Pubblichiamo il testo della relazione tenuta il 12 febbraio 2016 dal direttore di “Eurasia” alla conferenza su Julius Evola organizzata a Brescia dal Centro Studi Dimore della Sapienza.
Siccome ricorre in questi giorni il sessantesimo anniversario della Guerra di Suez, concedetemi di esordire rievocando le considerazioni che all’epoca furono svolte da Julius Evola in relazione a quell’episodio.
Quando nel 1956, in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, l’Egitto dovette far fronte all’aggressione anglo-franco-sionista, molti di coloro che nella Seconda Guerra Mondiale avevano combattuto con coscienza di soldati politici contro le “plutocrazie democratiche dell’Occidente” videro nell’Egitto una nuova linea di fronte contro i loro stessi nemici e manifestarono la propria solidarietà nei confronti del popolo egiziano e del suo Rais, Gamal Abd el-Nasser1
Negli ambienti fascisti italiani degli anni Cinquanta, infatti, era ancor vivo il ricordo della posizione filoislamica assunta dall’Italia nel corso del Ventennio e della solidarietà che negli anni del conflitto mondiale si era instaurata tra le forze dell’Asse e i movimenti indipendentisti del mondo musulmano.
Il Manifesto di Verona, al quale continuava a fare riferimento una gran parte dei militanti del fascismo postbellico, aveva indicato tra i punti essenziali della politica estera della RSI il “rispetto assoluto di quei popoli, in specie musulmani che, come l’Egitto, sono già civilmente e razionalmente organizzati”.
E proprio in Egitto, negli anni Cinquanta, la rivoluzione dei Liberi Ufficiali, dopo avere scacciato il re asservito alla Gran Bretagna, proclamato la repubblica (18 giugno 1953), abolito la partitocrazia, avviato un vasto programma di riforme, nazionalizzato il capitale straniero, espulso i Britannici dal Canale di Suez, rifiutato le alleanze militari funzionali al dominio imperialista, concesso asilo ed aiuto agli esuli della Germania sconfitta, si impegnava a costruire un socialismo nazionale che, secondo il progetto nasseriano di unità della Nazione Araba, sarebbe dovuto diventare un vero e proprio socialismo panarabo, basato sui presupposti spirituali forniti dall’Islam.
Julius Evola, che all’epoca collaborava attivamente con gli organi di stampa del cosiddetto “schieramento nazionale”, il 3 marzo 1957 pubblicò sul “Meridiano d’Italia” un articolo che recava questo titolo: L’emancipazione dell’Islam è una strada verso il comunismo.
Lo stesso articolo, con qualche virgola in più e qualche punto e virgola in meno, venne riproposto nell’anno successivo, il 25 giugno 1958, ai lettori del quotidiano “Roma”, che usciva a Napoli.
Innanzitutto, scrive Evola, i neofascisti, che guardano con simpatia “i movimenti irredentistici dei popoli arabi e le stesse iniziative egiziane”, commettono l’errore di attaccare indiscriminatamente il colonialismo, “dimenticando come esso fino ad ieri si legasse al principio stesso dell’egemonia della razza bianca”.
In secondo luogo, scrive, “è abbastanza evidente il pericolo che i detti movimenti di indipendenza finiscano in via naturale nelle acque del comunismo”; e l’Egitto nasseriano, secondo Evola, sarebbe il paese arabo più avanzato su questa strada pericolosa.
Alle posizioni rappresentate dal nasserismo e dagli altri movimenti di liberazione del mondo islamico Evola contrappone quello che secondo lui sarebbe “l’Islam ortodosso”, il quale, a suo parere, “è ancora difeso dall’Arabia Saudita e dall’organizzazione dei Fratelli Musulmani”, anche se questi ultimi, aggiunge, hanno incluso nel loro programma “idee sociali riformiste e radicali assai spinte”.
Risulta difficile ritrovare nell’autore di queste affermazioni il medesimo Evola che vent’anni prima aveva affrontato in maniera molto più critica il carattere problematico della “supremazia della razza bianca”2.
Ancor più difficile è comprendere come Evola potesse attribuire un carattere di ortodossia islamica ad un paese quale l’Arabia Saudita, governato da una fazione che in tutto il mondo musulmano, sia sunnita sia sciita, è sempre stata per lo più considerata come settaria ed eterodossa.
