La distruzione dei mausolei di Timbuctù, considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, la liberazione di Rosella Urru, la cooperante rapita dal gruppo islamico Mujao, lo spauracchio del “terrorismo” e dell’“estremismo islamico” hanno acceso i riflettori internazionali sul Mali, un Paese da alcuni mesi spaccato in due: il nord in mano ai ribelli islamici, il sud ad un governo di transizione nato dopo un golpe militare. La situazione attuale è frutto di anni di malgoverno, di corruzione, di ingerenze straniere e degli effetti del colonialismo e del processo di decolonizzazione che tanto male ha fatto all’Africa.

Se riprendiamo gli avvenimenti che hanno destabilizzato il Mali, uno Stato che ad oggi ha perso il 60% del suo territorio, vediamo che tutto è iniziato a fine gennaio quando i ribelli tuareg del Movimento per la Liberazione dell’Azawad (MNLA) hanno sferrato i primi attacchi contro il governo di Bamako. Il MNLA lotta da diversi anni per l’indipendenza dell’Azawad, il vasto territorio abitato da quattro comunità: tuareg, peul, sonrhaïs e arabi, perlopiù nomadi, pastori e commercianti. I tuareg e gli arabi, in particolare, denunciavano da tempo una politica di discriminazione da parte del governo di Bamako, che li trattava come cittadini di serie B. Un trattamento di disparità che trova le sue origini nel processo di decolonizzazione che ha disegnato a tavolino l’Africa. Con la nascita del Mali nel 1960 e l’imposizione dei nuovi confini postcoloniali, i tuareg rimasero infatti privi di uno proprio territorio e divennero minoranza in cinque Stati: Mali, Algeria, Niger, Burkina Faso e Libia.

Detto questo, la lotta dei tuareg che tanto affascina l’immaginario comune nasconde diverse incognite che ancora oggi, a distanza di mesi, non sono chiare. Chi ha fornito le armi? Chi li ha finanziati? Per fare una rivolta a quei livelli c’è infatti bisogno di elevati sostegni economici. In Africa c’è sempre chi alimenta e sostiene i conflitti “etnici” o “religiosi” o “indipendentisti” per trarne dei vantaggi.

 

 

Sospetti sul ruolo della Francia nella destabilizzazione del Mali

Il nord del Mali è ricco di giacimenti minerali non ancora sfruttati, in particolare uranio e petrolio. Le malelingue, la stampa maliana, ma non solo, puntarono da subito il dito contro la Francia, uno Stato che negli ultimi due anni ha condotto una politica interventistica in Africa, vedi i casi delle crisi in Costa d’Avorio e in Libia. Si mise in evidenza come France 24 e Rfi fossero gli unici due media internazionali che diffondessero con assiduità i comunicati della ribellione del MNLA, mettendo in cattiva luce il governo dell’allora presidente del Mali, Amadou Toumani Touré, deposto il 22 marzo da un golpe militare. Compito abbastanza facile infangare il governo di Bamako: Touré e i suoi ministri si sono intascati milioni di dollari del Fondo Monetario Internazionale che erano destinati alla lotta contro l’Aids. Corrotti fino al midollo, i politici maliani sono coinvolti nei traffici di armi, di droga e di esseri umani che infiammano la regione del Sahel. Inoltre, i primi sospetti ricaddero su Parigi, in quanto il presidente Touré si inimicò l’allora capo dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, disapprovando la missione in Libia e rifiutando alcune sue proposte tra cui quella di installare una base militare francese nella città di Sévaré, nonostante la Francia abbia già ben tre basi militari nel Paese: a Bamako, a Gao e Tessalit, quest’ultima considerata strategica.

