Pierre Drieu La Rochelle, Appunti per comprendere il secolo, Traduzione e saggio introduttivo di A. Cucchi, Apparato iconografico di C. Gregolin, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2016, pp. 160, € 18,00 (Acquistabile qui)
In occasione della nuova edizione di questo libro, riproponiamo due recensioni che vent’anni fa ne segnalarono la prima edizione, dovute rispettivamente a Ernesto Galli della Loggia ed a Mario Sanesi. Visto da destra e visto da sinistra.
La Rivoluzione del Corpo, la Restaurazione del Corpo: così Drieu definisce la fase storica del totalitarismo in questo libro, nel quale lo scrittore collaborazionista, suicidatosi dopo la fine della guerra, tenta di schizzare una sorta di profilo antropologico del fascismo dopo una lunga introduzione sull’intera storia letteraria di Francia. Più che il fascismo, a Drieu sembra interessare il totalitarismo: la rivoluzione che esso incarnerebbe è “totale”, perché è dei corpi, ma insieme “è la rivoluzione dell’anima che ritrova tutti i suoi valori attraverso i valori del corpo”: una “potente convergenza di tutte le passioni, di tutte le idee su tutti i piani, in un’unica direzione” che si oppone al razionalismo. E in questa contrapposizione totalitaria non esisterebbe differenza tra bolscevismo, fascismo, nazismo.
L’uomo totalitario, l’uomo nuovo (espressione di Drieu) è un uomo cresciuto tra Roma e Berlino, il quale però ha scoperto da un lato l’antiurbanesimo primitivo della Russia e la figura del gangster. Su tale figura lo scrittore francese fa delle osservazioni acute, scorgendo in essa, e soprattutto nella sua popolarizzazione fattane da Hollywood, un esito – sia pure degradato e contaminato dall’immagine del mafioso – della tradizione dell’avventuriero anglosassone tutto immerso nella fisicità, nell’individualismo, in una carica di furore volta in sete di conquista e precursore-protagonista della scoperta dello sport.
Alfieri di tale scoperta, boy scout, Wandervögeln, militanti dei Corpi Franchi, gangsters, cekisti, e perfino “i mercenari delle guerre cinesi” avrebbero fornito altrettanti exempla dell’hitlerismo e del fascismo. Un’allucinazione? Sì, per molti aspetti: una tipica allucinazione di quella critica della civiltà in chiave romantico-nichilista, che fu propria di intellettuali come Drieu. Ma attraversata da lampi di luce, da intuizioni che ci aiutano a vedere e capire.
Ernesto Galli della Loggia
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Non un solo secolo costituisce l’oggetto delle riflessioni di Drieu, ma tutti quelli che si sono succeduti dal Medioevo ad oggi, per tentare di coglierne un filo conduttore, un senso nascosto che possa testimoniare la decadenza verso la quale si è incamminato il suo paese, quella Francia che appare la destinataria di un atto di accusa al limite dell’invettiva e, insieme, la misura di ogni considerazione sul corso della storia attraverso i numerosi riferimenti ai suoi figli più famosi. Lo scopo: mostrare gli effetti devastanti che l’individualismo e il razionalismo hanno determinato in ogni uomo, distruggendo quell’equilibrio, quell’armonia che l’età medievale aveva raggiunto fra anima e corpo.
I toni forti con cui Drieu parla non sono adatti, evidentemente, alle sottigliezze, e quindi possono determinare affermazioni ed immagini che si lasciano interpretare in maniera eterogenea. Da una parte c’è il suo personale atteggiamento rivalutativo nei confronti del Medioevo: una presa di posizione che, se oggi può apparire scontata, all’epoca non era certamente sostenuta da molta parte della storiografia ufficiale. Contemporaneamente, però, quello che egli dipinge è un Medioevo, quello che preferisce, certo non l’unico rappresentabile, data la grande estensione temporale del periodo e soprattutto la diversità dei livelli di vita – ciascuno coi suoi ritmi – che si realizzarono in quei secoli. Ne consegue che le visioni di corpi energici, traboccanti vitalità e gioia di vivere, un po’ genericamente esaltata da Drieu, non possono essere proiettate su un generico “uomo medioevale”, ammesso che tale categoria unitaria sia mai esistita.