Inoltre è veramente strano che proprio uno studioso come lui, incline ad esplorare i retroscena dei fatti storici e a denunciare le trame della “guerra occulta”, trascurasse il fatto che l’Arabia Saudita era nata dalle operazioni più o meno occulte della Gran Bretagna, interessata a scagliare gli Arabi contro l’Impero Ottomano e a garantirsi il controllo della penisola arabica; e che egli trascurasse il fatto che la monarchia saudita era ormai diventata una pedina importante dell’imperialismo statunitense.
Ciò si spiega in buona parte col fatto che Evola aveva stabilito che l’Occidente, per usare le sue parole, non certo “in sede di idea”, bensì in una ricognizione tattica delle circostanze contingenti, rappresentava il “male minore”3.
Infatti il nemico principale, come è noto, era per lui il comunismo, che molti, anche in buona fede, consideravano un rischio reale, nonostante l’evidenza della situazione di oggettiva complicità instauratasi a Jalta tra Statunitensi e Sovietici.
Così l’ossessione del comunismo indusse pure lui, come tanti altri, a vedere il pericolo bolscevico anche laddove esso non sussisteva: come, per l’appunto, nell’Egitto di Nasser, dove il partito comunista era stato messo al bando e i suoi dirigenti, che per lo più erano ebrei e quindi sospettati di intelligenza col nemico sionista, erano stati posti in condizione di non nuocere.
Nell’articolo di Evola sembra invece più realistico e fondato un punto che l’autore stesso ritiene “essenziale” e che viene da lui formulato nei termini seguenti, evidenziati dai caratteri corsivi: “gli stessi popoli islamici non si stanno rendendo indipendenti dall’Occidente che in quanto si occidentalizzano, ossia che in quanto subiscono spiritualmente e culturalmente l’invasione occidentale”. Vale a dire, prosegue Evola, “essi non si emancipano materialmente che abbandonando in larga misura le proprie tradizioni e costituendosi a fac-simili più o meno imperfetti degli Stati occidentali”.
Insomma, se Evola non aveva tutti i torti allorché notava che l’emancipazione politica dei paesi musulmani colonizzati si accompagnava spesso all’adozione di elementi culturali estranei alla cultura islamica, egli sbagliava quando sosteneva che l’occidentalizzazione avrebbe portato i paesi musulmani tra le braccia del comunismo.
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Quello che Evola scriveva nel 1956 costituisce un’ulteriore conferma della necessità di distinguere l’Evola osservatore politico dall’Evola studioso del mondo tradizionale, poiché, a fronte delle posizioni che emergono dall’articolo su cui mi sono soffermato, l’opera evoliana contiene pagine tutt’altro che banali in relazione alla dottrina ed alla civiltà dell’Islam.
Dobbiamo chiederci, dunque, quale conoscenza Evola avesse dell’Islam, quali elementi ne avesse in qualche modo assimilato e quale fosse, nella sua prospettiva, la posizione specifica della tradizione islamica.
Il quadro della tradizione islamica tracciato da Evola nella sua opera principale, Rivolta contro il mondo moderno (1934), non occupa più di un paio di pagine, ma presenta con sufficiente risalto quegli aspetti dell’Islam che dal punto di vista evoliano valgono a caratterizzarlo come, cito testualmente, “tradizione di livello superiore non solo all’ebraismo, ma anche alle credenze che conquistarono l’Occidente”4, vale a dire alla religione cristiana.
