Come è noto, l’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti segnarono l’eclissi momentanea delle ricette keynesiane adottate in tutti i paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) fino alla fine degli anni ’80 in favore delle teorie liberiste propugnate dal celebre economista austriaco Friedrich Von Hayek e dal circolo di economisti e filosofi (Karl Popper, Maurice Allais, Ludwig Von Mises, ecc.) membri della Mont-Pélerin Society, fondata nel 1947. I “poteri forti” internazionali – di cui la finanza cosmopolita rappresenta la punta di diamante – consideravano il liberismo prescritto da Hayek come la ricetta perfetta capace di legittimare i loro piani di dominio. Le modalità attraverso cui sarebbero dovuti essere perseguiti i fondamentali obiettivi strategici vennero individuate ed accuratamente descritte in uno studio – intitolato The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission[1] – condotto dai celebri politologi Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki per conto della Commissione Trilaterale, fondata nel 1973 da David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski e George Franklin. All’interno dello studio, i tre analisti deploravano l’eccesso di “politicizzazione” della società di cui i governi delle democrazie occidentali erano caduti vittima, e prescrivevano una diagnosi fondata sulla convinzione che «Un certo grado di apatia della popolazione»[2] fosse necessario alla governabilità generale. Sostenevano quindi la necessità di adottare una serie di leggi attraverso cui disciplinare la stampa, conferire ad una specifica autorità i poteri necessari per schiacciare i “movimenti di opinione”, ridurre il benessere generale e rendere l’istruzione meno accessibile alle masse. Per raggiungere questi scopi, gli oligarchi della Commissione Trilaterale ambivano a depoliticizzare la società attraverso la “globalizzazione del mercato”, della cui realizzazione vennero incaricate quelle élite tecnocratiche legittimate dai principi che sorreggono l’ideologia liberista elaborata da Friedrich August Von Hayek, il quale intendeva liberare l’individuo dal presunto capestro maggioritario (“la tirannia della maggioranza democratica”) in forza dell’assunto di base fondato sulla convinzione relativa all’inesorabile disuguaglianza qualitativa tra i singoli individui. Hayek propugnava una visione filosofica radicale che rispondeva al tentativo di rifondare teoricamente il liberalismo classico slegandolo dal perno concettuale rappresentato dal contratto sociale, in favore di un modello privatistico costruito attorno all’“homo oeconomicus” e fondato su di una concezione di “mercato” globale e totalizzante, capace di far emergere al meglio e valorizzare massimamente le capacità individuali a spese dell’equilibrio comunitario o della stessa giustizia sociale (che Hayek considerava un “antropomorfismo primitivo”[3]). Considerando il mercato come la risultanza spontanea dell’aggregazione degli individui, Hayek riteneva che qualsiasi emanazione di tale entità andasse accolta acriticamente. L’insindacabilità dei decreti che provengono dal mercato impone di eliminare qualsiasi forma di redistribuzione sociale del reddito, in virtù del fatto che Hayek riteneva che la comunità si arricchisse, darwinisticamente, scremando i meno capaci in favore dei più capaci. Ogni tentativo riequilibratore viene pertanto considerato una catastrofica limitazione dell’ordine spontaneo che, impoverendo la comunità attraverso la tutela dei meno capaci, si trasforma in un’indebita intromissione esterna nel perfetto funzionamento del meccanismo mercantile, costruito inconsapevolmente da milioni di uomini nel corso della storia (la cosiddetta “mano invisibile”). La “società libera” teorizzata da Hayek rifiuta quindi la sovranità popolare ed è completamente incurante delle condizioni di vita in cui versano i più deboli. In essa non c’è spazio per i sindacati né per le fondamentali garanzie sociali. I più duri critici del pensiero di Hayek segnalano la deriva nichilistica del suo modello prediletto. «Questa sedicente idilliaca cittadinanza privatizzata – scrive Albert Hirschman – che presta attenzione solo ai suoi interessi economici e serve indirettamente l’interesse pubblico senza mai prendervi direttamente parte, può essere realizzata solo in condizioni politiche da incubo»[4].
