L’11 settembre 2001 e la guerra dichiarata dall’amministrazione Bush al terrorismo internazionale riportano in primo piano la regione dell’Asia meridionale e, in particolare, per la sua collocazione geografica, il Pakistan. A questa nuova situazione di rinnovata importanza il Pakistan arriva segnato da numerose fragilità che lo rendono per gli Stati Uniti un interlocutore molto complesso con cui relazionarsi. D’altra parte, gli Stati Uniti non hanno alternative percorribili e i cambiamenti avvenuti nell’arena internazionale in seguito all’attentato alle Torri Gemelle li obbligano a collaborare nuovamente con l’alleato pakistano, continuando un rapporto altalenante e di lunga data che è rilevante ripercorrere brevemente per comprendere le complessità odierne.

L’alleanza nasce nel 1954, nel contesto bipolare caratteristico della Guerra Fredda per la necessità degli Stati Uniti di avere un alleato stabile e fidato nella regione sud asiatica. L’India, infatti, interlocutore potenzialmente favorito, si sta in quegli anni indirizzando verso una scelta di non allineamento, escludendo così un possibile schieramento nel conflitto globale.

Il Pakistan, fin dalla nascita, percepisce l’India come la minaccia principale alla propria sicurezza interna ed è evidente quindi come l’alleanza in questione attraversi un primo grande momento di crisi quando, in occasione della guerra sino-indiana del 1962, gli Stati Uniti cambiano strategia concedendo all’India importanti aiuti militari e relegando, di fatto, il Pakistan in una posizione secondaria rispetto alla grande democrazia indiana.

Il 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, riporta alla ribalta l’alleanza in quanto la posizione geografica pakistana torna a rivestire un’importanza sostanziale per quanto riguarda l’interesse statunitense più rilevante: la lotta al comunismo ed il contenimento dell’influenza sovietica in Asia. Il Pakistan diventa il fronte principale nella lotta contro Mosca fino a quando la ritirata delle truppe sovietiche e il crollo dell’URSS tolgono rilevanza al quadrante sud asiatico e portano una nuova crisi nel rapporto tra i due alleati.

La situazione afghana dopo la fine dell’invasione sovietica è convulsa, poco rilevante per le relazioni globali e per gli Stati Uniti ma assai importante per il Pakistan: dall’inizio degli anni ’90 Islamabad sostiene e finanzia un movimento afghano, i Talibani, che iniziano una rapida conquista del Pese ma, una volta al potere, si mostra irrispettoso delle libertà civili, specialmente delle donne, e portatore di un’ideologia islamica radicale ed anti-occidentale, che provoca reazioni negative nell’opinione pubblica nordamericana.

Si tratta di elementi che contribuiscono a raffreddare le relazioni fra i due Paesi, condizionate anche dal diffondersi dell’estremismo islamico di matrice talibana pure in Pakistan, principalmente nelle zone di confine e nelle aree tribali.

Ma il punto culminante della crisi è sicuramente il 1998, anno che vede l’esplosione di sei ordigni nucleari pakistani, in risposta ai precedenti esperimenti indiani. L’obiettivo di Islamabad è di contrastare la potenza nucleare dell’India ma la scelta pakistana di procedere con le esplosioni genera una dura risposta di Washington, che impone ingenti sanzioni al paese, portandolo vicino al collasso economico e sociale (l’unico programma che rimane in vigore è il Food for Peace Program, finanziato dal FMI).

Questi ultimi avvenimenti portano l’alleanza a toccare il punto più basso nella sua storia.

È evidente però come l’andamento estremamente altalenante del rapporto tra i due alleati sia principalmente dettato dagli interessi globali statunitensi e, al contempo, sia difficilmente accettabile per l’opinione pubblica e per le istituzioni pakistane, che tollerano molto a fatica la presenza nordamericana nell’area, caratteristica che rimane evidente anche dopo l’11 settembre.

Quando, nel 1999, in seguito a un colpo di stato militare (il quarto dalla nascita del paese), sale al potere il generale Pervez Musharraf, si è ancora in una fase critica dell’alleanza.

