Descrizione
GEOFILOSOFIA
In uno scambio epistolare con Engels, Marx affermò nel 1853 che l’intera storia dell’Oriente appariva come una storia delle religioni. Il fondamento storico e geografico di tale intuizione si può rinvenire già nelle lezioni hegeliane sulla filosofia della storia e sulla filosofia della religione, dove viene metodologicamente posta la comprensione della successione delle forme religiose da est ad ovest secondo una sorta di idealismo geografico. L’interpretazione di tale successione poggia sull’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra libertà, sviluppo della coscienza dell’uomo e grado di dipendenza dalla natura. Seguendo Hegel nella sua filosofia idealistica della storia orientata teleologicamente secondo una progressiva distanza dagli altipiani continentali, proprio ai limiti del continente asiatico, presso la costa mediterranea dell’Asia occidentale, trova localizzazione la religione monoteista ebraica. Nella prospettiva del filosofo con questa nuova religione si consumerebbe la rottura («der Bruch») del rapporto tra Oriente e Occidente, di cui qui si tenta di offrire un’ipotesi di interpretazione geofilosofica.
DOSSARIO: LA SECONDA GUERRA FREDDA
La tesi secondo cui la Russia costituisce una civiltà a parte, uno “Stato-mondo”, rappresenta una premessa su cui potremmo fondare le nostre previsioni sullo sviluppo delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. In questo caso, la percezione dell’Occidente (nonché della modernità, in tutte le sue forme), in tutti i sensi della parola, da quello storico fino a quello dei valori e dei significati ideologici, corrisponde ad un male; è una concezione negativa, un’antitesi hegeliana, qualcosa che deve essere respinto, sconfitto, superato, esaurito e, in una prospettiva a lungo termine, annientato. Questo punto di vista era condiviso dagli Zar russi del periodo moscovita (i quali vedevano nell’Europa “un impero di eretici”, “di papisti e luterani”), dagli slavofili (specialmente dai più recenti), dai populisti russi, dagli eurasiatisti e dai comunisti (in conformità con la loro specifica ideologia di classe). Partendo da questa prospettiva, le relazioni tra la Russia e l’Occidente devono essere costruite secondo un criterio diverso. Questa posizione può essere definita come radicalmente antioccidentale. La civiltà russa deve ingaggiare un combattimento finale e decisivo. Un postulato del genere porta alla negazione totale di quella via di sviluppo su cui si è incamminato l’Occidente e coloro che, volenti o nolenti, si sono trovato nella sua area d’influenza.
Le recenti violenze armate in Ucraina fra elementi russofili del Sud Est, che mirano all’autonomia regionale e ad un’eventuale riunificazione con la Russia, e il governo centrale di Kiev, uscito dalla cosiddetta “Rivoluzione dell’Euromajdan” e nel quale è ben rappresentata la componente ideologica nazionalista ucraina antirussa, riportano alla luce problemi irrisolti della costruzione dell’identità nazionale e della statualità ucraina. Per comprendere meglio certe dinamiche della problematica storia di questo paese slavo orientale è utile ripercorrere le vicende, poco conosciute, della prima Repubblica Ucraina indipendente, un’entità statale esistita dal 1917 al 1921, durante i tormentati anni della guerra civile russa fra “rossi” e “bianchi”, e caratterizzata da una cronica instabilità politica interna dovuta anche allo scarso radicamento del sentimento nazionale ucraino.
La crisi in Crimea ha riacceso i riflettori sulle minoranze russe dello spazio ex-sovietico. I timori legati alla nascita di fenomeni irredentisti nell’area, in realtà, non sono mai stati del tutto assenti, ma la recente secessione della Crimea, attivamente sostenuta dalle truppe russe, li ha rinfocolati in virtù di di un possibile “effetto domino” che potrebbe riguardare non solo l’Ucraina orientale e meridionale, come noto, ma anche Moldavia, Repubbliche Baltiche e Kazakistan. Tali rischi, tuttavia, sono molto limitati: in Moldavia la Transnistria è di fatto già indipendente, mentre Lettonia, Estonia e Kazakistan, seppure per motivi diversi, sono sostanzialmente al riparo da una possibile diffusione dell’irredentismo russo.
I Tatari di Crimea sono stati l’unico gruppo etnico rilevante ad aver boicottato il referendum del 16 marzo sull’adesione della Crimea alla Russia. Ciò non dovrebbe stupire: dal rogo di Mosca del 1571 alle deportazioni di epoca staliniana, dopotutto, i conflitti tra la Russia e i Tatari di Crimea sono stati numerosi. Oggi, con la Crimea nuovamente russa, la questione tatara ha suscitato non poco interesse, ma a preoccuparsene realmente sono soprattutto la Turchia e la Repubblica russa del Tatarstan. Entrambi sono mossi dalla speranza di ricostruire dei legami storici, culturali e religiosi con un popolo fratello, ma le loro prospettive sono ben diverse: la Turchia è un membro della NATO, pur avendo forti relazioni economiche con la Russia, mentre il Tatarstan fa parte della Federazione Russa.