In pochi mesi il presidente Touré fu scaricato dal governo francese che quasi “esultò” per le sconfitte dell’esercito maliano e le vittorie dei ribelli tuareg, i quali col sostegno dei gruppi islamici di Ansar Dine e del Movimento per l’Unicità e la Jihad dell’Africa Occidentale (MUJAO) conquistarono Kidal, Gao e Timbuctù, ossia l’Azawad. Prima di arrivare alla disfatta dell’esercito maliano, è doveroso sottolineare che l’accostamento dei tuareg ad Al-Qaeda nel Mahgreb islamico avvenne già a febbraio, quando l’allora ministro francese dello Sviluppo Henri de Raincourt, in un’intervista alla radio Rfi denunciò le esecuzioni sommarie, circa un centinaio, commesse nella città di Aguelhock, nel nord-est del Mali, durante un’offensiva dei ribelli tuareg. “Ci sono stati episodi di violenza assolutamente atroce e inammissibile a Aguelhoc con esecuzioni sommarie di soldati e civili” disse Raincourt, parlando di  vittime “sgozzate”, altre freddate “con un colpo alla testa”. Insomma “metodi barbari e veloci” che ricordano “quelli usati da Al-Qaeda”. Fu la prima volta che Parigi suppose un possibile collegamento tra i ribelli del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad e la rete terroristica internazionale. Facendo un passo indietro su quanto sempre affermato. A fine gennaio, l’Eliseo aveva infatti smentito le dichiarazioni del governo di Bamako che aveva detto che membri di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) e ribelli tuareg avevano attaccato insieme Aguelhoc il 24 gennaio. “Si tratta di un crimine di guerra. Sono stupito per il silenzio delle organizzazioni internazionali su tali atrocità. Cosa fa la Corte Penale Internazionale? Nulla”, denunciò Touré, durante un’intervista a “Le Figaro”, mostrando le foto del massacro.  Abbandonato dalla comunità internazionale e sempre più contestato anche in patria, il presidente maliano fu costretto, lo scorso 20 marzo, alla fuga in seguito all’ammutinamento dei militari nella caserma di Kati, trasformatosi poi in uno dei più strani colpi di Stato avvenuti in Africa negli ultimi anni. Nessun spargimento di sangue. E a meno di un mese dalle elezioni presidenziali, previste per aprile.

Secondo il capitano Amadou Sanogo, presentatosi durante un intervento alla tv di Stato, come la guida del Comitato per la Restaurazione della Democrazia e dello Stato, il golpe era necessario di fronte “all’incapacità del governo di far fronte alla ribellione del nord” e alla “mancanza di materiale militare adeguato per la difesa dal terrorismo nazionale” contro l’offensiva per la liberazione dell’Azawad. In quell’occasione, Sanogo promise di “restituire il potere” ai civili. Parola alla fine dei conti mantenuta. Dopo le prime divergenze con la Comunità Economica dell’Africa Occidentale, la giunta ha accettato infatti di mettersi da parte. Oggi il Mali è guidato da un governo di transizione, il cui presidente ad interim è Dioncounda Traoré e il primo ministro Cheick Modibo Diarra. Tornando sul golpe, è doveroso soffermarci sulle dichiarazioni dell’allora ministro degli Esteri francese Alain Juppé a Radio Europe1, che fecero tanto scalpore a Bamako come nel resto del mondo. “Noi siamo legati al rispetto delle regole democratiche e costituzionali. Noi domandiamo il ristabilimento dell’ordine costituzionale ed elezioni, che siano messe in programma per aprile. Bisogna che abbiano luogo al più presto possibile” disse Juppé, senza condannare il golpe, come consuetudine. Tanto è vero che un ufficiale maliano rispose in un’intervista all’AFP: “In casi come questo uno non chiede l’organizzazione del voto in tempi rapidi. La prima cosa che chiede è di ristabilire lo Stato di diritto e l’ordine costituzionale”.

Lo scivolone di Juppé fece pensare che la Francia tenesse il piede in due scarpe. In Africa si dice: “Non c’è foglia che non si muova se la Francia non voglia”. È infatti improbabile che l’intelligence francese, dispiegata su tutto il Continente Nero, non fosse a conoscenza dei movimenti dei militari maliani. Si diffuse la convinzione che Parigi da una parte appoggiasse i tuareg del MNLA, ben armati, ben organizzati ed efficienti, mentre dall’altra fosse “complice” del golpe.

