Il progressivo acuirsi della tensione all’interno del mondo arabo ha inoppugnabilmente conferito alla religione – in specie dall’11 settembre 2001 in poi – un ruolo cruciale nello scatenamento dei conflitti ed esaltato una presunta incompatibilità fra civiltà islamica e civiltà occidentale sostenuta in tempi non sospetti dal celebre politologo Samuel Huntington.
Ciò che Huntington e i numerosi propugnatori dell’imminente scontro di civiltà si sono guardati dal considerare, tuttavia, è un altro fattore.
Il fatto, cioè, che il fenomeno più assiduamente preso di mira dalle potenze anglosassoni interessate ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente sia espressione della più evidente vocazione europea.
Si tratta del nazionalismo arabo propugnato da uomini politici di notevole spessore animati dalla volontà di riscattare i propri paesi vessati e umiliati da decenni di imperialismo europeo e statunitense.
Non è frutto del caso il fatto che ogni forma e versione della spinta nazionalista – da Mossadeq a Nasser, da Saddam Hussein alla stirpe degli Assad – sia stata duramente colpita fino a scomparire dall’orizzonte politico mediorientale.
Con un’eccezione, che corrisponde alla Siria baathista.
Il Baath è un partito che affonda le radici in Europa dove Michel Aflaq, il suo ideologo principale, si era recato per approfondire la propria conoscenza del Vecchio Continente e studiare filosofia.
Si iscrisse alla Sorbona, dove ebbe modo di leggere le opere di Marx, Lenin, Nietzsche e Mazzini e di assistere all’ascesa al potere di Hitler.
Tornò in patria dopo aver maturato una complessa concezione ideologica frutto dell’assimilazione di svariate componenti del leninismo e del fascismo.
Aflaq concentrò tutti i propri sforzi nella fondazione del partito Baath, incardinato sulle intuizioni della precedente fase europea.
Finì in galera diverse volte a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inzio degli anni ’50 ma riuscì infine nell’impresa di fondere il Baath con il partito socialista siriano, dando vita a una nuova formazione politica di cui si accingeva ad assumere il ruolo di segretario generale.
Il programma della nuova organizzazione prevedeva la rinascita del mondo arabo, la formazione di un’unica nazione araba basata sui modelli europei di cui i singoli paesi sarebbero divenuti province, la scolarizzazione delle masse imperniata sui principi di solidarietà e progressismo.
La struttura portante della nazione unitaria di cui Michel Aflaq e il suo compagno Akram Hurani intendevano promuovere la costruzione sarebbe dovuta scaturire dalla sintesi di elementi storici, culturali e geopolitici fusi in totale, armonica compenetrazione.
Da greco – ortodosso quale era, Aflaq sapeva che la realizzazione di un progetto tanto ambizioso non avrebbe mai potuto contemplare qualsiasi discriminazione di natura confessionale e infatti si premurò di esaltare il carattere laico dello Stato da costruire escludendo qualsiasi riferimento alla religione.
L’idea di dar vita a una nuova nazione araba che avrebbe dovuto ospitare drusi, copti, sciiti, sunniti, cattolici ecc. si amalgamò ben presto con la versione di socialismo panarabo di cui la parentesi nasseriana fu la massima espressione.
Tuttavia, fu proprio l’ascesa di Nasser a scompaginare l’unità del nuovo movimento politico e frammentò il Baath in una costellazione di correnti e fazioni.
I panarabisti intendevano avvicinarsi all’Egitto, i nazionalisti preferivano profondere tutti gli sforzi necessari alla costruzione di una Siria potente e solida, l’ala radicale guardava con favore al modello sovietico ed auspicava che fosse lo Stato a dettare le regole dell’economia mentre quella più moderata propugnava una visione mista in cui la tradizionale cultura del bazar entrasse in simbiosi con i grandi progetti industriali di cui il paese aveva bisogno.
Malgrado permanesse un solido fondamento politico condiviso da tutte le correnti come la ferma opposizione all’imperialismo e al colonialismo, cementata negli anni dalla tragica pulizia etnica della Palestina, una frangia del Baath intendeva accordarsi con l’Unione Sovietica mentre altre diffidavano del comunismo e del governo di Mosca.
