Il titolo di questo intervento potrebbe sembrare provocatorio o esagerato; ma chiunque abbia a che fare con la geopolitica si può rendere conto di quanto certe previsioni -apparentemente assurde- alla fine possano risultare credibili. E siccome è sempre facile parlare a fatti compiuti qualche sforzo meriterebbe di essere compiuto per cercare di prevenire fenomeni che un giorno possano essere considerati per lo meno imprevisti. Bisogna farsi quindi domande che di scontato non hanno nulla, cercando di rimuovere tabù che fino a poco fa si volevano consolidati. Cosa regge in piedi l’Unione Europea e in cosa si riconoscono i suoi cittadini? Dato che ogni realtà politica che vuole durare ha bisogno di ispirarsi a determinati principi sentiti dalla popolazione come basilari (Galasso, 2003, pp.127-137). Già all’inizio del III millennio le istituzioni europee erano percepite dalla metà dei cittadini degli stati membri come opache, distanti e inefficienti (Caiani e Della Porta, 2006, p.62). Il collasso della legittimità di questa costruzione disfunzionale è lo scenario più plausibile. Cos’è quindi l’Unione Europea e quali sono i suoi obbiettivi? Vederla come un insieme poco compatto di Stati accomunati dall’intento di avere un mercato e una valuta comune è una visione oramai superata da tempo, ma lo è anche l’idea di uno Stato di più nazionalità organizzato in maniera federale (Habermas, 2005, pp.53-62); rispondere a questa domanda non è cosa facile, ma nel frattempo bisognerebbe pure guardare agli effetti che tale processo porta con sé e chiedersi se il gioco valga la candela. Insomma, i mutamenti geopolitici producono sempre stravolgimenti anche violenti, e a farne le spese sono quasi sempre le persone comuni. Non è detto che questo debba essere accettato passivamente. Inoltre va detta una cosa: l’Europa in quanto tale non è mai stata unita, e ogni qualvolta lo si è cercato di fare con la forza i risultati sono stati disastrosi (Galasso, 2003, pp.127-137).

Un dato di fatto è che ancora oggi i cittadini dell’Unione Europea percepiscono la loro appartenenza nazionale come più forte rispetto a quella comunitaria, che praticamente è debolissima e non appare neppure chiara nelle sue prospettive. Guarda caso essa non ha neppure una lingua comune (Galasso, 2003, pp.127-137). A delegittimare ancora più questo organismo sovranazionale è il fatto che gli interessi nazionali sembra siano ancora fortemente alla base dei rapporti tra Stati dell’Unione. Infatti a questo si aggiunge che già nel 1991 risultava chiaro che fin dal 1957 convenisse proprio alla Germania l’apertura dei mercati europei (Neri Gualdesi, 1991, pp.43-83), o per lo meno sarebbe più corretto dire che per quanto riguarda l’export è quasi solo la merce tedesca, soprattutto in campo alimentare, ad essere presente nei mercati europei ai prezzi più concorrenziali, infatti lo si è visto anche nelle politiche economiche generali. Da vent’anni, i principali gruppi industriali tedeschi hanno condotto una vigorosa azione di internazionalizzazione dei loro prodotti e di riduzione dei costi di produzione sul suolo nazionale (Durand, 2010, pp.111-117).

La doppia crisi -economica e ideologica- che oggi investe l’Unione Europea e che ne ha messo in dubbio i meccanismi di governance per certi versi ricorda molto quella che travolse la Jugoslavia dopo la morte di Tito: compresa la polemica tra le aree ‘virtuose’ e quelle ‘dissipatrici’. Ma il fatto forse più preoccupante è che nel 1980 nessuno prevedeva che la Jugoslavia sarebbe esplosa, come oggi nessun autorità europea è disposta ad ammettere che un domani la situazione potrebbe sfuggire di mano pure in Europa (Bianchini, 2012, pp.311-318). Nonostante tutto ciò i vertici di Bruxelles -sempre più autoreferenziali- con compiacimento si autoconferiscono nobel della pace senza accorgersi che stanno creando le premesse per potenziali conflitti tra gli Stati europei.