La nuova Guerra Fredda s’incentra sul confronto militar-strategico imposto dalla creazione e dall’estensione del cosiddetto Scudo Antimissile, che gli USA cercano di costruire in Europa Orientale, Vicino Oriente ed Asia orientale. Sebbene travagliate da scandali interni e riduzione degli stanziamenti, le forze strategiche statunitensi portano avanti il programma di aggiornamento del proprio arsenale nucleare. Mosca, tuttavia, ha i suoi assi da giocare nella nuova corsa agli armamenti strategici del XXI secolo.
Enrico Galoppini, Un esempio di “soft power” occidentale: la propaganda omosessuale contro la Russia
Per alimentare una nuova “Guerra Fredda” con la Russia, l’America ed i suoi alleati occidentali fanno ampio ricorso alla “ideologia di genere”, nella quale si situano le rivendicazioni a favore dei “diritti degli omosessuali”: la Russia e la sua dirigenza sono così presentate come “omofobe”. L’autore indaga inoltre le radici ‘filosofiche’ di questo tipo di ideologia, evidenziando come ciò non si limiti alla mera propaganda, ma punti alla trasformazione delle basi stesse della vita degli esseri umani e delle loro comunità.
I teorici della nuova Guerre Fredda contro la Russia prevedono che – come negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale – un ruolo strategico importante sia affidato alla Turchia: ciò avrebbe come conseguenza l’insanabile frattura della continuità euroasiatica e la contrapposizione fra mondo slavo e mondo turco, due realtà che convivono da secoli pur nell’alternanza di fasi di squilibrio e di mutua collaborazione. Il fondamentale partenariato energetico e le molteplici relazioni fra i due Paesi, in decisa crescita negli ultimi dieci/quindici anni, potranno invece evolvere in un rapporto di autentica solidarietà destinato a rinsaldarsi in una prospettiva di sovranità e di pax eurasiatica: la situazione in corso in Ucraina e in Crimea non deve – in tal senso – diventare occasione di divisione e contrapposizione.
Il problema della fuga dei capitali ha sempre costituito un tallone d’Achille per l’economia in ripresa della Federazione Russa. Il Paese ha cercato negli ultimi anni di migliorare significativamente il clima degli investimenti, incoraggiando e sostenendo le imprese e supportando la politica degli Investimenti Diretti Esteri. In seguito agli avvenimenti in Crimea e in Ucraina ed alle sanzioni economiche che ne sono scaturite, i capitali continuano a fuggire dalla Russia, e la situazione non sembra accennare ad un miglioramento, costituendo una minaccia anche per l’Occidente.
La Russia è di nuovo un problema, dopo essere stata per un decennio una delle opportunità più corteggiate dall’Occidente. La crisi ucraina ha riacceso abiti mentali che ormai parevano consegnati alla storia: il fantasma della guerra fredda è tornato ad affacciarsi nell’arena delle relazioni internazionali. Ma stavolta non è la paura della bomba a “raffreddare” la guerra, bensì la natura stessa del confliggere contemporaneo, freddo perché figlio del calcolo e delle statistiche economiche. La Russia è diventata troppo grande e interconnessa a livello globale per poter fallire. Questa nuova deterrenza condurrà necessariamente a una distensione, che per la Russia può voler dire definitiva omologazione con quell’Occidente tanto vituperato. Era già successo, alla fine del XIX secolo, all’epoca della prima grande globalizzazione. E poi di nuovo, negli anni Venti della Nep. E tutte e due le volte è finita male.
Fin dall’epoca della guerra del Peloponneso, le sanzioni rientrano nella categoria di quelle armi economiche alle quali viene assegnato l’obiettivo di indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi le applica. Nella fattispecie delle sanzioni “chirurgiche” contro la Russia, decretate dagli Stati Uniti e adottate sia pur con una certa renitenza dall’Unione Europea, la strategia è dichiaratamente geopolitica. La talassocrazia statunitense persegue infatti lo scopo di estendere, attraverso un’Ucraina risucchiata nell’orbita occidentale, il raggio dell’influenza atlantica, rinsaldando così quella che Zbigniew Brzezinski ha definita “la testa di ponte democratica dell’America” nel continente eurasiatico.
La questione ucraina è un campanello che mette in allerta la comunità internazionale, ma ancora piu’ forte fa tremare lo spazio post-sovietico. Un Paese come la Bielorussia, il cui duraturo regime autoritario gode di un forte consenso e i cui indicatori economici sono tra i piu’ positivi dei paesi del Partenariato orientale, cerca in questo contesto di fare la sua parte. Sbilanciarsi troppo a est o troppo a ovest potrebbe costare caro. Negoziare un appoggio la Russia in cambio dell’eliminazione dei dazi sui prodotti derivati dal petrolio russo potrebbe invece rivelarsi una strategia vincente.
La regione mediorientale ed in particolare l’Iran si sono trovati sempre al centro degli appetiti delle grandi potenze, sia per la collocazione geografica, sia per le ingenti risorse del sottosuolo. Ciò è un punto cardine nelle relazioni internazionali, soprattutto per quello che riguarda i rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia, interessati, sia oggi che in passato, ad esercitare la loro egemonia sul Medio Oriente e sul paese persiano.
