L’assetto politico e sociale del Perù è turbato in questi giorni da violente contestazioni che coinvolgono le principali aree minerarie del Paese.
Giorni fa la statunitense Newmont – società mineraria statunitense – aveva annunciato un rallentamento nei suoi progetti di implementazione della miniera di Conga (nella regione di Cajamarca evidenziata in rosso nella mappa) a causa delle garanzie richieste dal governo di Humala sul rispetto del fabbisogno idrico della popolazione presente nell’area e sulla tenuta di determinati vincoli ambientali. In realtà, la stessa Newmont ha garantito la continuità del proprio progetto, che rappresenterebbe il più grande investimento minerario nel territorio peruviano (4800 milioni di dollari), circoscrivendo il rallentamento al biennio 2012-2013.
Ma la questione che si pone in evidenza tra lunedì (28/05) e martedì (29/05) è quella scaturita dal presunto inquinamento idrico ed ambientale causato dal complesso minerario appartenente alla svizzera Xtrata. La società elvetica che controlla l’estrazione mineraria nei principali giacimenti delle regioni di Cuzco (Tintaya, Espinar, Cuzco – la regione nel suo complesso è evidenziata in verde nella mappa), è stata accusata di essere responsabile dell’inquinamento fluviale dell’area. Da ciò si evidenzia come, nella fattispecie, non sia il tema della disoccupazione a creare attriti sociali bensì il tema ambientale. Gli scontri di lunedì d’altra parte, suggeriscono un’analisi stratificata volta ad addentrarsi progressivamente sin dentro alla spinosa questione ambientale.
Primo atto: azioni e conseguenze dei fatti di Espinar
I dissidi ambientalisti sono sfociati lunedì scorso in una violenta protesta nella zona di Espinar (indicata con una stella nella mappa). I manifestanti hanno preso d’assalto lo stabilimento minerario provocando gravi disordini sia nell’interland che a livello di viabilità. La protesta è degenerata quando alla marcia si è opposto lo schieramento di forze dell’ordine: il bilancio riporta due vittime civili e 76 feriti tra poliziotti e manifestanti.
La risposta del governo centrale non si è fatta attendere ed il presidente, Ollanta Humala, ha indetto lo stato di emergenza per le province interessate. L’articolo 137 della Costituzione peruviana prevede che tale decreto può interessare, per un determinato periodo, tutto il territorio nazionale o parte di esso. Inoltre prevede che “lo stato di emergenza è previsto nel caso di turbamento dell’ordine interno e della pace, di un disastro o di una situazione grave che riguarda la vita della nazione. In questa eventualità, può essere limitato o sospeso l’esercizio dei diritti costituzionali di libertà e sicurezza personale, l’inviolabilità del domicilio e la libertà di riunione e di transito attraverso il territorio”. Infine, la stessa Costituzione, pone dei limiti temporali allo stato di emergenza – non oltre i 45 giorni e il prolungamento prevede l’approvazione da parte del Congresso – ed inoltre dà al Presidente della Repubblica la possibilità di valutare se assegnare il controllo alle Forze Armate per il periodo di emergenza nell’area in oggetto.
Ecco quanto ne scaturisce per la zona di Espinar nel sud della regione di Tuzco: Stato di Emergenza di 30 giorni sotto il controllo delle Forze Armate.
Secondo atto: la coercizione alla protesta
Dalle testimonianze raccolte dal quotidiano peruviano La Republica , sembrerebbe che una parte dei manifestanti abbia esercitato non poca pressione nei confronti degli abitanti e commercianti della zona di Espinar al fine di obbligarli a prender parte alla contestazione. Sembrerebbe che sulle prime, parte dei civili si dimostrava restia ad opporsi alla Xtrata per via degli investimenti che questa aveva fatto nell’area portando benefici generali alla comunità stessa. A questi si sono imposti gli ambientalisti che accusano la società elvetica di scarsi investimenti sulla sostenibilità ambientale dell’impianto, hanno “obbligato” gli astenuti ad appoggiare la manifestazione.
Le rivendicazioni contrastano però con quanto certificato da diversi controlli sull’inquinamento delle acque ossia i livelli massimi di contaminazione nell’area risultano nei limiti consentiti.