In primo luogo Evola fa notare come il simbolismo dell’Islam indichi chiaramente una riconnessione diretta con la Tradizione primordiale stessa, cosicché l’Islam risulta indipendente dall’ebraismo e dal cristianesimo, religioni delle quali esso d’altronde respinge i temi peculiari: peccato originale, redenzione, mediazione sacerdotale eccetera. Vale la pena di leggere direttamente il brano evoliano:
Come nell’ebraismo sacerdotale, qui al centro sta la legge e la tradizione quale forza formatrice, cui però i ceppi arabi delle origini offrirono una materia assai più pura, nobile, improntata da spirito guerriero. La legge islamica, shariyah, è legge divina; la sua base, il Corano, viene concepita come la stessa parola di Dio – kalâm Allâh – come opera non-umana, libro “increato”, esistente ab aeterno nei cieli. Se l’Islam si considera come “la religione di Abramo” e di questi ha voluto anche fare il fondatore della Kaaba, ove ricorre la “pietra”, il simbolo del “Centro”, pure sta di fatto che esso afferma la sua indipendenza dall’ebraismo non meno che dal cristianesimo, che il centro della Kaaba con quello stesso simbolo è preislamico ed ha origini remote difficili a determinare; che nella tradizione esoterica islamica il punto di riferimento è la figura misteriosa del Khidr, concepito come superiore ed anteriore ai profeti biblici. L’Islam esclude il tema caratteristico dell’ebraismo, che nel cristianesimo diverrà dogma e base del mistero cristico: mantiene, sensibilmente affievolito, il tema della caduta di Adamo, senza trarne tuttavia quello del “peccato originale”. (…) Così viene respinta anche l’idea di “redentori” o “salvatori”, centro del cristianesimo, non solo, ma viene esclusa la mediazione di una casta sacerdotale.5
La radicale formulazione della dottrina dell’Unità, l’assenza di ogni macchia di antropomorfismo, la restaurazione del primordiale contatto diretto col Principio, l’integrazione di ogni settore dell’esistenza in un ordine rituale, l’ascesi dell’azione culminante nel rito del jihâd, la capacità di plasmare una “razza dello spirito” in termini di ummah, termine arabo che indica la comunità fondata su un medesimo orientamento spirituale: sono questi gli aspetti dell’Islam sui quali si sofferma successivamente l’attenzione di Evola. Leggiamo ancora la prosa di Rivolta contro il mondo moderno:
Concepito il Divino in assoluta purezza monoteistica, senza un “Figlio”, senza una qualità di “Padre”, senza una “Madre di Dio”, ogni uomo come muslem appare direttamente connesso a Dio e santificato attraverso la legge, la quale permea ed organizza in qualcosa di assolutamente unitario la vita in ogni sua espressione, giuridica, religiosa, sociale. Come si è accennato, nell’Islam originario l’unica forma di ascesi che si concepì fu quella dell’azione, in termini di jihad, di “guerra santa”, guerra, teoricamente, da non interrompere mai, fino al pieno consolidamento della legge divina. E appunto attraverso la guerra santa, non per un’azione di predicazione e di apostolato, l’Islam ebbe una espansione repentina, prodigiosa, formando non solo l’Impero dei Califfi, ma soprattutto l’unità propria ad una razza dello spirito – umma – la “nazione islamica”.6
L’Islam infine, osserva Evola, è una forma tradizionale completa, nel senso che nel suo contesto è vivo ed operante un esoterismo in grado di fornire, a chi sia dotato delle necessarie qualificazioni, i mezzi utili a conseguire una realizzazione spirituale che oltrepassi il traguardo exoterico della pura e semplice “salvezza dell’anima”.
Infine l’Islam presenta una completezza in alto grado tradizionale in quanto il mondo della Shariyah e della Sunna, della legge e della tradizione, ha il suo complemento non tanto in una mistica, quanto in vere e proprie organizzazioni iniziatiche – turuq – cui è proprio l’insegnamento esoterico, il ta’wil e la dottrina metafisica della Identità suprema, tawhid. La nozione, ricorrente in tali organizzazioni e, in genere, nella cosiddetta Shia, del ma’sum, della doppia prerogativa dell’isma, o infallibilità dottrinale, e dell’impossibilità di esser intaccati dalla colpa, per i capi, gli Imam visibili ed invisibili, e i mujtahid, rientra logicamente nella verità di una razza non spezzata e formata da una tradizione di livello superiore non solo all’ebraismo, ma anche alle credenze che conquistarono l’Occidente.7
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Abbiamo menzionato il jihâd. Evola segue la diffusa consuetudine di rendere il termine arabo con l’abusata espressione “guerra santa” e definisce il jihâd come l’unica forma di ascesi concepita dall’Islam originario. Noteremo che la definizione evoliana riprende il concetto espresso da un detto tradizionale – un hadîth – del Profeta Muhammad, secondo il quale “l’ascesi dell’Islam è il jihâd”.
A questo proposito è importante osservare che Rivolta contro il mondo moderno contiene un capitolo, intitolato La grande e la piccola guerra santa, nel quale è evidente (e d’altronde dichiarato) il debito di Evola nei confronti di un libro di René Guénon, Le symbolisme de la Croix, in particolare del capitolo intitolato La guerre et la paix.