I conflitti nei Balcani degli anni ’90, al pari delle guerre balcaniche che precedettero lo scoppio del primo conflitto mondiale, sono sintomatici di fenomeni che vanno captati subito, proprio per il potenziale distruttivo di cui sono spia. Molti storici infatti hanno il vizio di vedere analogie e ricorsi storici: le somiglianze tra collasso jugoslavo e crisi dell’eurozona sono molte. La necessità di ricordare la lezione jugoslava serve anche ad imparare a non fidarsi da un lato dell’aiuto teoricamente disinteressato degli americani, dall’altro quello di capire quanto la retorica dei diritti umani spessissimo venga utilizzata proprio per poter giustificare politiche di potenza, e quindi in certi casi va neutralizzata.

 

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Il ricorso a motivazioni di natura etica e morale o di supplenza dell’incapacità militare europea nei Balcani sono altrettanto importanti ma si basano su premesse che possono essere contestate, anche se in base ad una concezione di freddo realismo politico che nessun leader occidentale sottoscriverebbe mai in pubblico (Zannoni, 2001, p.112). La tragedia jugoslava e le violenze che continuano ad avvenire soprattutto in Kosovo a guerra ‘finita’ mostrano da un lato il lato più oscuro di come la geopolitica venga applicata spesso a danno delle persone; ma soprattutto rendono chiaro che quello che è successo nei Balcani un domani potrebbe essere sperimentato in Occidente se non si prendono le adeguate precauzioni. Ieri il cinismo americano ha rovinato la vita a centinaia di migliaia di slavi, perché un domani questo non dovrebbe avvenire in Italia?

Gli aspetti della crisi economica che ha investito la Jugoslavia hanno fatto in modo che il debito estero toccasse i 20 miliardi nel 1989, il che provocò un’inflazione esorbitante, la caduta del valore del dinaro, un enorme ridimensionamento del tenore di vita e la frapposizione tra aree più ricche e più povere; già negli anni ’70 le autorità jugoslave avevano deciso di ricorrere ai prestiti stranieri (Bianchini, 1991, pp.171-224). Evidentemente il modello che Tito ha lasciato in eredità era tutt’altro che perfetto, con circa due milioni di burocrati dell’autogestione (Cviic, 1993, p.93), in sostanza una vera e propria casta parassitaria, e un intero sistema sostanzialmente dipendente dagli ‘aiuti’ occidentali: quest’altro fattore poi portò alla creazione in Jugoslavia di aree ricche e sviluppate (Slovenia, Croazia, Serbia settentrionale, Vojvodina), ma anche di intere regioni sostanzialmente depresse e prive spesso di fonti di occupazione (Kosovo, Macedonia, e in parte la Bosnia Erzegovina). Intanto cresceva il malcontento da parte delle Repubbliche più ricche per gli ‘aiuti’ da fornire alle aree depresse, e al contempo quest’ultime si sentivano fortemente penalizzate dallo stato centrale (Marcon, 2000, pp.71-73). La Jugoslavia ha dovuto affrontare, a partire dal 1981, un movimento nazionalista albanese in Kosovo che, di fatto, ha messo in moto un infernale meccanismo a catena, rivelatosi in grado di scatenare, progressivamente, tutti i nazionalismi del paese (Bianchini, 1991, pp.171-224). A dicembre del 1990 in Slovenia fu fatto un referendum che sancì l’indipendenza del nascente stato; il conflitto che ne seguì fu breve e quasi indolore. Non fu così invece per quanto riguarda la Croazia (Franceschini, 2011, pp.30-32). In mezzo a queste due date intanto il paese aveva conosciuto spinte centrifughe di ogni tipo, per altro appoggiate spesso dall’estero.