Inizialmente il nuovo regime viene accolto negativamente a livello internazionale e, soprattutto, dagli USA che nel periodo precedente l’11 settembre stanno attuando una politica di avvicinamento all’India come interlocutore principale dell’area, mentre applicano pesanti sanzioni al Pakistan. Tuttavia, Musharraf garantisce al Pakistan un clima di stabilità politica che permette anche la normalizzazione economica, e introduce dei cambiamenti in politica estera, soprattutto rispetto al vicino afghano. Egli si rende conto già nel 2000 che il continuo sostegno al regime talibano ha conseguenze prevalentemente negative per il paese, senza portare i benefici sperati alla nascita del movimento: poter vedere eletto un governo amico in Afghanistan che riconosca la linea di confine tra i due Paesi detta Durand Line, che favorisca il commercio e la collaborazione e che escluda ogni possibilità di alleanza con l’India.

Musharraf tenta, quindi, ben prima dell’11 settembre, di diminuire il sostegno ai Talibani e di mostrare, soprattutto a livello internazionale, un distacco tra il regime afghano e Islamabad attraverso una serie di riforme interne che vengono però ostacolate da parte dell’esercito, dall’ISI (i servizi segreti) e dalla parte della popolazione pakistana che vive principalmente nelle zone di frontiera e nelle aree tribali. Si tratta di popolazioni pashtun che, da sempre, si amministrano autonomamente e sono diventate una sorta di Stato nello Stato, e che si sentono legate alle tribù consorelle afghane con cui hanno continuato a mantenere legami stretti, nonostante fossero state divise nel 1893 con la definizione della Durand Line, arrivando fino alla creazione del Pashtunistan (Stato dei Pashtun), una sorta di comunità che ignora i confini tra i due paesi.

Le riforme proposte da Musharraf vanno incontro ad un sostanziale fallimento, evidenziando una spaccatura sempre più evidente nella società pakistana, che si è ulteriormente ampliata in seguito agli attacchi contro le Torri Gemelle.

11 settembre 2001

L’11 settembre impone al Pakistan una scelta definitiva. Musharraf decide di schierarsi totalmente con la coalizione guidata dagli Statunitensi contro il terrorismo interazionale e, quindi, contro il regime talebano. Conseguenza di questa decisione è la concessione di basi d’attacco e supporto logistico e di intelligence all’esercito nordamericano per sostenere la prima azione militare contro i Talibani, la guerra in Afghanistan iniziata lo stesso 2001.

La scelta di schierarsi con gli USA è stata in parte obbligata dal chiaro messaggio dell’amministrazione Bush (“O con noi o con i terroristi contro di noi”), dalla creazione della categoria degli “Stati Canaglia” e, quindi, dalla necessità per il Pakistan di non essere inserito in questo gruppo di paesi per evitare l’isolamento e l’aggressione.

Tuttavia, Musharraf intravede nell’accondiscendenza alle richieste nordamericane la possibilità di ottenere in cambio utili ricompense: innanzitutto la sospensione di tutte le sanzioni internazionali, accompagnata da una quantità elevata di aiuti economici e militari che portano il paese ad essere uno tra i principali riceventi al mondo; in secondo luogo, un riconoscimento internazionale del regime di Musharraf, e quindi la fine dell’isolamento pakistano ed un rafforzamento del proprio potere interno.

L’allineamento alla coalizione statunitense porta però anche ad accentuare ulteriormente tutte le spaccature, precedentemente illustrate, presenti nella società pakistana. Gli elementi che sostenevano il regime talibano continuano, anche dopo l’11 settembre, a supportarlo e forniscono ai sopravvissuti un rifugio sicuro contro le azioni nordamericane, impedendone la sconfitta definitiva.

L’alleanza rinnovata rimane, però, condizionata da molte criticità legate alla situazione interna del Paese, anche se gli Stati Uniti tendono a porre questi elementi in secondo piano rispetto alla priorità attribuita alla lotta al terrorismo.

