Fonte: “Infopal”, 10.07.10
Sono in molti, tra coloro che criticano Israele, a sostenere la tesi della “lobby israeliana” per spiegare la totale complicità degli Stati Uniti con l’annessione, la colonizzazione e il programma di pulizia etnica che Israele conduce in Cisgiordania.
All’oltraggio denunciato da alcuni ufficiali della Casa Bianca, l’Amministrazione USA ha risposto mettendo in chiaro che le proprie critiche verso Israele restano puramente simboliche.
Si vedrà qui che la tesi della “lobby” spiega solo in parte la politica estera degli USA in Medio Oriente.
A distanza di anni dalle critiche pubbliche di Noam Chomsky, Stephen Zunes, Walter Russell Mead e molti altri alla “Israel lobby” di Stephen Walt e John Mearsheimer, sono ancora numerose le tesi secondo cui la lobby israeliana eserciterebbe un’influenza sulla politica estera statunitense in Medio Oriente.
Se volessimo dare credito alla tesi della “lobby” e se volessimo ripercorrere i recenti confronti diplomatici tra USA e Israele, allora bisognerebbe individuare il punto debole di questa tesi e risalire adeguatamente alle ragioni alla base delle scelte degli Stati Uniti e all’ampia concentrazione di potere politico ed economico che guida la politica statunitense.
La politica estera statunitense in Medio Oriente è la medesima perseguita altrove nel mondo, in regioni libere dagli effetti della corruzione della “lobby”.
L’alto grado del sostegno che gli Stati Uniti riservano ad Israele non è altro che una risposta razionale all’importante strategia politica nell’area, a partire dall’interesse per le risorse energetiche.
Vedendo in Israele altro che una “base militare statunitense”, come fa Noam Chomsky, gli USA sono in grado di preservare il proprio dominio sulle risorse energetiche nelle restanti parti del mondo e di detenere un sempre maggiore potere globale.
Pertanto, coloro che puntano il dito contro la “lobby”, non fanno altro che mal interpretare gli interessi strategici USA in Medio Oriente e il ruolo centrale che Israele svolge a garanzia di quegli stessi interessi.
Geopolitica e relazioni USA-Israele
Colonna portante della tesi della “lobby israeliana” è l’idea secondo la quale qualunque sia la definizione del caso, la “lobby” modella la politica USA in Medio Oriente.
Qualora l’assunto fosse vero, i suoi sostenitori dovrebbero dimostrare che esiste qualcosa di qualitativamente singolare e distinto nella politica che gli USA perseguono in Medio Oriente rispetto a quella in altre regioni del mondo.
Se si facessero analisi più approfondite, riscontreremmo poca differenza tra le deviazioni prodotte dall’opera della “lobby” e quanto viene frequentemente definito “interesse nazionale”, guidato dalle stesse forze di potere nazionale che decidono la politica estera USA nel mondo.
Nel mondo esistono altri Stati che, come Israele, esercitano pressioni su Washington e che proiettano la potenza statunitense nella propria regione, avallando crimini ed obiettivi USA protetti dalle critiche internazionali.
Prendiamo ad esempio i trent’anni di sostegno statunitense agli orrori dell’invasione indonesiana di Timor Est.
Oltre alla creazione di una realtà affamata e violenta e alla guida di un raccapricciante regime di torture, il presidente indonesiano Suharto si rese responsabile dell’assassinio di 150.000 persone su una popolazione di 650.000 cittadini.
Queste atrocità furono allora supportate a pieno dagli USA, che si fecero carico di distribuire napalm ed armi chimiche usate indiscriminatamente dall’esercito indonesiano, armato ed addestrato sempre dagli USA.
Come ebbe a dire Bill Clinton: “Suharto era ‘un tipo come noi'”.
Sull’invasione indonesiana, Daniel Patrick Moynahan, all’epoca ambasciatore USA presso le Nazioni Unite, scrisse: “il Dipartimento di Stato desiderava che l’ONU non fosse nelle condizioni di adottare misure” per porre fine alla carneficina di Timor Est, obiettivo che Moyanahan perseguì “non senza successi”.
Quel sostegno non era dovuto all’influenza esercitata dalla “lobby indonesiana”, quanto, piuttosto, era conseguente alla strategia USA: nel 1958, i promotori statunitensi avevano infatti identificato l’Indonesia come una delle tre regioni strategicamente più importanti; anzitutto per la sua abbondanza di petrolio ed il suo ruolo di collegamento tra Oceano Indiano e Pacifico.