CONTINENTI
Nel linguaggio giornalistico, come in quello comune, è oramai largamente invalso l’uso della parola “Europa” come sinonimo di Unione Europea. Quest’uso risponde ad esigenze di brevità e semplicità, tuttavia è foriero anche di un fraintendimento, uno scivolamento di senso a causa del quale i numerosi movimenti euroscettici sorti in diversi Paesi del continente vengono spesso definiti o si definiscono essi stessi come antieuropeisti, se non addirittura antieuropei. Memori del monito di Nietzsche “il modo più perfido di nuocere ad una causa è difenderla intenzionalmente con cattive ragioni”, possiamo pensare che talora dietro questo utilizzo della parola ci sia un’intenzione deliberata. Eppure, che l’Unione Europea sia cosa diversa dall’Europa dovrebbe essere piuttosto facile da capire; c’è bisogno invece di un’analisi più sottile per comprendere come essa le sia addirittura nemica, una perfetta antitesi dell’idea stessa di Europa.
Con l’entrata in vigore della Legge Fondamentale di Ungheria, il 1 Gennaio 2012, e in seguito alle discussioni politiche e pubblicistiche che essa ha sollevato, sarà forse utile ripercorrere la storia delle costituzioni ungheresi. Seguendo il loro sviluppo storico, a partire dalle consuetudini medievali, fino alle prime costituzioni scritte e alla promulgazione della nuova Legge Fondamentale, probabilmente si può arrivare ad una interpretazione più equilibrata della nuova costituzione. Pesano ancora oggi su di essa i giudizi negativi dell’Unione Europea, prima di tutto sulla mancanza di democrazia, e sembra che questi giudizi si ripetano ancora. Naturalmente la storia è solo uno degli elementi dell’interpretazione, accanto alle teorie giuridiche o al metodo comparativo con il quale risaltano le somiglianze e le differenze con le altre costituzioni europee. L’articolo intende presentare i diversi periodi delle costituzioni ungheresi, perché così sarà possibile capire lo spirito e il senso storico della costituzione e della dottrina della Sacra Corona che riappaiono nel Preambolo della Legge Fondamentale.
Venezia Giulia, 1945-1954. Il fantomatico Territorio Libero di Trieste è diviso tra Zona A, occupata dai britannici e dagli statunitensi, e la Zona B, dagli jugoslavi. Specificamente nella prima, l’impronta alleata s’imprime in tutto il suo senso politico ma soprattutto culturale: Trieste deve diventare democratica, occidentale, europea; con le buone o con le cattive. La Venezia Giulia, o meglio quella piccola quota del territorio giuliano rimasta nell’area occidentale, rifiuta di venire standardizzato dalla logica anglo-americana e di diventarne serva. Il saggio insiste sulle trame sia politiche che, a maggior ragione, culturali che incombono sulla Zona A in termini di contrapposizione tra un governo alleato che specula sulle difficoltà di riorganizzazione politica, economica e sociale, implementando ricette formalmente democratiche ma che de facto creano maggiori e più profonde disuguaglianze, e il cosiddetto fronte filoitaliano, stremato per la sempre più carente rappresentanza italiana sia nella Zona B, dove la situazione assume i tratti della persecuzione antitaliana, sia nella Zona A.
La crisi finanziaria globale di questi ultimi anni è stata l’elemento scatenante di una serie di crisi economiche, sociali e politiche. Gli Stati europei insistono nell’adottare politiche improntate al libero mercato e, contemporaneamente, a smantellare gli investimenti nello stato sociale. Aumentano le disuguaglianze e la povertà e, come se non bastasse, le banche hanno ridotto i prestiti alle famiglie e alle imprese. Le popolazioni locali, costrette a sopportare sacrifici odiosi e iniqui, si sentono sempre più estranee alla politica tradizionale. Fortunatamente, sta emergendo nei cittadini europei un’esigenza di passare dalla centralità dei mercati alla priorità dei propri diritti. Nuove forme di associazionismo si vanno affermando, tuttavia tali nuovi gruppi, pur con tutto il loro attivismo, oltre ad essere privi di un mandato democratico, appaiono assai eterogenei per ambito di interesse e ancora lontani dall’idea di democrazia partecipativa.
Le relazioni tra il Pakistan e gli Stati Uniti sono iniziate durante la guerra fredda, quando i due Paesi si sono alleati per sconfiggere i sovietici in Afghanistan. Dopo l’11 settembre del 2001 tuttavia i due Stati non possono più essere considerati alleati. Gli interessi nazionali pakistani e quelli statunitensi si scontrano continuamente, rendendo difficili le relazioni tra Washington e Islamabad che, nonostante le divergenze, sono oggi costretti a collaborare per cercare di gestire ciò che hanno involontariamente creato con le loro decisioni durante gli anni Ottanta.
INTERVISTE E RECENSIONI
Stefano Vernole, Intervista ad Andrej Golushko
Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe (Renato Pallavidini)