Negli ultimi sei mesi, gli attacchi ai gasdotti e oleodotti in Yemen si sono susseguiti a intervalli ridotti, quasi regolari. L’ultima esplosione, avvenuta agli inizi di novembre nel governatorato di Shabwa, ha causato la perdita di oltre 5mila barili di petrolio e la sospensione temporanea dell’attività di prelievo del petrolio nell’area. La responsabilità di questi attacchi viene generalmente attribuita a membri di AQAP, al-Qa’ida in the Arabian Peninsula, organizzazione che ormai sembra trovi nello Yemen una roccaforte inespugnabile, nonostante l’establishment locale stia cercando di liberarsi dall’immagine di paese-culla dell’organizzazione del terrore. Eppure, è proprio dallo Yemen, per esempio, che poche settimane fa furono spediti i pacchi-bomba diretti negli Usa. E, sempre in Yemen, sembra che Omar Faruk ‘Abd al-Mutallab sia venuto in contatto con membri di al-Qa’ida che l’avrebbero convinto a salire a bordo del volo Northwest 253 da Amsterdam a Detroit lo scorso Natale, con addosso una ingente dose di tetranitrato di pentaeritrite, uno degli esplosivi più potenti in circolazione.
Ma un’analisi delle dinamiche interne del paese e della sua situazione sul piano internazionale, mette in luce che i fattori all’origine degli attacchi a gasdotti e oleodotti poco hanno a che spartire con al-Qa’ida. Al contrario, le cause vanno ricercate soprattutto nelle ataviche problematiche socio-economiche yemenite, le divisioni e rivalità tribali e gli squilibri economici tra la zona settentrionale e quella meridionale del paese. Questi elementi hanno fatto da presupposto per la creazione di un humus in cui “la Base” riesce a prosperare, come del resto è chiaro ormai anche tramite l’esperienza di paesi com Afghanistan, Iraq e Somalia.
Fattori geografici, storici, sociali: il rischio Yemen
È la stessa collocazione geografica, insieme con la configurazione territoriale dello Yemen, a renderlo un paese potenzialmente esplosivo. Situato ai ‘margini’ della penisola arabica, il paese è dotato di una lunga fascia costiera che si estende per circa 1500 km e che si affaccia sul Golfo di Aden, ultimamente oggetto di un preoccupato interesse da parte dei paesi occidentali perché infestato dalle attività criminose della pirateria. Di particolare rilievo in questo senso, è il fatto che la guardia costiera yemenita detenga il controllo nominale sullo stretto di Bab al-Mandib, uno degli snodi fondamentali nelle rotte petrolifere: è stato stimato che attraverso le acque dello stretto transitino circa 3,3 milioni di barili di petrolio ogni giorno, diretti verso i paesi occidentali. L’interno montuoso del paese, inoltre, caratterizzato da aree molto difficilmente accessibili, viene spesso considerato safe haven di uomini legati a cellule qaidiste.
La fine della guerra fredda ha fatto sì che lo Yemen del nord e del sud, appartenenti rispettivamente alla zona di influenza americana e sovietica, si riunificassero sotto la guida del Presidente Ali Abdallah Saleh, in carica dal 1978 nella zona settentrionale del paese e tuttora alla guida dello Yemen unificato. Ma le differenze – in primis economiche – tra le due zone del paese, che nel 1994 avevano costituito il fattore scatenante di una sanguinosa guerra civile, sono a tutt’oggi fonte di instabilità per il paese. Le province meridionali, gravate da pesanti tasse e dal flusso imponente di migranti e rifugiati provenienti dai paesi del Corno d’Africa, hanno spesso manifestato la loro insoddisfazione contro San’a. Nel nord, invece, dal 2004 è in corso la ribellione sciita dei seguaci del clan degli Huthi. Anche in questo caso, le motivazioni dei guerriglieri sono legate a quelle che sono percepite come ingiustizie economico-sociali. Ma il fatto che si tratti di una rivolta della popolazione sciita contro la San’a sunnita ha spesso indotto gli analisti a pensare che in realtà questa rappresenti una proxy war, una “guerra per procura”, tra Iran (sciita) e Arabia Saudita (sunnita) che trova nello Yemen del nord il suo campo di battaglia.