 

 

 

L’interesse degli Stati Uniti nel Sahel

Altri invece puntarono il dito contro gli Stati Uniti in seguito alle notizie trapelate sul capitano Sanogo, che partecipò in passato a programmi di formazione negli Stati Uniti, in particolare nella base dei marines di Quantico, in Virginia. Il governo di Washington, da tempo, cerca di rafforzare la propria presenza nel Sahel, una regione strategicamente importante in quanto linea di frontiera (immaginaria) tra l’Africa del Nord e l’Africa Nera. Senza dimenticare che il suo sottosuolo è ricco di giacimenti minerali. A conferma dell’interesse nord-americano nel Sahel, negli ultimi mesi si sono moltiplicate le operazioni segrete degli Stati Uniti nel Continente Nero. Lo ha rivelato un articolo pubblicato il 13 giugno scorso dal “Washington Post”(1), secondo cui gli Stati Uniti hanno aperto una rete di basi aeree, di piccole dimensioni, ufficialmente per spiare e tenere sotto controllo i gruppi terroristici presenti in Africa, in particolare nella zona compresa tra il Sahara occidentale e l’Equatore. Le operazioni di ricognizione vengono effettuate da piccoli aerei passeggeri o cargo tradizionali disarmati (i Pilatus Pc-12 svizzeri), dotati di sensori nascosti a raggi infrarossi per registrare i movimenti e tracciare i segnali radio e dei cellulari.
Secondo il “Washington Post”, che ha citato un ex-ufficiale dell’esercito coinvolto nella creazione della rete, il programma risale al 2007, ma negli ultimi mesi, in seguito alla crisi in Mali, le operazioni si sono intensificate.

Del resto, il presidente Barack Obama aveva annunciato già ai primi di gennaio la nuova strategia militare statunitense nel mondo, che si basa sull’impiego di droni, di unità speciali, di un esercito “più piccolo e flessibile” e delle tattiche di cyberwar, la guerra informatica. La Casa Bianca vuole evitare conflitti troppo lunghi come quelli in Iraq e in Afghanistan. A conferma di ciò, il giornale statunitense afferma che la “rete” è gestita dalle Forze Speciali dell’esercito nord-americano, da contractor e con la collaborazione delle truppe africane. La fonte del quotidiano statunitense – si legge nell’articolo – “rivela come le Forze speciali statunitensi stiano acquisendo un ruolo crescente nell’amministrazione Obama e stiano lavorando in segreto in tutto il mondo, e non solo nelle zone di guerra”.

Il cuore delle operazioni è in Mali, Mauritania e Nigeria, dove i gruppi islamisti settari stanno conquistando terreno. A questo punto, Francia e Stati Uniti sono i primi della lista dei sospettati. Illazioni, forse, ma rimane il fatto che il Mali è oggi un Paese spaccato in due. E non sono più i tuareg del MNLA ad avere il controllo del nord.

 

 

L’Azawad in mano ai gruppi islamisti

Il due aprile Timbuctù, la perla del deserto e patrimonio dell’Unesco è caduta nelle mani dei ribelli tuareg, che nei giorni precedenti avevano conquistato le città di Kidal e di Gao. Il vuoto di potere che si è venuto a creare all’indomani del golpe militare, ha facilitato di fatto l’avanzata dei ribelli del MNLA che non trovarono ostacoli lungo il cammino. La conquista dell’Azawad – Kidal, Gao e Timbuctù – fu annunciata dal portavoce del gruppo, Hama Ag Mahmoud, ad Al Jazeera: “Il nostro obiettivo non è quello di andare oltre i confini di Azawad. Non vogliamo creare problemi al governo del Mali e tanto meno crearne nella regione sub-sahariana”. Pertanto, “non vogliamo dare l’impressione di essere fanatici di guerra, quindi dal momento in cui abbiamo liberato i nostri territori, il nostro obiettivo è stato raggiunto, ci fermiamo qui”. L’Azawad è circa il 60% del territorio maliano.