Questa approssimazione, segnale distintivo di queste pagine, non può essere rimproverata oltre un certo limite a Drieu, che sapeva benissimo di incorrere in un peccato di leggerezza, ma non se ne preoccupava più di tanto, cosciente come era di non stare scrivendo una filosofia della storia, che non sopporterebbe la benché minima contraddizione. Fortunatamente non era questa la sua intenzione, vorremmo dire, perché uno dei dati essenziali della vita è che le contraddizioni, a vari livelli, esistono, e Drieu preferisce legarsi intimamente ad esse, esserne parte integrante, piuttosto che nascondersi fra parentesi, come altri, filosofi di professione, hanno fatto nei confronti di ciò che non riuscivano a spiegare perché non si adattava alla loro ferrea – ma unilaterale – logica.
Nel complesso, ci pare di poter osservare che le analisi di Drieu (ma sono poi analisi?) acquistano in spessore man mano che si avvicinano ai tempi in cui sta scrivendo: non soltanto quelle rivolte al Novecento, ma anche le note dedicate a tutta l’età moderna, a quello spirito moderno le cui lacerazioni sono vissute e sopportate dallo scrittore francese in ogni parte delle sue carni. Nonostante egli non segnali un passaggio epocale attraverso l’inizio della secolarizzazione – e quindi mantenga criteri interpretativi omogenei per periodi storici che non lo furono altrettanto –, l’approssimarsi ai problemi sul tappeto inasprisce, ma sensibilizza, la sua penna. Si mette alla ricerca di segni premonitori di quella rinascenza che il nostro secolo partorirà tentando di ricostituire la perduta unità fra anima e corpo. Un tentativo difficoltoso, lungo sentieri scoscesi annunciati dalla filosofia e dalla letteratura, ma sanzionati dalla politica, dalla nuova politica che si affermò all’indomani della Grande Guerra, quando giunse all’apice dei suoi successi l’esito di quella filosofia della forza che nutrì i destini italiano, russo e tedesco.
Che dire di questa opinione di Drieu, se non che ancora una volta ripresenta la duplicità del suo investigare, lucido ma troppo affidato ad una capacità di intuizione non sempre verificata? Il riappropriarsi da parte dell’uomo del proprio corpo sarebbe stato annunciato fin dall’inizio del secolo XIX, quando alcune discipline scientifiche, ad esempio la biologia, tornarono a porre l’accento sull’importanza della fisicità dell’individuo come elemento essenziale per comprenderne la storia. Da altri versanti muovevano – pur se inconsciamente – verso lo stesso fine pensatori come Darwin e Marx, che operarono a sgretolare quella mentalità razionalista che per Drieu, come abbiamo visto, era l’origine di ogni male, e che avrebbe trovato il massimo accusatore in Nietzsche. Ma da questo a classificare come darwinista la nuova morale ispirata dal filosofo tedesco, ci pare che il passo sia troppo ardito, tanto da accreditare quelle tesi che volevano legare inscindibilmente il “superuomo” con il nazionalsocialismo e che per lungo tempo non hanno ottenuto altro risultato che destinare alla stessa insindacabile condanna un pensatore che non si esitava a considerare addirittura un progenitore delle camere a gas.
In questo senso, possiamo dire che forse Drieu si lascia troppo andare al gusto di enunciazioni dai toni così forti che confondono forma e sostanza del fenomeno storico osservato; ed anche quando il secondo elemento viene esattamente compreso, il primo sembra prendere assolutamente il sopravvento.