Tra queste in primo luogo vi è la presenza di armamenti nucleari sul territorio pakistano. Come ricordato, il programma nucleare pakistano è stato sviluppato essenzialmente in funzione anti-indiana ma al di fuori di qualsiasi controllo internazionale, non avendo il Pakistan, come peraltro l’India, ratificato alcun trattato internazionale in materia. La presenza di un arsenale nucleare in un Paese musulmano così esposto nella “guerra al terrorismo” costituisce un rischio assai rilevante. In seguito all’11 settembre, nel quadro del rinnovo dell’alleanza, mentre sono sospese le sanzioni, le strutture di comando e controllo dell’arsenale nucleare sono rinnovate e rinforzate; le testate vengono smontate e poste in un luogo diverso rispetto ai missili balistici corrispondenti. Peraltro, già nel 2000 era stata istituita una struttura per il controllo dell’arsenale nucleare, la NCA (National Command Authority), che vede, per la prima volta in questo settore, personale civile affiancato a quello militare.

Questo primo fattore risulta, però, ancora più critico se considerato assieme al secondo elemento di fragilità: la diffusione sempre maggiore del radicalismo islamico in territorio pakistano, soprattutto nelle zone di frontiera con l’Afghanistan e nelle aree tribali che, come ricordato, sono abitate da popolazioni di etnia pashtun che continuano ancora oggi a sostenere i Talibani e a fornire loro rifugio, permettendone la riorganizzazione.

Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno dunque la necessità assoluta di evitare il crollo del regime pakistano non solo per il ruolo del paese nella loro strategia offensiva contro i Talibani, ma anche per scongiurare il pericolo che armi nucleari cadano in mano a organizzazioni estremiste, eventualità problematica sia per la regione sia per l’intera comunità internazionale.

Essi sono pertanto costretti ad accettare le ambiguità del regime pakistano ed i limiti evidenti della collaborazione,

Lo scarso successo delle iniziative pakistane contro i Talibani e Al Qaeda nelle aree tribali ha portato a numerose frizioni nel rapporto con gli Stati Uniti, che accusano l’alleato di non impegnarsi a sufficienza nella lotta al terrorismo, senza però ottenere miglioramenti significativi.

Le difficoltà di Musharraf sono però in parte reali. E’ necessario, infatti, tenere in considerazione l’estrema debolezza della società pakistana, che è molto frammentata al suo interno: il 95% della popolazione è musulmana, in maggioranza sunnita, e sono presenti numerose minoranze religiose – cristiani cattolici e protestanti, indù, ahmadi sikh, parsi e buddisti. Anche a livello etnico le divisioni sono numerose: esistono, infatti, quattro gruppi etnici: panjabi, pashtun, sindi e beluci. I primi due sono i principali, ma non condividono la medesima visione dell’Islam: da un lato i panjabi, situati nella zona economicamente più ricca del Pakistan, sono contrari al sostegno del movimento talibano e alla visione estremista dell’Islam che questo sostiene; dall’altro, invece, i pashtun, abitanti di zone estremamente povere ma che si trovano in una posizione geostrategica di grande importanza, soprattutto per la guerra in corso, continuano a supportare il movimento e condividono la visione fondamentalista dell’Islam.

A completare il quadro di un’alleanza altalenante, condizionata dagli interessi nordamericani, giunge, nel 2003, l’apertura di un nuovo fronte in Iraq che sposta inevitabilmente l’attenzione statunitense ed internazionale dall’Asia Meridionale al Golfo Persico.

Contemporaneamente, in Pakistan il conflitto con l’Islam estremista ha portato negli anni alla nascita di una serie di organizzazioni terroristiche minori, che spesso si richiamano ad Al Qaeda, le quali effettuano attacchi sul territorio pakistano e che, quindi, minano ulteriormente la sicurezza e la stabilità interne del paese ed il sostegno all’alleato occidentale.