In questo capitolo di Rivolta contro il mondo moderno l’autore fa riferimento ad un particolare aspetto della dottrina concernente il jihâd, un aspetto che viene indicato per l’appunto dal titolo La grande e la piccola guerra santa.
Nel contesto dell’opera evoliana questa nozione di “grande e piccola guerra santa” occupa un posto molto importante, anche perché Evola attribuisce ad essa un valore paradigmatico.
La nozione di “grande e piccola guerra santa”, infatti, esemplifica e rappresenta, per Evola, la concezione generale che il mondo della Tradizione riferisce all’esperienza guerriera e, in senso più ampio, all’azione intesa come via di realizzazione spirituale.
Quale sia l’importanza che ha per Evola la dottrina della grande e piccola guerra santa, lo si deduce dal fatto che egli riprende spesso questo concetto, quando deve illustrare l’ascesi dell’azione.
Per esempio, lo riprende e lo sviluppa pochi anni dopo la prima edizione di Rivolta, precisamente il 7 dicembre 1940, in una conferenza da lui tenuta in lingua tedesca nella sezione di Scienza della Civiltà del Kaiser Wilhelm Institut, a Palazzo Zuccari in Roma.
In questa occasione Evola dice: “Non deve meravigliare se noi faremo riferimento soprattutto alla tradizione islamica. La tradizione islamica sta qui al posto della ario-iranica. [Die islamische Tradition steht hier am Platze der arisch-iranischen] L’idea di ‘guerra santa’ (…) aveva, quindi, allo stesso tempo, il significato di tardo rinascimento di una eredità aria primordiale [Die Idee des ‘heiligen Kampfes’ (…) hatte also gleichsam die Bedeutung der späteren Renaissance eines altarischen Erbgutes] e, da questo punto di vista, essa può essere senz’altro utilizzata”8.
Alla dottrina della grande e della piccola guerra santa, dunque, Evola affida il compito di rappresentare la concezione tradizionale attinente all’esperienza guerriera e, in senso più ampio, all’azione intesa come via di realizzazione spirituale. Gl’insegnamenti riguardanti l’azione guerriera che si ritrovano in ambiti tradizionali diversi (ad esempio nella Bhagavad Gîtâ e nella dottrina templare) sono considerati da Evola alla luce della loro convergenza con la dottrina islamica del jihâd e vengono esposti mediante il ricorso ad una nozione che è, anch’essa, di derivazione islamica: la nozione della “Via di Dio” (sabîl Allâh è la corrispondente espressione coranica).
La formula di cui Evola si serve per riferirsi a questa dottrina trae origine da un celebre hadîth del Profeta Muhammad, il quale, al ritorno da una campagna militare, disse: “Raja’nâ min al-jihâd al-açghar ilâ ‘l-jihâd al-akbar” Cioè: “Siamo tornati dallo sforzo minore allo sforzo maggiore”. (“Sforzo”, infatti, è il significato letterale del termine jihâd, che viene comunemente reso con “guerra santa”).
Evola commenta questo hadîth nel modo seguente:
Nella tradizione islamica vengono distinte due guerre sante: l’una è la ‘grande guerra santa’ – al-jihâdul akbar – l’altra la ‘piccola guerra santa’ – al-jihâdul açghar (…) La grande guerra è di ordine interno e spirituale; l’altra è la guerra materiale, quella che si combatte all’esterno contro un popolo nemico (…) Tuttavia la ‘grande guerra santa’ sta alla ‘piccola guerra santa’ come l’anima sta al corpo; ed è fondamentale per la comprensione della ascesi eroica intendere la situazione nella quale le due cose divengono una sola, la ‘piccola guerra santa’ facendosi il mezzo attraverso il quale si attua una ‘grande guerra santa’ e viceversa: la ‘piccola guerra santa’ – quella esteriore – divenendo quasi un’azione rituale che esprime e testimonia la realtà della prima. In effetti, in origine l’Islam ortodosso non concepì che una forma di ascesi: quella legantesi appunto al jihâd, alla ‘guerra santa’. La ‘grande guerra santa’ è la lotta dell’uomo contro i nemici che egli porta in sé. Più esattamente, è la lotta dell’elemento non umano dell’uomo contro tutto ciò che in lui vi è di (…) governato da principio del caos e del disordine.9.