Terzo atto: l’intervento governativo
Nonostante l’emanazione dello stato di emergenza, nel complesso, possiamo constatare una scarsa reattività politica di Humala e del suo esecutivo nella questione riguardante la regione sud peruviana. I gruppi locali chiedono da tempo un’incontro di mediazione con una rappresentanza governativa che ancora tarda ad arrivare. L’intenzione è quella di richiedere l’intervento istituzionale quale garante di un dialogo costruttivo con la Xtrata. L’obbiettivo sarebbe quello di ottenere un maggiore sforzo elvetico nell’investimento sull’ecosostenibilità dell’impianto – nella fattispecie la stessa società elvetica dichiara che trattandosi di un impianto a circolo chiuso, l’inquinamento è ridotto al minimo senza alcun versamento di acque contaminate nei fiumi circostanti.
L’atteggiamento del presidente contrasta con quanto precedentemente avvenuto nella regione di Cajamarca dove lo stesso aveva chiesto alla statunitense Newmont, sia garanzie sulla sostenibilità ambientale dell’implementazione dell’impianto di Conga, sia garanzia sulle scaturenti disponibilità idriche per la popolazione dell’area.
Quarto atto: il settore minerario in Perù
Il settore minerario rappresenta circa il 10% del PIL nazionale dando occupazione ad oltre 500 mila peruviani – includendo il lavoro nelle miniere illegali. Nello specifico il Perù detiene il 4% delle riserve auree del pianeta, servendo 14 mercati tra i quali si mettono in evidenza quello statunitense, svizzero e canadese. L’attuale esecutivo ha in programma 164 progetti ripartiti tra implementazione, costruzione ed esplorazione nelle diverse aree del Paese per un totale di oltre 53.000 milioni di dollari americani. Ciò contribuisce ad un tasso di crescita dell’economia del 6% – previsioni per il 2012 del Ministro dell’Economia e delle Finanze peruviano Luis Miguel Castilla. Vi è però una ripartizione da fare: sul territorio ovviamente non esistono solo miniere nazionali, ma anche e soprattutto società straniere – vedi quelle citate ad esempio nel presente articolo – che controllano i giacimenti più redditizi.
Riflessioni
Evitando il giudizio in merito alla contrapposizione tra ambientalismo ed implementazione dei siti, ci interessa soffermarci sull’atteggiamento attuale e prospettico del governo Humala.
Il Presidente si trova attualmente nel crocevia delle relazioni internazionali dalle quali scaturirà il percorso futuro della Nazione. Ovviamente il percorso più plausibile è quello della continuità dell’attuale politica che prevede sostanzialmente la coesistenza tra capitale straniero e capitale peruviano nei principali settori economici del Paese – come lo è nel settore minerario. Tale condotta permette al Paese di sostenere una pseudo crescita simile a quella cilena, ma che nel complesso mitiga una disuguaglianza sociale interna reale.
L’alternativa, lontana, ma non impossibile sarebbe un “allineamento” all’ideologia bolivariana che ha coinvolto chi più – in primis il Venezuela e la Bolivia – chi in modo più moderato come l’Argentina. Tale costruzione politica porterebbe Humala a considerare un processo di nazionalizzazione dei settori strategicamente importanti per l’economia peruviana. Ovviamente, tra questi, figura il settore minerario che potrebbe ritrovare una regolamentazione ed una gestione più equa dal punto di vista interno del Paese. La stessa nazionalizzazione permetterebbe un miglioramento delle condizioni lavorative e salariali ed allo stesso tempo migliorerebbe di gran lunga la bilancia commerciale nazionale. In seconda analisi tale meccanismo consentirebbe una maggiore conciliazione tra sviluppo e preservazione dell’ambiente visto che entrambe figurerebbero nelle priorità della società controllante: lo Stato.
Ci permettiamo in fine una terza opzione ottenibile dall’interazione delle precedenti ipotesi: una politica vicina a quella brasiliana, ossia che propone molto probabilmente il giusto equilibrio tra interessi nazionali e flusso di capitali stranieri. Il Brasile difatti non si è precluso l’interscambio internazionale, ma allo stesso tempo, dal governo Lula in poi, ha volto lo sguardo all’interno del Paese cercando di creare una struttura legislativa volta a soddisfare le necessità della popolazione stessa. Con tale opera, non facile nella sua realizzazione, San Paolo, evitando una logorante politica assistenzialistica, ha costruito fondamenta solide per l’economia del Paese – ovviamente parliamo di una programmazione in stato di svolgimento e che deve ancora ottenere i suoi massimi risultati.
* William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)
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