 

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Se dovessimo fare due più due l’analogia con l’attuale situazione europea è molto forte: sia nella Jugoslavia di ieri che nell’Unione Europea di oggi il collante ideologico era praticamente morto e sepolto (il comunismo titino e l’europeismo democratico), l’emigrazione era tornata ad essere uno sbocco per un numero impressionante di disoccupati delle repubbliche più tramortite dalla crisi, ma soprattutto da ogni parte ci si sentì paralizzati ed affossati dallo Stato centrale jugoslavo, furono quindi frequenti le manifestazioni di insofferenza [1]. Le misure attuate per saldare i ‘debiti’ con l’Occidente a poco a poco erosero risorse allo stato centrale e contribuirono a smantellare lo stato sociale (Bianchini, 2012, pp.311-318). Intanto la Jugoslavia ricorse agli ‘aiuti’ del FMI e proprio con tale organismo si indebitò pesantemente; oltre a ciò utilizzò gli ultimi ‘aiuti’ provenienti da quest’organizzazione per attuare ‘riforme economiche’ volte a far calare l’inflazione, privatizzare i mezzi di produzione e liberalizzare i mercati (Marcon, 2000, p.77). Ovviamente il malcontento delle repubbliche federate aumentò a dismisura: con l’avvento degli anni ’90 in pratica da un lato era crollata la fiducia nel socialismo jugoslavo e al contempo le forze nazionaliste divennero le principali formazioni politiche, questo fece sì che tutte le formazioni, per lo più riformiste, legate ad un ottica multietnica perdessero ovunque consensi. Già nel ’91 sia agli sloveni che ai croati erano pervenute armi ed uniformi dai Paesi occidentali e dai Paesi occidentalizzati di recente (ex Patto di Varsavia); a giugno di quello stesso anno le rispettive autorità locali votavano l’indipendenza e si rifiutavano di pagare i tributi allo stato jugoslavo. Il caso sloveno durò poco e il conflitto per la sua indipendenza fu quasi indolore, anche perché a Belgrado non interessava mantenere il dominio in quella regione -dove peraltro la percentuale di serbi era quasi inesistente-, non fu così invece per la Croazia, che ospitava al suo interno migliaia di serbi. L’Occidente come sappiamo decise chi appoggiare e chi combattere, ma soprattutto chi criminalizzare e chi invece ergere a paladino della libertà. L’indisponibilità della Serbia all’indipendenza della Bosnia Erzegovina [2] poi portò al conflitto che si dispiegò di lì a poco tempo. Le analogie con la situazione europea sono troppe: volendo fare fantastoria mi chiederei fino a che punto un domani la Germania potrebbe accettare che pezzi dell’Unione Europea si proclamino indipendenti da essa, e fino a che punto queste rotture potrebbero essere pacifiche.

La questione dei conflitti che hanno sconvolto il mondo jugoslavo per tutti gli anni ’90 rappresentano una lezione da non dimenticare; ma non si può non tenere in considerazione le modalità con le quali due attori hanno agito in questo contesto: prima la Germania che fino agli anni ’90 ha appoggiato il separatismo croato [3], sia l’attivismo americano che ha demonizzato il governo di Milosevic, imputandogli colpe talvolta esagerate ad arte e nascondendo le malefatte di tutte le altre minoranze per portare avanti l’antico insegnamento del dividi et impera. I metodi con cui vengono adottate certe decisioni sono generalmente diversi dal modo con cui esse vengono motivate per suscitare il consenso dell’opinione pubblica nazionale e del contesto esterno (Jean, 2003, p.19). Intanto alcuni Stati europei non si limitarono solo a favorire apertamente il separatismo delle repubbliche secessioniste, ma cercarono chiaramente di distruggere lo Stato jugoslavo con misure chiaramente discriminatorie da un punto di vista economico. Dopo di che iniziarono ad avere un ruolo sempre più forte nell’area gli Usa (Marcon, 2000, pp.108-113), che anziché stabilizzare la situazione l’hanno solo aggravata ulteriormente. Il crollo del sistema albanese ha rappresentato per l’Italia un evidente problema sociale, criminale e di stabilità e ha esercitato forti pressioni sulle sue regioni adriatiche. Ciò acuiva la conflittualità nei Balcani e questo, per il nostro paese, rappresentava un grosso rischio. Tale situazione era vissuta e percepita in maniera assai più distaccata da altri Stati come, ad esempio, la Gran Bretagna (Silvestri, 2003, pp.112-124). Le finalità delle guerre prima in Bosnia e poi in Kosovo teoricamente sono state umanitarie, poi di fatto gli interessi prevalsi sono stati più pragmatici, ossia il controllo dei corridoi petroliferi che collegano Caucaso e Mar Caspio all’Europa meridionale (Clementi 2002, pp.102-106).