Durante gli anni del conflitto iracheno la situazione interna pakistana si deteriora progressivamente, fino al crollo del regime di Musharraf e alle elezioni del settembre 2008, segnate dall’assassinio di Benazir Bhutto, che portano al potere Asif Alì Zardari.

Al neo eletto presidente Obama si presenta dunque un quadro assai critico in cui tutte le debolezze strutturali dell’alleanza con il Pakistan rischiano di diventare decisive anche per le sorti del conflitto afghano.

La nuova strategia di Obama

Il 27 marzo 2009 il presidente Obama presenta la così detta “AfPak Strategy”, indirizzata, ovviamente, alla zona del Meridione asiatico e, in particolare, a cercare di sanare i problemi sempre più evidenti del Pakistan.

Con la nuova amministrazione al Pakistan viene di nuovo riconosciuto un ruolo centrale nella strategia di sicurezza nordamericana.

La nuova strategia prevede, innanzitutto, un aumento degli attacchi militari, accompagnati da ulteriori aiuti all’esercito pakistano, da un miglioramento delle sue capacità anti-terroristiche e da una maggiore concentrazione sugli obiettivi presenti sul confine afghano (il Pakistan, infatti, continua a considerare l’India come minaccia principale alla propria sicurezza e ad investire una quantità elevata di risorse nella guerriglia in Kashmir, piuttosto che sugli altri fronti).

Le azioni militari saranno, inoltre, accompagnate da una serie di interventi non militari che consistono principalmente in aiuti economici volti ad assistere la società pakistana e, in particolare, a tentare di diffondere un maggiore rispetto dei diritti umani e ad istituire programmi di ricostruzione e sviluppo, soprattutto nelle zone colpite dagli attacchi militari, puntando su una sorta di “nation building” in modo da riavvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Si afferma, inoltre, l’idea di distinguere Al Qaeda e i Talibani più estremisti dagli elementi che, invece, presentano caratteristiche di maggiore moderazione, tentando una sorta di negoziazione con queste ultime (l’assimilazione, presente soprattutto dal 2001, tra l’organizzazione terroristica di Bin Laden e il movimento talibano ha portato, infatti, ad un effettivo avvicinamento dei due).

Le istituzione civili diventano importanti elementi dell’azione nordamericana, a prescindere dal singolo dirigente al governo: investimenti in strade, scuole, edifici ecc. costituiscono un nuovo obiettivo di lungo periodo. Infine, il tentativo di creare delle zone in cui sono presenti forti agevolazioni per il commercio lungo il confine spera di portare ad una progressiva separazione tra le popolazioni pashtun e i movimenti estremisti. Il tasso di povertà dei pakistani è, però, ancora molto alto: come emerge dal United Nations Human Development Report del 2009, infatti, ancora il 33,4% dei pakistani vive in una condizione di estrema povertà (di questo 33,4% il 22,6% vive con 1,25$ al giorno), fattore che ostacola l’effettiva applicazione delle politiche occidentali nel paese, nonostante gli ingenti aiuti ricevuti negli ultimi anni.

I pakistani non sono mai stati estremisti (i partiti di questo genere hanno sempre ottenuto una percentuale molto bassa di consensi), e sono sempre più coscienti che il terrorismo rappresenta una minaccia anche per la loro stessa società. Nonostante questo l’andamento altalenante dell’alleanza con gli Stati Uniti ha minato la fiducia del paese e continua ad incidere negativamente sull’evoluzione della crisi.

Il tentativo di guadagnare nuovamente l’appoggio della popolazione attraverso investimenti per la società pakistana, abbinato a interventi militari mirati a sconfiggere le cellule terroristiche può aiutare gli USA ad ottenere maggiori successi nella regione, che continua a rimanere, dal 1954, un paese strategicamente fondamentale, non solo per la guerra in Afghanistan ma anche come ponte tra l’Occidente e il mondo musulmano (il Pakistan, infatti, da sempre alleato occidentale è il secondo più popoloso paese musulmano, dopo l’Indonesia).

* Giulia Fumagalli è dottoressa in Scienze internazionali (Università degli Studi di Milano)

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