Più avanti prosegue così:
Nel mondo dell’ascesi guerriera tradizionale la “piccola guerra santa”, ossia la guerra esteriore, viene additata od anche prescritta quale via per realizzare questa “grande guerra santa” e per tale ragione nell’Islam “guerra santa” – jihad – e “via di Allah” son termini spesso usati come sinonimi. In quest’ordine di idee l’azione ha rigorosamente la funzione e il compito di un rito sacrificale e purificatorio. (…)
Naturalmente, l’orientamento spirituale, la “giusta direzione” – niyyah – che è quella rivolta agli stati sopraindividuali dell’essere (simboli: il “cielo”, il “paradiso”, i “giardini di Allah”, e via dicendo) è presupposta come base; altrimenti la guerra perde il carattere sacro e si degrada in una vicenda selvaggia e irrazionale ove al Guerriero si sostituisce il soldato e all’”eroe” nel senso antico la bestia, o, al più, l’esaltato.10
Evola riporta tutta una serie di passi coranici relativi ai concetti di jihâd e di “Via di Allah”; accanto ad essi vengono pure citate, a titolo esemplificativo ed illustrativo, due massime: “Il paradiso è all’ombra delle spade” e “Il sangue degli eroi è più vicino a Dio dell’inchiostro dei filosofi e delle preghiere dei devoti”11.
Ora, se la prima di queste due massime è effettivamente un hadîth, la seconda, desunta da una fonte di cui Evola non fornisce gli estremi, suona originariamente in termini alquanto diversi: “L’inchiostro dei sapienti e il sangue dei martiri saranno pesati nel Giorno della Resurrezione, e la bilancia penderà in favore dei sapienti” (hadîth riferito da Suyûtî, Al-jâmi’ aç-çaghîr).
Prima di passare ad esporre le formulazioni secondo le quali la dottrina della “guerra santa” è stata enunciata in ambiti tradizionali diversi da quello islamico (soprattutto in quelli indù e cristiano), Evola individua un rapporto di analogia tra la morte conseguita dal mujâhid e la mors triumphalis della tradizione romana12; il tema viene ripreso più oltre, laddove il “significato di immortalamento”13 attribuito alla vittoria guerriera da certe tradizioni europee è messo in stretto rapporto con “l’idea islamica, secondo la quale i guerrieri uccisi nella ‘guerra santa’ – jihad – non sarebbero mai veramente morti”14.
A tale proposito Evola cita un celebre versetto coranico: “Non dite morti coloro che furono uccisi nella via di Dio; no, anzi sono vivi, però voi non ve ne avvedete”15. Egli indica la convergenza di questo versetto con un passo della Repubblica di Platone (Resp. 468 e) nel quale è detto – riporto le parole di Evola – che “alcuni morti in guerra vanno a far corpo con la razza aurea che, secondo Esiodo, non è mai morta, ma sussiste e veglia, invisibile”14.
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Su base analoga (…) la distinzione geografica fra il dar al-islam, o terra dell’Islam, retto dalla legge divina, e il dar al-harb, o terra della guerra, per comprendere genti, che nella prima vanno riprese attraverso il jihad, la “guerra santa”.17
Nel medesimo capitolo, trattando della funzione imperiale di Alessandro Magno, soggiogatore delle orde di Gog e di Magog, Evola rimanda alla figura coranica di Dhû’l-qarnayn (il Bicorne, che viene correntemente identificato con Alessandro), nonché alla sura XVIII del Corano.18
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Evola passa così a tracciare un sommario profilo di quello che egli, con una certa improprietà, definisce “l’Ordine arabo degli Ismaeliti”, cioè il movimento d’origine sciita nato verso la metà del sec. VIII:
Ebbene, l’esoterismo islamico, col suo complesso di nozioni e di simboli, fornisce ad Evola diversi spunti e riferimenti.
Per quanto concerne simboli e motivi legati al sufismo, si noti ad esempio il rilievo che nell’opera evoliana è assegnato al tema polare. A questo proposito Evola scrive che “il termine Qutb, ‘polo’, ha designato non solo il sovrano ma, più in genere, colui che dà legge ed è il capo della tradizione di un dato periodo storico”22. (Più esattamente, il Qutb rappresenta il vertice supremo della gerarchia iniziatica).