In altre regioni come in America Latina, dove Stati clienti degli USA (Guatemala, Honduras, El Salvador, e gli eserciti terroristi come i Contras del Nicaragua che per anni hanno assassinato contadini indifesi che chiedevano il rispetto dei diritti umani), la minaccia è piuttosto rappresentata da rivendicazioni locali, pertanto si parla di una “sfida per la propria affermazione” – sfida agli ordini statunitensi ai quali si cerca di sottrarsi.
Se gli USA tollerassero simili realtà, la loro logica non avrebbe ragion d’essere, anzi, incoraggerebbe ovunque coloro che si oppongono ai suoi diktat.
Sfide di questa natura, definite da Oxfam “minacce che fanno da buon esempio”, portano con sé il rischio – per gli USA – che questi aspiranti Paesi realizzino soluzioni di indipendenza, rifiutando i diktat USA e rivendicando la gestione diretta delle risorse necessarie ai bisogni della popolazione, sottraendosi all’egida degli investitori stranieri.
Questo modo di pensare è ben radicato e costantemente ribadito per mezzo della politica USA nel mondo, sin dagli inizi della “era imperiale moderna”, dopo la Seconda guerra mondiale.
Sin dall’inizio della guerra fu chiaro che gli USA sarebbero emersi come potenza dominante il mondo: il Dipartimento di Stato ed il Consiglio per le Relazioni con l’Estero (Council on Foreign Relations – CFR) diedero vita ad un “ordine internazionale” postbellico in cui gli USA avrebbero detenuto un “potere indiscutibile”.
L’acquisizione delle risorse energetiche globali sarebbe stata uno strumento per l’affermazione di quel potere, e le risorse saudite, definite dal Dipartimento di Stato “la materia prima donata più straordinaria nella storia”, erano al primo posto.
Come consigliava Harold Ickes – lo “zar del petrolio” al fianco di Franklin Roosevelt -, dal momento che si richiedevano ingenti rifornimenti di energia a basso prezzo per le economie capitaliste industriali nel mondo, il controllo del petrolio sarebbe stato “la regolazione della politica del dopoguerra”.
Ickes intendeva che con il controllo del petrolio mediorientale, in particolare quello proveniente dalle vaste riserve saudite, gli USA avrebbero potuto avere mano libera sulle fonti destinate a rifornire le economie europee, il Giappone e il resto del mondo.
Come sosteneva all’epoca George Kennan, questo avrebbe conferito agli USA “il potere di veto” sulle azioni altrui.
Di recente, Zbigniew Brzezinski ha individuato nella mediocrità della “influenza” esercitata dagli inviati USA una conseguenza delle attuali difficoltà statunitensi in materia di approvvigionamento energetico.
Se è così, allora, in Medio Oriente gli USA non temono la “sfida per l’affermazione” o per uno sviluppo autonomo, che invece altrove sono validi.
Certo, queste preoccupazioni esistono, ma esiste pure un’altra dimensione: qualora un’opposizione dovesse minacciare il controllo USA sulle risorse petrolifere, un’altra risorsa – più importante – sarebbe messa a rischio.
Con l’amministrazione Nixon si raggiunge l’apice: l’esercito USA è vincolato in Vietnam, interviene direttamente in Medio Oriente per difendere gli interessi strategici e vitali, e fornisce aiuto militare per contenere la rivoluzione iraniana (agendo in qualità di esecutore).
Ricordiamo le conclusioni di Amnesty International, risalenti al 1976: “Iran: nessun paese detiene il peggior record in materia di diritti umani”. Esse furono ignorate dagli Stati Uniti che, per converso, rafforzarono il loro sostegno allo Scià.
Questo non fu però un prodotto dell’opera della “lobby iraniana” negli USA.
La ragione era un’altra; accordare il proprio sostegno all’Iran, significava creare le premesse per garantire mantenimento e progresso degli interessi statunitensi.
Esistono e sono esistite, inoltre, altre preoccupazioni strategiche che hanno indotto gli USA a sostenere altri regimi, tra cui quello di Saddam Hussein.
Durante il genocidio di Anfal contro i curdi, le forze irachene fecero uso di armi chimiche fornite dagli USA [questo “genocidio”, in realtà, è contestato anche da Commissioni statunitensi, come quella guidata da S. Pellettiere, ndr].
Le utilizzarono contro i civili curdi che furono uccisi in 100.000 con la distruzione dell’80% villaggi del Kurdistan iracheno mentre gli USA si mobilitarono per bloccare le condanne internazionali a quelle atrocità.
Il sostegno di crimini funzionali agli “interessi nazionali” significa gestione di numerose corporazioni e delle élite di governo.
La protezione di questi reati dalle critiche internazionali è la regola, non l’eccezione.