Il pensiero estremista di Hayek venne combinato con le teorie classiche da Adam Smith e David Ricardo, i due grandi liberisti britannici fautori di un’economia integrata transnazionale (“globalizzata”) funzionale agli interessi dell’impero, come rilevò il celebre economista John Maynard Keynes, il quale scrisse che «La protezione da parte di un paese dei suoi interessi all’estero, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell’imperialismo economico, non sono che elementi ineliminabili della politica di coloro che vogliono massimizzare la specializzazione internazionale e la diffusione geografica del capitale»[5].
Ciò che emerse da tale inedito miscuglio di liberismi venne poi imposto al mondo attraverso la tirannia planetaria della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, gli autentici custodi del “pensiero unico”. Maurice Allais, membro della Mont-Pélerin Society ed autorevolissimo esponente liberista, fu il più acerrimo critico della globalizzazione, poiché considerava il “mercato unico” un sistema fraudolento che mira ad avvantaggiare il più forte stimolando la competizione tra sistemi produttivi estremamente disuguali quanto a livello di sviluppo. Egli riteneva, al contrario, che la concorrenza dovrebbe essere esercitata solo all’interno di specifici mercati macroregionali composti da nazioni che vantano analoghe regolazioni sociali, salari e prezzi.
Il liberismo “imperiale” e “globalizzante” costruito sulle teorie di Adam Smith è tuttavia una dottrina prettamente anglosassone, di cui sia Stati Uniti che Gran Bretagna sono strutturalmente preparati ad accettare i costi in termini di polarizzazione sociale, politiche deflazioniste e smantellamento dello Stato sociale, specie in seguito ai trionfalismi filo-reaganiani suscitati dalla caduta del Muro di Berlino e dal susseguente collasso dell’Unione Sovietica. La dissoluzione dell’Unione Sovietica, che si verificò nel 1991, produsse la nascita di 15 repubbliche indipendenti animate, 14 delle quali erano caratterizzate da sentimenti fortemente ostili nei confronti della Russia e governate da nomenklature burocratiche che saltarono immediatamente sul carro vincente del liberismo.
Dietro il pungolo statunitense, molti paesi adottarono misure economiche improntate alla cosiddetta shock therapy, la “terapia d’urto” elaborata dal celebre economista neoliberale Jeffrey Sachs allo scopo di favorire la transizione immediata dall’economia statalista al liberismo. Essa produsse ovunque disastri di enorme portata. La Russia ereditò dal crollo dell’Unione Sovietica un’economia dilaniata dalla recessione e gravata da tassi inflazionistici e occupazionali del tutto inadeguati ad una nazione intenzionata a riaffermarsi al rango di grande potenza. Queste gravissime condizioni in cui versava il paese spinsero i grandi istituti finanziari esteri a pretendere l’immediato rientro dei capitali precedentemente concessi a Mikhail Gorbaciov per sostenere i colossali piani di ristrutturazione economica (perestroijka). Ciò privò il governo del sostegno popolare e aprì una voragine politica che venne colmata, dopo svariate vicissitudini, da Boris El’cin, che ereditò da Gorbaciov la carica di presidente. Yegor Gaidar, ministro economico di El’cin, assunse Sachs come consulente e radicalizzò i progetti di Gorbaciov introducendo inasprimenti alle misure neoliberali adottate dal proprio predecessore, con l’obiettivo di spalancare le frontiere russe al mercato mondiale e di incamerare denaro contante attraverso un massiccio progetto di privatizzazione dell’ingente patrimonio pubblico ereditato dall’Unione Sovietica.
Tuttavia, i “piani di privatizzazione” declamati dal mantra liberista fatto proprio da El’cin si rivelarono ben presto mera opera di preparazione all’imminente svendita dell’enorme apparato industriale russo a beneficio di un manipolo di facoltosi uomini d’affari russi – i cosiddetti “oligarchi” – connessi alla grande finanza occidentale, a scapito dell’intero popolo russo.