Il suo atteggiamento nei confronti del fascismo, o dei fascismi, è da questo punto di vista esemplare. Egli sembra affidarsi ad un’esaltazione della loro componente vitalistica, esistenziale, quasi fosse stata la sola ragione dei successi che conseguirono, mentre appare defilato, o meglio affrontato con minor ardore, l’aspetto squisitamente politico della loro affermazione. Eppure fu proprio su questo versante che il fascismo vinse, ed è proprio Drieu a ricordarcelo puntualmente, indicando come quel fenomeno abbia incarnato la svolta del secolo, segnando la fine delle vecchie ideologie, che vennero frantumate per poi utilizzarne, al massimo, alcuni elementi, e contemporaneamente avvertendoci che il fascismo fu il superamento del nazionalismo, soprattutto nella sua forma degenerata, prodotta dall’incontro col capitalismo.
Da qui si snoda la parte centrale delle considerazioni di Drieu, tanto lucida nella delineazione dei tratti fondamentali del ragionamento quanto contestabile nei suoi esiti. Contro la decadenza del continente, che lo scrittore francese imputa ai nemici dell’Europa dei popoli, sembra ergersi un processo di rinvigorimento di quei popoli e della possibilità che essi avrebbero di darsi una struttura politica adeguata all’imminente rinascenza. In questa direzione, ad avviso di Drieu, si sarebbe mosso il totalitarismo. Di questo fenomeno epocale non possiamo disconoscere i profondi addentellati con la realtà storica racchiusa fra i due conflitti mondiali, ma è fuorviante confonderlo, senza troppe precisazioni, con un’idea di totalità descritta secondo un vocabolario che sarebbe stato valido nel Medioevo e che assegna alla dimensione politica una carica escatologica che non le compete in un’epoca segnata nel profondo dalla secolarizzazione. Certo, stimolando il recupero di forti identità collettive, il totalitarismo si mostrò capace di surrogare le certezze onnicomprensive che l’uomo aveva conosciuto molti secoli prima, ma tenere presente anche questo elemento non autorizza a commistioni fra realtà divise da un profondo cambiamento di mentalità avvenuto nei secoli. Commistioni che si possono spiegare con la concitazione che possedeva Drieu mentre stendeva questi Appunti, ma non giustificare o accogliere passivamente, a rischio di fraintendimenti intorno ai quali molti, troppi intellettuali delle più disparate provenienze insistono a giocare. E fra questi molti, una buona parte è rappresentata da coloro che amano avvicinarsi a Drieu quando le sue opere sono pubblicate in un volume come questo, con una “bella” copertina ad hoc, evocativa e commemorativa di un passato nel quale si mescolavano simboli della tradizione e militareschi stivali.
Ma non è lo stesso Drieu a fare l’apologia di quella Germania – si potrebbe obiettare –, che considerava la punta avanzata dell’europeismo per il suo essere la più ariana fra le stirpi che affollano il nostro continente? È vero, e molto banalmente potremmo osservare che a sopravvalutare il “corpo” si corrono anche questi rischi. Potremmo però pensare anche all’angoscia che deve essere costata a Drieu l’ammissione di questa presunta realtà. Quanta consapevolezza devono avere avuto, insieme con lui, tutti i cosiddetti collaborazionisti francesi, cioè coloro che riconobbero – partendo da posizioni nazionali – la triste ed irreversibile condizione in cui versava il loro paese, tanto da preferire schierarsi accanto al nemico che li aveva battuti piuttosto che lasciare che la Francia affondasse completamente! Ci pare di leggere molta rabbia nei confronti della propria patria nelle parole di Drieu in lode della Germania, e ne comprendiamo facilmente lo stato d’animo, anche quando non ne condividiamo le affermazioni. Mentre del tutto assurda ed ingiustificabile, nonché estremamente strumentale, ci sembra la posizione di quanti fanno leva proprio su quelle parti dei suoi scritti per testimoniare la loro presunta fedeltà agli ideali che, secondo loro, mossero lo scrittore normanno.
Mario Sanesi
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