È frequente incontrare tesi a sostegno di un raffreddamento nelle relazioni USA-Israele in seguito all’attacco israeliano del 1967 che, definitivamente, pose fine al ruolo egiziano come polo dell’opposizione all’imperialismo USA, dopo la disfatta inferta da Israele al regime indipendente nazionalista di Jamal ‘Abd el-Naser con un attacco preventivo.
Tuttavia, sarebbe utile ricordare che ancor prima della Seconda guerra mondiale l’Arabia Saudita svolgeva già il ruolo di “facciata araba”, che occultava la mano della reale potenza governante sulla penisola araba, volendo fare uso di un termine coloniale britannico.
Con la retorica arabo nazionalista di ‘Abd el-Naser (“schierare l’intera regione contro la casa dei sauditi”), l’Egitto rappresentava quindi una seria minaccia per gli USA.
In risposta a quegli eventi, il Dipartimento di Stato giunse alle conclusioni che “il corollario logico” all’opposizione USA del nazionalismo arabo sarebbe stato “sostenere Israele” come unica forza regionale affidabile pro-USA.
La distruzione e l’umiliazione del regime di ‘Abd el-Naser, quindi, furono un regalo per Washington, e l’alleanza accordata ad un Israele potente trovò un’altra ragion d’essere.
Questa singolare importanza attribuita ad Israele nella regione è una delle ragioni alla base dell’alto livello di aiuti che Israele riceve, tra cui le armi più avanzate rispetto a quelle che gli USA sono pronti a trasferire ad altri tra i loro clienti.
Dotare Israele di una forza schiacciante contro chiunque avversi l’ordine istituito è uno degli aspetti guida della strategia regionale USA.
Certo, il fatto che Israele sia un alleato affidabile è un valore aggiunto; esistono infatti poche possibilità che il governo israeliano venga rovesciato e che le armi ricadano nelle mani dei fondamentalisti islamici che si oppongono all’Occidente o dei nazionalisti indipendenti come accadde in Iran nel 1979.
Oggi, con la crescente indipendenza dell’Europa e le economie di India e Cina che chiedono una propria gestione delle risorse energetiche, guadagnare il controllo su ciò che resta è dunque una questione cruciale.
Nel settembre 2009, l’ex inviato speciale cinese in Medio Oriente, Sun Bigan, scriveva sulla Rivista Asia-Africa: “Gli USA hanno sempre rivendicato il controllo sui rubinetti del petrolio a livello globale”, pertanto gli Stati Uniti sono pronti a tutto per assicurarsi che il petrolio iracheno resti sotto il proprio controllo mentre la Cina deve ripiegare altrove nella regione, per trovare fonti energetiche indipendenti.
L’Iran detiene generose risorse energetiche (…) e le sue riserve sono seconde al mondo. Tutte sono sotto il suo controllo”.
Questa indipendenza iraniana accresce il ruolo strategico di Israele per gli interessi USA, soprattutto da quando la crudele dittatura dello Scià, sostenuta dagli USA, fu rovesciata nel 1979.
Da allora, infatti, Israele rimaneva il solo a terrorizzare la regione rispondendo agli ordini statunitensi e per assicurare che il petrolio saudita restasse sotto controllo USA.
E medesimo ruolo viene riconosciuto ad Israele di fronte ad Iraq-Iran, con la strategia regionale statunitense del “contenimento duale” risalente a Clinton.
Mentre l’Iran sviluppa una tecnologia tale da permettergli di produrre quello che, nel febbraio 2010, la rivista Quadrennial Defense Review dichiara “armi proibite” o “armi di distruzione di massa”, gli USA si sentono ostacolati, venendo minacciata la prerogativa USA di agire liberamente con la forza in qualunque regione del mondo.
Oggi è un momento cruciale nella lotta che Washington sta conducendo per sottrarre il controllo all’Iran, ed il confronto – giustificato con la necessità USA di controllare il suo petrolio e distruggere una base di nazionalismo indipendente – fa del sostegno degli Stati Uniti a Israele, una strategia de facto.
Le ipotesi della “lobby israeliana” e le pressioni USA
Se adottassimo l’ipotesi della “lobby” , dovremmo pure ipotizzare una rottura tra i due Paesi qualora i rispettivi interessi risultassero essere divergenti, magari proprio nel caso in cui Israele agisse contro gli “interessi nazionali” USA.
Se – nell’ambito della tesi della “lobby” – le politiche USA in Medio Oriente dovessero danneggiarne gli “interessi nazionali”, tali politiche non sarebbero altro che un fallimento.
Questo ci pone davanti un quesito: un fallimento per chi? Non per le élite USA, le quali si sono assicurate il controllo delle maggiori risorse energetiche al mondo, mentre, contemporaneamente, respingevano i movimenti d’opposizione; un fallimento neppure per le istituzioni della difesa e, quasi sicuramente, neppure per le corporazioni energetiche.