L’audace politica propugnata da Nasser – fondata su un capitalismo di stato ostile al modello liberista e allo stesso tempo tiepidamente favorevole all’alleanza con i paesi del blocco comunista (considerato come l’unico, indispensabile contraltare all’insanabile ostilità delle potenze occidentali) – esercitò una forte influenza nella determinazione delle dinamiche politiche del Vicino e Medio Oriente.
I modelli autoritari europei guardati con favore da Aflaq e il nasserismo costituirono il perno attorno al quale si sviluppò l’intero nazionalismo arabo;dalla formazione dei sistemi a partito unico alla radicalizzazione del culto della personalità dei leader politici, fino all’industrializzazione organizzata e diretta dallo Stato.
Nel loro tentativo di conseguire una modernizzazione dei propri paesi assestandosi su una posizione di relativa terzietà rispetto all’antagonismo bipolare capitalismo/comunismo, molti esponenti del nazionalismo arabo sono stati colpiti duramente in virtù della loro debolezza.
La Siria è attualmente l’unica superstite in virtù della propria posizione geopolitica fondamentale e delle scelte strategiche compiute a suo tempo da Hafez Assad – salito al potere nel 1970 dopo una lunghissima serie di faide interne al Baath – che si era allineato alla direttrice sovietica per garantirsi il proprio ombrello protettivo.
Una volta crollata l’Unione Sovietica il regime guidato da Bashar Assad – figlio di Hafez – è stato inserito nel novero degli “stati canaglia” e minacciato direttamente, da Stati Uniti e Israele in primo luogo.
Da allora la posizione della Siria è andata progressivamente peggiorando.
Il Quadrennial Defense Review Report redatto nel settembre 2001 riportava che: “Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi Stati ed entità non statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.
Si trattava di porre le basi del progetto relativo al “Grande Medio Oriente” che il Presidente George W. Bush presentò pubblicamente in occasione del vertice del G8 del giugno 2004.
Tale progetto prevedeva un ridisegnamento degli assetti geopolitici dell’area territoriale che si estende dal Marocco al Pakistan in modo da renderli funzionali agli interessi statunitensi.
Dopo l’occupazione dell’Afghanistan venne immediatamente rinsaldata l’asse Washington – Tel Aviv, al fine di placare le ambizioni indipendentiste palestinesi e favorire l’affermazione di Israele al rango di potenza egemone dell’intera regione.
Successivamente, l’Iraq venne aggredito unilateralmente, il Baath iracheno scardinato, Saddam Hussein condannato a morte e sostituito da un regime confacente agli interessi statunitensi.
Nel 2005, l’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri istantaneamente attribuito al regime di Damasco innescò la miccia della rivolta antisiriana meglio nota come Rivoluzione dei Cedri, alimentata e sostenuta attivamente dal Comitato statunitense per un Libano libero creato da Ziad Abdelnour, banchiere espatriato che godeva del pieno supporto israeliano.
Nel marzo dello stesso anno il tono delle minacce rivolte verso Damasco assunse contorni inquietanti.
“Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano”, tuonò il Dipartimento di Stato, che si guardò bene dall’ingiungere ad Israele di fare lo stesso in relazione alle Alture del Golan sottratte alla Siria fin dal 1967.
Il vessillo del “Grande Medio Oriente” agitato da George W. Bush è stato evidentemente ripreso da Barack Obama, che unitamente al Presidente francese Nicolas Sarkozy ha più volte minacciato la Siria, intimando al regime di Bashar Assad di farsi da parte e lasciare che la “democrazia” faccia il suo corso, esattamente come in Libia.
Il regime di Gheddafi rappresentava un’ulteriore espressione del nazionalismo laico arabo, anch’esso preso di mira dagli Stati Uniti e dalle potenze europee loro sottoposte.
Il fatto stesso che siano stati i regimi laici del Vicino e Medio Oriente ad esser presi di mira con inaudito vigore dalle potenze anglosassoni e dai loro alleati dimostra quindi l’inconsistenza della concezione di Huntington incardinata sulla presunta insanabile conflittualità tra Occidente e civiltà islamica.
Ma comprova, soprattutto, il fatto che le potenze interessate ad estendere la propria egemonia sul mondo arabo hanno considerato come un enorme pericolo quelle forze modernizzatrici potenzialmente suscettibili di favorire il processo di emancipazione dei popoli del Vicino e Medio Oriente.
Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie
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