Il caso balcanico rappresenta il fallimento dell’Occidente, della sua presunta capacità di poter arbitrare i conflitti, esprime anche la fine dell’idea che le società multiculturali possano sempre vivere in pace e soprattutto mostra chiaramente che l’America non mira al bene degli europei, ma li usa soltanto ai suoi scopi. Inoltre quanto sia pericoloso l’irredentismo albanese, quanto sia destabilizzante per l’Europa dell’est e quanto sia manipolabile dalla politica americana lo dimostra anche il fatto che non solo gli albanesi sono la maggioranza nel paese omonimo e nella regione del Kosovo, ma che essi rappresentino 1/3 della popolazione di un altro paese europeo destabilizzato di cui non sentiamo mai parlare i nostri giornalisti: la Macedonia (Colombo, 2001, p.35), quest’ultima, vero e proprio Stato ombra vive in una situazione poco chiara, divisa tra la tendenza a divenire un narcostato come l’Albania e neo ottomanismo, inutile dire che il controllo americano su quest’area è ben presente e che essa sia giudicata un’area di influenza geopolitica a stelle e strisce, altro fattore destabilizzante per l’Europa e gli stessi Balcani.

E’ ovvio che gli Usa hanno esteso negli anni ’90 ai Balcani la propria area di influenza geopolitica: insomma nulla di quello che è avvenuto durante l’ ‘intervento umanitario’ in realtà ha a che fare con gli interessi dei paesi europei (Colombo, 2001, p.52), tranne che dell’Albania odierna, nuovo zelante alleato dell’America dall’economia poco trasparente. Quello che non sono riusciti a fare durante tutta la guerra fredda, gli Usa sono riusciti a farlo con la caduta di Milosevic, cioè far diventare i Balcani l’ennesima zona sotto il proprio controllo. Nel ’95 la Nato si schierò apertamente con i musulmani di Bosnia e con i croati; quattro anni dopo non cercò neppure l’approvazione dell’Onu per procedere con i bombardamenti su quello che rimaneva della Jugoslavia (Colombo, 2001, p.20).

Qualcuno potrebbe pensare che il caso delle guerre nella penisola balcanica non c’entrino nulla con la situazione europea odierna: ma è troppo semplicistico pensare che un domani in uno scenario nel quale alcuni Stati vorrebbero tornare alle proprie prerogative nazionali non si inserirebbero attori esterni, sfruttando il mai passato di moda ‘divide et impera‘.

 

 

* Gabriele Bonfiglio laureato nel 2013 in Studi Storici presso l’Università degli studi di Palermo; ha svolto una tesi dal titolo ‘Eurasia-prospettive geopolitiche di un’Europa proiettata ad Oriente’. Nel lavoro sono analizzate le odierne dinamiche geopolitiche mondiali e soprattutto occidentali; scopo del lavoro di ricerca compiuto è stato quello di capire verso dove sta andando il mondo europeo, quali pericoli esso corra, con uno sguardo critico a determinate logiche consolidate nel tempo.

 
 
 

Bibliografia

 

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[1] Alla morte di Tito erano gradualmente emerse tendenze di ‘nazionalismo economico’ (Bianchini, 1991, pp.171-224).

[2] Questa regione storicamente era popolata soprattutto da croati, serbi e ‘musulmani bosniacchi’; quest’ultimi per altro storicamente non ebbero mai un’identificazione etnica ben precisa, ma utilizzarono come proprio collante identitario proprio l’Islam: essi probabilmente erano in maggioranza discendenti dei bogomili, antica setta eretica medievale, che dopo l’occupazione ottomana per lo più si converti all’Islamismo.

[3] Il ruolo svolto dalla Germania nella distruzione della Jugoslavia è comprovato; oltre che lo stesso ruolo del Vaticano nel separatismo di popoli cattolici come sloveni e croati (Marcon, 2000, p.105).


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