Infatti, non solo la politica USA in Medio Oriente è simile a quella implementata in altre regioni del mondo, ma è pure una questione di successo strategico e di profitto.
La politica USA nei confronti di Israele e dei palestinesi non è quella di porre fine all’occupazione e nemmeno di realizzare i diritti umani dei palestinesi; ad oggi gli USA sono i primi responsabili dell’ostacolo agli obiettivi summenzionati.
A parere degli USA, con l’operazione “Scudo difensivo” (2002) Israele aveva punito nella giusta misura palestinesi e leadership statunitense (accondiscendente), per l’intransigenza mostrata a Camp David.
E mentre già l’Autorità Nazionale Palestinese si comportava come un “subappaltatore” e “collaboratore” nell’oppressione della resistenza all’occupazione israeliana, nelle parole parafrasate dell’ex Ministro degli Esteri israeliano, la deliberata devastazione – ad opera del primo Ministro Ariel Sharon – delle istituzioni palestinesi fornì un’occasione per ricostruirle ed assicurare un maggiore grado di controllo statunitense.
I programmi di colonizzazione e di annessione garantiscono il controllo israeliano sulle migliori terre palestinesi e sulle risorse idriche, assicurando allo Stato ebraico il ruolo di società dominante, non facilmente reprimibile dai suoi vicini.
Per agevolare questi obiettivi, la protezione che gli Stati Uniti riservano all’espansione israeliana viene celata dietro un “processo di pace”, nella speranza che i palestinesi concedano ancora più di quanto non abbiano già concesso.
La preoccupazione principale è quella di divulgare un’immagine secondo cui USA e Israele lavorano duro per il raggiungimento della “pace”, battendosi contro coloro che alla pace “si oppongono”.
Quando le popolazioni della regione vengono oltraggiate dai reati di Israele, la loro rabbia rappresenta una marginale considerazione rispetto all’ambizione di mantenere un forte e dipendente alleato nel cuore del Medio Oriente.
La ricostruzione di un’Autorità Nazionale Palestinese ancora più vincolata – con un generale Dayton alla diretta supervisione delle forze di sicurezza palestinesi – agevola gli interessi degli Stati Uniti nei propri obiettivi e sarà maggiormente efficace nel reprimere la resistenza all’occupazione.
Allo stesso modo, la scelta di ritirare i soldati di Israele dalla Striscia di Gaza ha permesso a Sharon di avere mano libera nell’annessione della Cisgiordania, e di essere presentato, sulla scena internazionale, come “grande uomo di pace”.
Il trattamento che i media USA riservano ad Israele è lo stesso utilizzato per gli altri alleati statunitensi.
La stampa commerciale è a favore degli alleati USA e ne osteggia i nemici, ma questo è un fenomeno noto e ben documentato.
Una ragione in più indebolisce la tesi della “lobby israeliana”.
Lo speciale trattamento che la grande stampa riserva ad Israele è un fatto ordinario nel funzionamento dei media e degli “intellettuali statunitensi”.
Questo non vuol dire che non esistano organizzazioni statunitensi come il Comitato degli ebrei americani, la Lega anti-diffamazione e l’AIPAC che chiedono di isolare i dissidenti della politica di Israele da qualunque ambito. Piuttosto cerco di chiarire qui come il potere di tali gruppi sia debole in confronto ad altri più potenti in termini di interessi ed affari.
Non solo AJC o ADL sono in grado di chiedere ed ottenere le dimissioni di un professore che critica Israele, ma è anche possibile che simili preoccupazioni vengano mosse da un’élite che è anche proprietaria di mezzi di informazione, la quale, dunque, collateralmente fa pure i suoi interessi.
L’AIPAC si trova nella stessa posizione: ha il potere di sollecitare un sostegno ad Israele da parte del governo statunitense, non senza chiamare in causa altri potenti interessi come le corporazioni del settore dell’energia e le istituzioni della difesa, senza le quali gli sforzi dell’AIPAC non sarebbero altrettanto efficaci.
La politica USA, come quella di altri Stati, è dunque pianificata razionalmente per rispondere agli interessi della classe dominante.
Israele non potrebbe perseguire le sue politiche espansionistiche ed aggressive senza l’aiuto militare e senza l’appoggio diplomatico degli USA.
Se solo l’amministrazione Obama lo volesse, sarebbe capace di fare pressioni affinché Israele rispetti la legislazione e le risoluzioni internazionali, rientrando nel consesso internazionale e mettendo in atto la “soluzione dei due Stati”.
È troppo comoda la spiegazione di questo “fallimento” fornita dalla tesi della “lobby israeliana”.
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.