È chiaro che l’integrità del Mali è a serio rischio. Di conseguenza, cambiano le carte in tavola e muta l’atteggiamento della comunità internazionale. I tuareg non sono più gli uomini blu del deserto, di cui ci hanno raccontato gli scrittori e gli intellettuali nei loro libri e  con cui – come disse Sarkozy – bisogna “dialogare ” e ai quali concedere “un minino di autonomia”, ma diventano in una sola volta dei criminali che hanno a che fare con Al-Qaeda nel Maghreb. A lanciare l’accusa è lo stesso ministro degli Esteri francesi Alain Juppé, parlando di un’alleanza tra i tuareg e Al-Qaeda nel Maghreb (AQMI) per “impadronirsi dell’intero territorio del Mali e farne una repubblica islamica”. “Alcuni ribelli potrebbero accontentarsi del controllo sui territori del nord, altri con Aqmi, potrebbero puntare a impadronirsi dell’intero territorio del Mali. Il gruppo Ansar Dine, che controlla la città di Timbuctù è strettamente legato ad Aqmi” disse Juppé alla France Press, aggiungendo: “I suoi obiettivi non sono precisamente noti, ma potrebbero comprendere l’instaurazione di un regime islamista nell’insieme del Mali. Solo una cooperazione che coinvolga l’Algeria, la Mauritania, i Paesi della Cedeao-Ecowas, con il sostegno della Francia e dell’Unione Europea potrebbe evitarlo”.

Da quel momento in poi, il pericolo del “terrorismo” e dell’“estremismo islamico” è stato più volte ripreso dai Paesi occidentali, tra cui l’Italia per bocca del ministro della Cooperazione e dello Sviluppo, Andrea Riccardi, e da alcuni Paesi africani, tra cui Niger, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Guinea – Paesi filooccidentali – per legittimare un possibile intervento militare nel nord. In poco tempo il Mali è stato paragonato alla Somalia e definito come il “nuovo Afghanistan” africano. Una tesi che è stata “avvalorata” – ovviamente secondo l’Occidente – in seguito alla presenza sempre più massiccia dei gruppi islamisti di Andar Dine e del Movimento per l’Unicità e il Jihad dell’Africa Occidentale (MUJAO), gruppi legati ad Al-Qaeda, nel nord, che dopo mesi di intesa guerra con i Tuareg del MNLA, li hanno cacciati, diventando gli unici padroni del territorio.

 

 

Interessi internazionali nel Sahel. Spunta il Qatar

In un articolo pubblicato lo scorso 6 giugno dal settimanale satirico francese “Le Canard Enchaîné”(2), i gruppi islamici ma anche i tuareg del MNLA sarebbero finanziati dal Qatar, con la complicità della Francia. Il titolo è emblematico: “Il nostro amico Qatar finanzia gli islamici del Mali”. Secondo il settimanale transalpino, la direzione dei servizi segreti militari (DRM), che dipende dal Capo di stato maggiore dell’esercito francese, avrebbe raccolto informazioni in base alle quali “gli insorti del MNLA, il movimento di Ansar al Dine, Al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) e il MUJAO (il Jihad dell’Africa occidentale, nda) hanno ricevuto un aiuto economico in dollari dal Qatar”. Il giornale francese non specifica l’ammontare del sostegno finanziario o le modalità della sua assegnazione, ma sottolinea che il governo d’oltralpe, sia quello precedente di Sarkozy che quello in carica di Hollande, è al corrente delle azioni del piccolo Stato del Golfo nel nord del Mali.

