non regolata da leggi scritte interne all’azienda. Nel caso della sig.ra Achbita, ad esempio, la G4S ha modificato il proprio regolamento interno dichiarando che «è fatto divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi»[11] soltanto dopo che la Achbita aveva fatto presente di voler indossare il velo. Ma ancor più, nel momento in cui è stato modificato il regolamento, è giusto che un’azienda – non religiosa – regoli un campo religioso? Ed è giusto che venga vietata la visibilità di un simbolo se esso non compromette lo svolgimento dell’impiego? Ciò che qui si vuol sostenere è che la finalità dell’impiego può esser compromessa dall’argomentazione, cioè dal discorso persuasivo diretto a convincere terzi di proprie posizioni, che evidentemente devia dal proprio lavoro, né il luogo di lavoro si presterebbe ad essere adatto a tali discussioni. Come avrebbe sostenuto il filosofo Chaïm Perelman, l’argomentazione è «l’arte del persuadere e di convincere, la tecnica della deliberazione e della discussione», campo del «verosimile, del probabile, nella misura in cui quest’ultimo sfugge alle certezze del calcolo»[12], ma non per questo irrazionale. Ai fini del nostro discorso, l’argomentazione sul simbolo mostra realmente la visibilità del religioso che, a questo punto, da mera immagine – da mero simbolo – si traduce in discorso: viene cioè visto razionalmente, colto intellettualmente e può quindi persuadere l’altro di una propria posizione. In questo senso – cioè con la traduzione in discorso del simbolo – la neutralità può essere corrotta e il luogo di lavoro trasformarsi quasi in un contesto di proselitismo indebito.
Ma d’altra parte, ciò rivela che proprio la discussione – fuori dal luogo di lavoro – ha la capacità di riscoprire quel gioco di significazioni di cui parlava Durand e restituire al simbolo tutta la sua complessità e ricchezza. Proprio la discussione, cioè, quel carattere pubblico e politico che la società globale sta man mano perdendo, emerge dai luoghi privati di questa stessa società, non per decidere, ma sul già deciso. Infatti, mentre si vieta la visibilità del simbolo sul luogo di lavoro, da ciò emerge il discorso attorno all’invisibile-religioso cui esso rimanda, non per decidere se sia effettivamente opportuno – per questo – indossarlo o meno sul luogo di lavoro, ma su una decisione che è stata già presa – quella, appunto, di vietarlo – al che, probabilmente, ogni ulteriore riflessione risulterebbe quasi vana. Segno, ancora una volta, del paradosso politico dell’Occidente, nato sotto il segno del dialogo – cioè del διαλέγομαι – e che lentamente sta morendo nei mutismi delle sue contraddizioni.
[1] Cfr. H. G. GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 188.
[2] Sent. Corte di Giustizia Europea 14 marzo 2017, n. C-157/15. corsivo mio.
Fonte: file:///C:/Users/Pc/Desktop/SENTENZA_DELLA_CORTE_157.pdf
[3] La direttiva è consultabile al seguente link: http://www.asgi.it/wp-content/uploads/public/direttiva.2000.78.pdf
[4] G. DURAND, L’imagination symbolique, Presses Universitaires de France, Paris 1968, pp.13-14.
[5] R. ASLAN, Non c’è dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam, Rizzoli, Milano 2015, pp. 105-106.
[6] C’è chi ha appunto evidenziato di come la legge sul velo possa essere un meccanismo di controllo sulla sessualità femminile e sulla differenza fra i sessi. Ne parla I. DOMINIJANNI, Corpo e laicità: il caso della legge sul velo, in Le ragioni dei laici, a cura di G. PRETEROSSI, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 175.
[7] R. ASLAN, op. cit., p. 107.
[8] A. FERRARI, La lotta dei simboli e la speranza del diritto. Laicità e velo musulmano nella Francia di inizio millennio, in Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, a cura di E. DIENI, A. FERRARI, V.PACILLO, Il Mulino, Bologna 2005, p. 194.
[9] Mi permetto di rinviare all’articolo al seguente link: https://www.eurasia-rivista.com/la-laicita-ovvero-principio-del-niente/
[10] Cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2000, p. 19.
[11] Sent. Corte di Giustizia Europea 14 marzo 2017, n. C-157/15.
[12] Cfr. C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato sull’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 1989, pp. 3-7.
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