Secondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”1.

Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”2? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?

Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”3.

Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”4.

Non è dunque detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, ai termini Heartland (“territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine asiatica che circolavano nei circoli fabiani frequentati da Mackinder, richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”5, questa idea non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti6.

D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili7.

Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un unico continente che ruota intorno all’asse della montagna cosmica; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, considera “Europa (…) ed Asia”8 come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, sicché esse appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”9.

In relazione a quanto esposto dalla teologia greca, vale la pena di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”10.

La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”11, mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”12. Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.

Altri hanno cercato di andare oltre, tracciando le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Ad esempio Fabio Falchi, accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania13, ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”14.

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Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e nozioni appartenenti al simbolismo geografico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica. Il recente numero di “Eurasia” dedicato alla “geopolitica delle religioni” (n. 3 del 2014) ha appunto inteso mostrare come in diverse zone della terra il suddetto fattore costituisca, tra le altre cose, un parametro imprescindibile della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq, la Palestina.

Il caso particolare del cosiddetto “Stato Islamico”, che insieme col caso ucraino è oggetto di più approfondita analisi in questo numero di “Eurasia”, impone all’attenzione dell’osservatore geopolitico un altro tema di rilievo: quello dei luoghi sacri, delle città sante, dei centri religiosi, delle mete di pellegrinaggio.

I luoghi di culto e i monumenti religiosi sono infatti un obiettivo privilegiato della furia distruttrice dei miliziani del sedicente “Califfo” Abu Bakr al-Baghdâdî, i quali li considerano centri di apostasia e di politeismo. Nei territori da loro controllati, infatti, sono state devastate o demolite moschee (sia sunnite sia sciite), chiese cristiane, tombe di profeti, di maestri spirituali e di uomini pii. Per limitarci a pochissimi casi emblematici, ricordiamo che a Mossul sono stati abbattuti il mausoleo del profeta Yunus e quello di San Giorgio; a Tikrit sono state fatte saltare in aria la Chiesa Verde (principale testimonianza della comunità assira, risalente al VII secolo) e la moschea dei Quaranta Santi (Wâlî Arba’în), una delle più significative testimonianze dell’architettura islamica del XIII secolo; ad Aleppo è stata ridotta in polvere la Moschea Khosrofiya, costruita nel 1537 dal grande Sinan; a Samarra è stato distrutto il mausoleo di Imam al-Dur, costruito nel 1085.

La matrice ideologica di tali azioni è evidente. Esse costituiscono una replica delle distruzioni dei siti storici e cultuali dell’Islam perpetrate in Arabia dai wahhabiti, in base alle teorie che condannano la dottrina dell’intercessione (tawassul) e assimilano all’idolatria la pia visita ad un luogo in cui sia sepolto un profeta o un santo. Nella penisola arabica le devastazioni più gravi dei siti aventi rilievo religioso o storico ebbero inizio nel 1806, quando l’esercito wahhabita occupò Medina: allora furono abbattute parecchie moschee e venne distrutto il cimitero di Baqi’ (Jannat al-Baqi’), dove riposavano i resti mortali di importanti figure degli esordi dell’Islam. In quella circostanza, perfino il sepolcro del Profeta Muhammad rischiò la distruzione. Il 21 aprile 1925 gli Ikhwân di ‘Abd el-‘Azîz ibn Sa’ûd demolirono altri monumenti della tradizione islamica, tra cui le tombe dei familiari del Profeta. In seguito, per effetto di una fatwa emessa nel 1994 da ‘Abd el-‘Azîz ibn Bâz, mufti del regime wahhabita saudiano, sono state distrutte circa sei centinaia di cimiteri, sepolcri, moschee, oratori e siti religiosi ultramillenari, tra cui la casa natale del Profeta a Mecca e la sua casa di Medina.

Se in Arabia, in Iraq e in Siria i luoghi santi e i monumenti religiosi sono oggetto della furia wahhabita e takfirita, in Palestina l’esistenza dei santuari islamici è minacciata dal regime d’occupazione sionista. Già nel 1967, quando si impadronirono di Gerusalemme, i sionisti avviarono un programma di scavi sotto il Monte del Tempio, a sud e sudovest, in un terreno appartenente al waqf che gestisce le moschee del Haram al-sharîf. “Gli scavi, diretti da un gruppo di eminenti archeologi israeliani, furono finanziati, in parte, da filantropi ebrei e in parte dalla Chiesa di Dio, un’istituzione fondamentalista che aveva sede a Pasadena in California e ramificazioni in tutto il mondo; era diretta da un certo Herbert Armstrong, che affermava di essere uno dei messaggeri di Dio in terra”15.

L’obiettivo finale degli scavi finanziati dai “filantropi ebrei”, guidati dal Rabbinato e patrocinati dal regime sionista è la demolizione della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, le quali sorgono sulla stessa area su cui dovrebbe sorgere il Nuovo Tempio del giudaismo.


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  1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
  2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
  3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
  4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
  5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
  6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Idem, Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: M. Costa, Conducator. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 5-6.
  7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
  8. Esiodo, Teogonia, 357-359.
  9. Esiodo, Teogonia, 346-348.
  10. Erodoto, VII, 61, 3.
  11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
  12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
  13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).
  14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.
  15. Amos Elon, Gerusalemme, città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p. 256.
Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).