Il ministro della Difesa francese Jean-Yves le Drian “conosce tutte le cattive notizie arrivate dall’Africa subsahariana” scrive “Le Canard Enchaîné”, aggiungendo che “all’inizio di quest’anno, più note della DGSE hanno allertato l’Eliseo sulle attività internazionali dell’Emirato del Qatar” e dello sceicco Hamad ben Khalifa al-Thani, “che Sarkozy ha sempre trattato come un amico e alleato”. La monarchia sunnita, come la Francia, ha delle mire sulle abbondanti risorse minerarie del sottosuolo del Mali – ricco di uranio e petrolio – e del Sahel, in generale. Secondo il settimanale francese, “negoziati discreti sono già iniziati con la Total”, il gigante francese dell’oro nero “per esplorare in futuro il petrolio di cui abbonda questa regione africana”. Come affermano i servizi segreti francesi “la generosità del Qatar non è seconda a nessuno e non si è accontentato di aiutare finanziariamente, a volte fornendo armi, i rivoluzionari di Tunisia, d’Egitto o della Libia”. Pertanto, scrive “Le Canard Enchaîné”, Algeri “non digerisce gli aiuti finanziari, il sostegno militare e diplomatico fornito dal Qatar ai tre Paesi del Nord Africa, così come l’influenza in seno alla Lega araba”. Il coinvolgimento dell’Emirato potrebbe inclinare i rapporti tra Doha e Algeri.

 

 

Situazione attuale in Mali

Veniamo alla situazione attuale. Saltata l’alleanza tra i ribelli del MNLA e il gruppo islamista di Ansar Dine, passati in poco tempo da amici a nemici (in quanto i primi si sono rifiutati di creare uno Stato islamico), il nord è completamente nelle mani dei mujahidin che hanno imposto una loro presunta shari’a e stanno distruggendo i mausolei di Timbuctù. C’è da dire che i ribelli tuareg hanno commesso anche loro terribili crimini contro l’umanità: stupri, esecuzioni sommarie, detenzioni arbitrarie, arruolamento di bambini soldato, saccheggi. E, tra i profughi che sono arrivati a Bamako, c’è chi dice che con la loro cacciata, ci sia più sicurezza e ordine nelle città del nord, nonostante non si possa più giocare a pallone, bere alcoolici o avere figli al di fuori dal matrimonio.

Ogni giorno ci sono lapidazioni e pene corporali contro chi non rispetta le regole. Condizioni che hanno spinto migliaia di civili a scappare dalle regioni settentrionali per trovare rifugio nella capitale e in Paesi limitrofi, quali Mauritania, Burkina Faso, Niger e Algeria. La situazione è resa ancora più drammatica dalla carestia che ha colpito l’intera regione del Sahel. Mancano acqua, medicine, beni alimentari. Oltre 800 bambini sono malnutriti. Le foto che circolano su internet sono eloquenti del dramma umanitario che questi infanti stanno vivendo. Le stime della Croce Rossa Internazionale e di Medici Senza Frontiere sono allarmanti: ci sono 67.118 sfollati interni, 203.887 rifugiati nei Paesi vicini e 18.000 persone sono a rischio di fame nel Sahel.

Tornando alla situazione politica, oggi Bamako vive un pericoloso impasse politico. Il primo ministro Diarra, che negli ultimi mesi si è trovato da solo a dover costruire un governo di unità nazionale, è stato silurato dal presidente ad interim, che è tornato venerdì 28 luglio scorso da Parigi dopo due mesi di assenza, a causa dell’attacco subito il 21 maggio nel suo ufficio da parte di un gruppo di persone che contestavano l’accordo raggiunto con la Cedeao-Ecowas per prorogare di un altro anno il mandato presidenziale.  Traoré ha infatti annunciato la creazione dell’Alto Consiglio di Stato, un organismo composto “dal presidente della Repubblica e da due vicari incaricati di assisterlo nel portare a compimento le missioni della transizione”. Uno dei due vicepresidenti “rappresenterà le Forze di Difesa e Sicurezza e si occuperà di tutte le questioni che riguardano il nord del Mali, mentre l’altro rappresenterà le altre componenti della società civile e le forze vive della Nazione”. Tra le proposte di Traoré vi è la creazione di un Consiglio Nazionale di Transizione che avrà “compiti consultivi” e che riunirà “i rappresentanti dei partiti politici presenti o meno in Parlamento, ma anche rappresentanti della società civile”. E infine ha annunciato la creazione di una commissione nazionale incaricata di “avviare colloqui di pace con i movimenti armati del nord del Mali in collaborazione con il mediatore della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (Cedeao-Ecowas) allo scopo di ricercare delle soluzioni politiche negoziate alla crisi” .