Per questa ragione è opportuno rispolverare i principi di economia politica che servirono a forgiare gli Stati nazionali nel corso del XIX secolo attraverso le guide dirigistiche di uomini politici ben consci degli interessi nazionali, in particolare in una fase, come quella attuale, in cui la globalizzazione capitalistica ruotante attorno al nucleo egemone statunitense presenta linee di faglia che tendono a correre in corrispondenza dei confini nazionali. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton si rese conto che gli Stati Uniti sarebbero potuti divenire una grande nazione solo sottraendosi al vincolo di subalternità che li legava alla Gran Bretagna. Le direttive impartite dal liberismo imperiale di Adam Smith e David Ricardo imponevano a Washington di ottimizzare la produzione delle merci in cui gli Stati Uniti avevano il “vantaggio competitivo” (tabacco e cotone) e di importare dall’Inghilterra le merci in cui essa era competitiva (macchinari e beni industriali di vario genere). Qualora George Washington si fosse piegato, limitandosi ad eseguire fedelmente le direttive di Smith e Ricardo, gli Stati Uniti sarebbero divenuti un grande paese agricolo ma il vincolo coloniale con la Gran Bretagna sarebbe rimasto perfettamente intatto. Dietro il pungolo di Hamilton, Washington adottò pertanto misure atte da un lato a dirottare lo spirito imprenditoriale statunitense verso la produzione industriale e dall’altro a stimolare il mercato interno. Nel 1791 Hamilton fondò la Banca Nazionale – il prototipo delle moderne Banche Centrali – conferendo a tale istituzione il potere di stampare cartamoneta corrispondente al capitale nazionale costituito non solo di metalli preziosi depositati nei forzieri statali, ma anche dai titoli di debito del governo statunitense. In questo modo la Banca Nazionale fu in grado di erogare crediti di Stato a seconda delle esigenze nazionali determinate dalla quantità di manodopera e di materie prime disponibili.
«La ricchezza intrinseca della nazione – sostenne Alexander Hamilton – non va misurata sull’abbondanza dei metalli preziosi che detiene, bensì sulla produzione della sua manodopera e della sua industria (…). Sarà lo stato dell’agricoltura e della manifattura e la quantità e la qualità della sua manodopera a determinare la crescita e la diminuzione del circolante»[6]. La Banca Nazionale, in altre parole, è titolare del potere di regolare l’economia del paese garantendo la circolazione monetaria sufficiente a soddisfare i bisogni della società, in base al principio secondo cui la quantità di massa monetaria circolante debba essere determinata dalla domanda di credito da parte del sistema produttivo. Subordinando in maniera diretta l’emissione monetaria alle esigenze dello Stato, la Banca Nazionale riuscì inoltre ad evitare di immettere una sovrabbondanza di moneta circolante, tagliando fuori la speculazione dal circuito economico. Tale istituto, inoltre, venne insignito di una fondamentale funzione equilibratrice capace di fronteggiare le minacce asimmetriche: essendo i nascenti Stati Uniti composti da nazioni strutturalmente ed intrinsecamente diverse (disponibilità di risorse, demografia, collocazione geografica, ecc.), la Banca Nazionale è chiamata a bilanciare i differenziali di crescita tra paesi incommensurabilmente differenti come la Louisiana e l’Illinois. Dazi doganali vennero applicati allo scopo di proteggere la nascente industria americana, che nell’arco di pochi decenni cominciò a sfornare manufatti estremamente competitivi. L’esempio di Hamilton venne emulato dall’acuto economista Friedrich List, il quale ebbe modo di studiare e trarre le debite conclusioni dall’esperienza americana. Dopo essere emigrato negli USA attorno al 1830, tornò in Europa in qualità di console statunitense e, fedelmente alle idee di Alexander Hamilton, mise in atto una politica economica fortemente protezionista ed ispirò lo zollverein, l’unione doganale tedesca del 1834 che costituisce la base del poderoso sviluppo industriale tedesco.