La violenta repressione governativa di entrambe le rivolte si è macchiata di pesanti violazioni dei diritti umani, che hanno finito per alimentare le ostilità locali nei confronti del governo centrale. A complicare ulteriormente la situazione, si innestano le importanti rivalità legate alla struttura tribale della società yemenita: tribù, clan e famiglie, infatti, oltre a essere in rivalità tra di loro spesso lo sono anche al loro interno. Questo ha importanti ripercussioni a livello strategico e politico: basti pensare che la maggior parte delle forze di sicurezza del paese sono composte da individui appartenenti a clan e tribù legate a quella di appartenenza dello stesso Presidente Saleh.
Come si spiega il successo di al-Qa’ida in Yemen?
Negli ultimi anni, nei media occidentali si è sentito parlare di Yemen sempre più spesso, e sempre più in relazione alle attività dell’AQAP (al-Qa’ida in the Arabian Peninsula), organizzazione nata nel gennaio 2009 dalla fusione tra le branche yemenita e saudita di al-Qa’ida. Fusione che non fa che inquietare coloro che temono la possibilità che venga stabilito un legame anche tra l’AQAP e l’organizzazione terroristica somala al-Shabab, vista l’immigrazione massiccia verso lo Yemen della popolazione proveniente dai paesi del Corno d’Africa.
A proposito della presenza di al-Qa’ida in Yemen è necessario sottolineare due fattori in particolare. Per prima cosa, la recente evoluzione della struttura organizzativa dei gruppi terroristici che, da piramidale – quindi dotata di un ‘vertice’ logistico da cui partono le direttive delle azioni da portare avanti – è passata a quella network-centric: una rete diffusa di collaboratori, ognuno relativamente indipendente sia rispetto agli altri che rispetto a un qualsiasi leader al vertice. Fattore che ovviamente rende molto più complicato ogni tentativo di arrestare l’organizzazione e di prevederne le mosse future.
Il secondo aspetto, invece, riguarda la dinamica della penetrazione di al-Qa’ida in Yemen. Il segreto del successo dell’AQAP in ambito yemenita risiede nella capacità dell’organizzazione di far leva sul contesto locale, soffiando sul fuoco di un rancore legato ad ataviche problematiche socio-economiche, che sono legate sia alla struttura tribale della società yemenita, sia alla divisione e successiva riunificazione del paese. Dinamica efficacemente ricostruita da David Kilcullen, l’esperto australiano consigliere di Condoleeza Rice e del Generale Patraeus, in quella che lui definisce la sindrome della “guerriglia accidentale”.
Per comprendere quali sono i fattori scatenanti degli attacchi agli oleodotti e gasdotti, quindi, è necessario descrivere la difficile situazione che la popolazione yemenita si trova ad affrontare.
Lo Yemen è considerato il paese più povero del Medio Oriente, ma con uno dei tassi di crescita della popolazione tra i più alti del mondo. Gradualmente, questo sta portando all’esaurimento delle risorse naturali disponibili, petrolio e acqua inclusi. Infatti, dopo aver raggiunto un picco nella produzione del greggio intorno al 2001, la produzione del petrolio yemenita è calata vertiginosamente, mentre di pari passo aumentava il consumo locale della risorsa petrolifera. Oggi, sembra che lo Yemen produca circa 300mila barili di petrolio al giorno. Quantità modestissima, se si pensa al fatto che l’Arabia Saudita al giorno ne produce circa 10 milioni e una città come Roma nel solo mese di ottobre 2010 ne ha consumati 46 milioni.
Quello che è interessante notare, è il link tra al-Qa’ida e gli attacchi agli oleodotti del paese. Infatti, due degli attacchi più recenti – quello effettuato a metà giugno nella provincia del Ma’rib e quello di inizio novembre a Shabwa – sono avvenuti in seguito a operazioni eseguite dall’apparato militare del Presidente Saleh per catturare membri di al-Qa’ida, tra cui il saudita Ibrahim al-Asiri, apparentemente la mente sia del piano terroristico (fallito) dell’attentato del Natale scorso al volo Amsterdam–Detroit, che dell’invio dei pacchi esplosivi in Usa e Gran Bretagna. Operazioni militari di questo tipo avvengono frequentemente nel territorio yemenita. E spesso, finiscono per innestarsi all’interno del complicato quadro di rivalità tribali del paese; per esempio, quando capi tribali vengono accusati di dare ospitalità a uomini di al-Qaeda ‘nella loro zona’ e di coprirli.