Le nuove istituzioni create da Traoré mettono da parte il primo ministro Diarra, fortemente contestato nelle ultime settimane dal Fronte per la Salvaguardia della Democrazia e della Repubblica, un gruppo formato da partiti politici e organizzazioni della società civile, che ne avevano chiesto le dimissioni. A questo punto, non è chiaro se il presidente Traoré chiederà il sostegno della Cedeao-Ecowas, che si è già detta pronta per inviare tremila militari a liberare il nord. È da mesi che l’organizzazione regionale, guidata dal presidente Ouattara, preme per legittimare l’intervento militare in Mali. Proposta che è stata presentata anche dall’Unione Africana, appoggiata dalla Francia presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che, dopo aver bocciato per due volte la bozza in quanto “imprecisa” – secondo il parere dei rappresentanti degli Stati Uniti – in alcuni punti, sta ancora valutando se acconsentire all’invio di una forza africana sotto l’egida dell’ONU.

L’ingerenza straniera è fortemente contestata dal popolo maliano, profondamente nazionalista, che più volte è sceso a manifestare per chiedere al governo di Bamako di mandare soldati maliani al fronte per liberare le regioni settentrionali. Sull’intervento straniero si è espresso anche il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, a fine luglio in Senegal, in Burkina Faso, in Niger e in Ciad:  “Se il dialogo fallisse con i gruppi islamici”, ha fatto sapere Fabius da Dakar, “se questi terroristi non volessero praticare altro che il terrorismo, servirà affrontare in sicurezza questo aspetto”. Ma servirebbero “forze africane capaci e organizzate”. “Non è una questione delle truppe francesi che si sostituiscano a quelle africane” ha proseguito Fabius, sottolineando che la Francia vuole “giocare un ruolo politico, internazionale, di mediatore anche se tutto questo richiederebbe ovviamente una approvazione dell’Onu”. Nel frattempo a Parigi il presidente François Hollande ha ricevuto il suo omologo ivoriano Alassane Dramane Ouattara, attuale presidente della Cedeao-Ecowas, con cui si è parlato della situazione in Mali, mettendo in evidenza la necessità di “debellare” il pericolo islamista nel Sahel.

Le dinamiche che ruotano attorno al Paese africano sono complesse. Capire chi c’è veramente dietro alla destabilizzazione del Mali è davvero difficile. Gli interessi sono molteplici, da quelli economici a quelli strategici. Così come i Paesi coinvolti: Francia, Qatar, Stati Uniti e anche Gran Bretagna, che starebbe finanziando – a detta del segretario di Stato britannico William Hague – la costruzione di una base militare al confine con l’Algeria per riprendere la lotta contro Al-Qaeda nel Maghreb, nella regione del Sahel. Ogni giorno ci sono nuove dinamiche che rendono ancora più confusa la situazione, rimandando di giorno in giorno l’intervento armato, che sembrerebbe inevitabile. L’integrità del Mali è in pericolo. La sua sovranità pure.

 


Note:

[1] C. Whitlock, “The Washington Post”, 13 giugno 2012, http://www.washingtonpost.com/world/national-security/us-expands-secret-intelligence-operations-in-africa/2012/06/13/gJQAHyvAbV_story.html.

[2] C. Angeli, Notre ami du Qatar finance les islamistes du Mali, “Le Canard Enchaîné”, 6 luglio 2012.

 


*Francesca Dessì è redattrice di “Rinascita”. Si occupa dei temi geopolitici e geostrategici  dell’Africa subsahariana.

 


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