Nel 1989, la Germania si riunificò sotto la guida di Helmut Kohl e, soprattutto, dell’abilissimo presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania Est diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo»[7]. In conformità a questo scopo, Herrhausen intendeva abolire il debito “intra-imprese”, un dato contabile che gravava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunge i 200 miliardi di marchi) considerato come un asso nella manica da Banca Mondiale e FMI, che si opponevano irriducibilmente al risanamento del comparto industriale ereditato dalla Germania in seguito alla riunificazione. Herrhausen si distingueva per la visione aperta e innovativa dei rapporti internazionali proponendo di ridisegnare il ruolo della Germania, che secondo la sua concezione sarebbe dovuta fungere da ponte fra est ed ovest nonché da motore della riconversione industriale e del nuovo sviluppo di un’Europa sottratta al controllo della Banca Mondiale e del FMI. Mentre si prodigava per mettere in pratica i propri piani, Herrhausen denunciò di essersi imbattuto «In massicce critiche»[8], in particolar modo quando si espose affinché il FMI e la Banca Mondiale risparmiassero i paesi post-comunisti dell’est alla “terapia d’urto” di Jeffrey Sachs, caldeggiando una moratoria sul debito di qualche anno, cosicché potessero dedicare le proprie risorse alla ricostruzione piuttosto che al sostegno dei ratei ai banchieri. Nonostante ciò, Herrhausen riuscì ad acquisire un notevole appoggio in Europa, che nell’arco di pochi si sarebbe potuto rivelare sufficiente a far decollare i suoi progetti, il più importante dei quali riguardava la fondazione a Varsavia di una banca per lo sviluppo finalizzata a finanziare la ricostruzione e l’integrazione dell’Europa orientale con quella occidentale. L’1 dicembre 1989, con impeccabile puntualità, un ordigno esplosivo – dotato di un sofisticatissimo innesco laser – fece saltare l’automobile blindata su cui Alfred Herrausen stava viaggiando. La responsabilità dell’attentato venne attribuita al gruppo terroristico comunista Rote Armee Fraktion (RAF), in seguito ad una superficialissima indagine.
Un acuto economista meglio noto come Detlev Karsten Rohwedder cercò tuttavia di inserirsi nel solco tracciato da Herrhausen. Rohwedder era a capo della Treuhandanstalt, holding pubblica che raggruppava tutte le industrie statali dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (DDR), dopo aver approntato e gestito di persona il piano di risanamento e riorganizzazione del colosso chimico e farmaceutico Hoechst AG. Dal momento che «Un liberismo di mercato di tipo dottrinario non funziona – affermò Rohwedder – occorre privilegiare una politica di risanamento rispetto alle privatizzazioni»[9]. L’esatto contrario di quanto richiesto dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Rohwedder intendeva incentivare gli investimenti pubblici per rimettere in sesto ed ammodernare il vecchio comparto industriale ereditato dalla DDR, affinché «la popolazione della Germania Est superi al più presto la sua condizione d’inferiorità materiale»[10]. Questo (relativamente) sconosciuto economista ambiva a trasferire il controllo della Treuhandanstalt dal Ministero delle Finanze, cui faceva capo, a quello dell’Economia, in modo tale che la holding divenisse l’organo centrale di un rinnovato dirigismo tedesco. Il 12 aprile 1991, uno o più esperti sicari colpirono Rohwedder sparando tre colpi con carabina a infrarossi, che infransero una finestra della sua casa di Dusseldorf, uccidendolo. La solita RAF rivendicò la paternità dell’attentato, dimostrando per l’ennesima volta la reale funzione del terrorismo “estremista”.
Il tracollo economico che affligge le potenze occidentali è quindi il frutto della diffusione acritica e del trionfo delle ricette ricalcate sui principi di economia neoclassica – che impongono di favorire la “libera circolazione di uomini e capitali” – legittimate concettualmente dalle teorie radicali di Friedrich August Von Hayek. «Che oggi si possa ritenere – osserva Alain De Benoist – di rinnovare il pensiero razionale appoggiandosi a questo genere di teorie, è un fatto che la dice lunga sulla disgregazione di tale pensiero»[11].
[1] Trilateral Commission, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, http://www.trilateral.org/download/doc/crisis_of_democracy.pdf.
[2] Ibidem.
[3] Friedrich August Von Hayek, La società libera, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007.
[4] Albert Hirschman, Vers une économie politique élargie, Munuit, Parigi 1986.
[5] John Maynard Keynes, National Self-Sufficiency, “The Yale Review”, 1933.
[6] Cit. in Maurizio Blondet, Schiavi delle banche, Effedieffe, Milano 2004.
[7] “Il Tempo”, 30 novembre 2009.
[8] Ibidem.
[9] “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 30 marzo 1991.
[10] Ibidem.
[11] Alain De Benoist, Hayek, Settimo Sigillo, Roma 2000.
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