Il sospetto che il Presidente Saleh utilizzi quella di ‘colpire al-Qa’ida’ come una copertura per perseguire affari e scopi personali non è cosa recente. La comunità internazionale, allarmata di fronte all’attività terroristica di al-Qa’ida, ha recentemente aumentato il flusso di donazioni allo Yemen, per aiutare San’a a debellare la minaccia. Esempio eloquente è dato dal fatto che lo Yemen sia al primo posto della classifica dei paesi che vengono aiutati economicamente dagli Usa. La cifra donata dagli Stati Uniti allo Yemen, che ha continuato a crescere negli ultimi dieci anni, ha ormai raggiunto cifre inedite, per un totale di oltre cinquanta milioni di dollari nel 2010, come indicato nel grafico.
Gli Usa, nonostante siano provati dalla crisi economica e finanziaria e s trovino ancora impelagati nelle imprese miliari avviate quasi un decennio fa in Iraq e Afghanistan, secondo la propria visione strategica, non possono permettere che lo Yemen scivoli in uno stato di totale ingovernabilità. Sia per evitare che il controllo sul flusso di petrolio che passa per le acque yemenite cada in mani ‘sbagliate’ – cosa che rischierebbe di far diminuire gli approvvigionamenti diretti ai paesi occidentali – sia per mantenere il precario equilibrio geopolitico del Corno d’Africa. Somalia, Eritrea ed Etiopia sono alle prese con situazioni interne difficili e pesanti rivalità regionali. In questo panorama, il microscopico stato del Gibuti, che ospita uomini con regole d’ingaggio Usa, Nato e Ue, e legati rispettivamente ad Africom, operazione Ocean Shield e Navfor, rappresenta quasi un’oasi di tranquillità se paragonato ai turbolenti paesi confinanti e un elemento strategico fondamentale per la Nato e i membri dell’Ue.
Il sospetto che Saleh, invece di destinare i fondi internazionali, e quelli Usa in particolare, alla lotta contro al-Qa’ida e a migliorare le condizioni di vita della popolazione locale se ne stia servendo per perseguire altri scopi, si è rafforzato in seguito alla sua decisione di utilizzare gran parte delle donazioni Usa per mettere in atto, nell’agosto dello scorso anno, l’operazione Terra Bruciata (Scorched Earth) mirata a sfiancare la resistenza al nord inviando 4mila uomini e effettuando una pesante campagna di bombardamenti aerei con enormi costi umanitari e finanziari. La lotta armata tra San’a e ribelli del nord, nata nel 2004 come conflitto interno allo Yemen, si è rapidamente trasformata in un conflitto regionale nel 2009, quando Riyad – apparentemente in risposta a incursioni dei ribelli del nord in territorio saudita – ha dato inizio a un’importante campagna militare lungo il confine meridionale. Erano decenni che l’Arabia Saudita non procedeva unilateralmente ad azioni miliari, ma evidentemente il pericolo che i ribelli sciiti del nord si impossessassero del potere in Yemen, potenzialmente controllandone gli stretti e agendo come longa manus dell’Iran, era troppo grande perché Riyad rimanesse inerte.
Scenari a breve-medio termine
Lo scenario a breve-medio termine degli attacchi a oleodotti e gasdotti rimane sostanzialmente inalterato. Il trend futuro di questi attacchi è intimamente connesso alla risoluzione di problemi economici e sociali del paese, che oltre a includere la ricchezza e il tenore di vita della popolazione, riguarda anche il livello di corruzione dell’élite politica al potere. Ma la soluzione di questi problemi non sembra affatto vicina.
Va detto anche che passi avanti sono comunque stati fatti: basti pensare che recentemente il governo yemenita ha invitato i donatori occidentale a bypassare le istituzioni locali nel donare gli aiuti economici per lo sviluppo del paese. Un segnale importante, che sottolinea la presa di coscienza di San’a riguardo alla problematica della corruzione. Nella conferenza tenutasi a Londra lo scorso gennaio, sotto l’egida del segretario di Stato Usa Hilary Clinton, è stato istituito il gruppo degli “Amici dello Yemen”, con la finalità di promuovere una cooperazione tra lo Yemen e i paesi occidentali e non fortemente interessati a garantire la stabilità del paese.
La questione degli attacchi agli oleodotti è un esempio utile per capire quanto sia erroneo pensare semplicisticamente ad al-Qa’ida come fonte principale di problemi per lo Yemen, e per sottolineare quanto le questioni tribali e quelle economico-sociali siano invece rilevanti e costituiscano il presupposto per la prosperità del terrorismo trans-nazionale.
* Lorena De Vita ha concluso il Master of Science in Teoria delle Relazioni Internazionali presso la London School of Economics
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”
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