Ebbene, c’è in Rivolta un capitolo intero, il terzo della prima parte, che verte su questa funzione tradizionale e impiega per l’appunto i termini “polo” e “polare”; la cosa strana è che non vi è contenuto alcun riferimento esplicito alla tradizione islamica.
Alla fine, se vogliamo trarre un bilancio, Evola traccia un quadro della tradizione islamica che, se talvolta è inesatto nei particolari e spesso è condizionato dalla sua “equazione personale”, tuttavia costituisce una rappresentazione ispirata al riconoscimento convinto di ciò che è essenzialmente l’Islam, al di là di tutte le deformazioni e le deviazioni da esso conosciute nel corso della sua storia e specialmente oggi: una manifestazione dello spirito tradizionale da cui non può prescindere quella che Evola ha chiamata la “rivolta contro il mondo moderno”.
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- Tra coloro che nel socialismo nazionale nasseriano riconobbero una delle forme di fascismo postbellico, vi fu Maurice Bardèche, del quale riportiamo qui di seguito alcuni brani. “’Rialza la testa, fratello, i giorni dell’umiliazione sono passati’. Con questa frase, che si sarebbe adattata alla Germania del 1934, Nasser annunciò sui muri del Cairo, nel 1954, l’avvento di un’era nuova. A venti anni di distanza, un altro popolo spezzava le sue catene. (…) La struttura della repubblica d’Egitto riproduce i caratteri della struttura politica fascista. Il capo dello Stato riunisce nelle sue mani i diversi poteri, (…) i partiti politici sono sciolti ed il contatto col popolo è mantenuto per mezzo del partito unico, l’Unione Nazionale. (…) Ma guardando ancor meglio, troviamo nel regime di Nasser caratteri visibili del fascismo d’anteguerra. In particolare quel carattere del fascismo (…) da cui si riconosce l’ispiratore di un movimento fascista e l’idea che questi si fa della sua missione. In ogni fascismo vi è una morale ed un’estetica (…) Nasser ed i suoi fascisti hanno trovato questa mistica fascista nell’Islam (…) Nel Corano vi è qualcosa di guerriero e di forte, qualcosa di virile, qualcosa che si può chiamare romano. Perciò Nasser è così ben compreso dagli arabi; parla la lingua che parla la loro razza nel profondo dei cuori” (M. Bardèche, Che cosa è il fascismo?, Roma 1980, pp. 88-92).
- J. Evola, Il problema della supremazia della razza bianca, “Lo Stato”, luglio 1936; rist. in J. Evola, Lo Stato (1934-1943), Roma 1995, pp. 151-160.
- J. Evola, Orientamenti. Undici punti, Padova 2000, p. 24.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Milano 1951, p. 324.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Bocca, Milano 1951, p. 323.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 323-324.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 324.
- Es soll nicht erstaunen, wenn wir uns vor allem auf die islamische Tradition beziehen. Die islamische Tradition steht hier am Platze der arisch-iranischen. Die Idee des ‘heiligen Kampfes’ (…) hatte also gleichsam die Bedeutung der späteren Renaissance eines altarischen Erbgutes und kann unter diesem Gesichtpunkt ohne weiteres verwendet werden” J. Evola, Die arische Lehre von Kampf und Sieg, Wien 1941, p. 14; J. Evola, La dottrina aria di lotta e vittoria, Padova s. d. [ma: 1968], p. 15.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 1951, pp. 171-172.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 172-173. Cfr. anche, dello stesso autore, La dottrina aria di lotta e vittoria, cit., p. 16 e Diorama filosofico, Roma 1974, pp. 307-308.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 180. Cfr. Diorama filosofico, cit., p. 308, dove la seconda massima è data in una forma un po’ differente.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 174.
- J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 193.
- Ibidem.
- “Wa lâ taqûlû li man yuqtalu fî sabîli Llâhi amwâtan; bal ahyâ’un wa lâkin lâ tash’urûn” (II, 149).
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 52-53.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 59.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 58.
- J. Evola, Il mistero del Graal, Milano 1962, p. 147.
- J. Evola, Il mistero del Graal, cit., pp. 147-148.
- J. Evola, Oriente e Occidente, Milano 1984, p. 212.
- J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Roma 1974, p. 50.