Il lettore avrà notato che manca il ‘via’. È la sensazione che si ha dando un’occhiata all’economia turca. Anzi, in realtà, più che una mancata partenza, sarebbe più corretto parlare di falsa partenza, e chi ha familiarità con il mondo dell’atletica leggera converrà che la metafora rende bene l’idea.
Scorrendo complicati indici economici si apprende che, negli ultimi tempi, la Turchia ha attraversato una crescita incredibile, talmente incredibile al punto che non ci si crede. È un gioco di parole, d’accordo, ma realmente gli economisti non pensano, non credono – appunto – che possa durare.
La crescita e i suoi freni
Sebbene le previsioni fissassero al 9% il tasso di crescita che sarebbe stato raggiunto quest’anno, la realtà potrebbe deludere tali prospettive; anzi, il condizionale sembra superfluo.
Contrariamente alle aspettative degli esperti, l’inflazione ad agosto è aumentata1 e il Purchasing Managers Index2 rivela che è in corso una continua contrazione dell’economia, che rimane regolarmente al di sotto del livello neutrale di 50, e che tale ‘irrigidimento’ è accompagnato da una produzione industriale diminuita dello 0.9 % da luglio, dopo che i sei mesi precedenti erano stati parimenti caratterizzati dal segno meno.
Eppure, la Turchia non si trova sull’orlo di un burrone e non sta aspettando che qualcuno la spinga: il Fondo Monetario Internazionale aveva stimato una crescita per l’anno in corso superiore di uno 0.8 % rispetto a quella di solo un anno fa, la cui percentuale era già di tutto rispetto (8 %).
Gli ultimi anni dell’economia turca hanno seguito un andamento da montagna russa: le azioni hanno perso più del 50% del loro valore nel 2008, il 2009 ha fatto registrare una ripresa formidabile che a sua volta ha preparato i nuovi picchi degli anni successivi – nel 2010 hanno segnato il terzo tasso di crescita più veloce tra tutti i paesi del G 20 – per poi tornare ad un rallentamento agli inizi del corrente anno, diventato arresto all’ inizio dell’estate.
A questo però, bisogna affiancare il dato non di poco conto che non una banca è fallita dall’inizio di queste crisi ravvicinate e devastanti per tutto il mondo occidentale; a tale proposito il governatore della banca centrale turca, Erdem Basci, vuole essere cauto, ed a ragione: ‘la Turchia è una barca ferma, il mare è mosso e una tempesta può erompere da un momento all’altro’, ha dichiarato.
Se ne rendono conto anche a Londra: un economista della Goldman Sachs, lungamente fiducioso nello sviluppo positivo della Sublime Porta, ha dichiarato invece quest’anno che il quadro (turco, ma non solo) si presenta piuttosto malmesso, e ciò è dovuto agli squilibri che si stanno accumulando e alla vulnerabilità finanziaria che sta crescendo.
Perché?
La Turchia è un paese in via di sviluppo. Quando questo termine fu creato trent’anni fa da Antoine van Agtmael, questi paesi producevano un terzo del Prodotto Interno Lordo mondiale; ora, ne producono la metà e più dei quattro quinti della crescita reale del PIL mondiale. Oltre a queste cifre da capogiro, questi paesi hanno anche altri fattori che li accomunano: inflazione, interessi bancari galoppanti e ingenti afflussi di capitale.
Questi elementi sembrano suggerire che tutte le economie dei suddetti paesi si stiano surriscaldando, ma in realtà non è giusto fare di tutt’erba un fascio; come sempre, c’è chi sta meglio e chi sta peggio.
Il surriscaldamento di un’economia si determina sulla base di sei fattori i cui risultati vengono poi sommati per produrre un indice complessivo; 100, come lo schema dimostra, significa che l’economia è surriscaldata sulla base di tutti e sei gli elementi presi in considerazione.
L’inflazione, primo degli indicatori considerati, è cresciuta più velocemente, anche se non uniformemente, nei paesi in via di sviluppo piuttosto che in quelli sviluppati; questo è riconducibile all’alto prezzo dei beni di prima necessità, cibo in primis, che pesano in maniera più considerevole nel paniere dei beni di consumo di un paese in via di sviluppo rispetto ad un paese del cosiddetto primo mondo.
Il secondo indicatore misura la capacità di risparmio confrontando il tasso di crescita del PIL di un determinato paese dal 2007 con quello dei dieci anni precedenti. Il potenziale di crescita di una certa economia può sicuramente aumentare nel corso del tempo, grazie alle riforme per esempio; tuttavia, un mercato del lavoro chiuso e stagnante – che rappresenta il terzo indicatore – palesa che in realtà la crescita è avvenuta in modo eccessivamente veloce, e pertanto è insostenibile.
Il quarto indicatore è il credito bancario eccessivo, che può essere la causa di bolle economiche e/o inflazione. Lo strumento più adatto che denuncia un eccessivo credito è la differenza tra la crescita del tasso di credito bancario e il PIL nominale; per una banca, specie in un paese in via di sviluppo, è naturale prestare denaro per crescere più velocemente del PIL man mano che si sviluppa il settore finanziario; in alcuni paesi però, tra i quali figura la nostra Turchia, il credito sta oltrepassando in modo preoccupante il tasso di crescita del PIL.
Il quinto indicatore è il tasso d’interesse reale, che è negativo in circa la metà delle economie prese in esame, dato che non è appropriato per un’economia che cresce rapidamente perché in tal modo si alimenta l’ inflazione, tra le altre cose.
L’ultimo fattore che contribuisce a far salire la temperatura economica è il debito estero: un ampio deficit di bilancio è un classico indice di surriscaldamento dell’economia.
La Turchia, secondo un esperto dell’Economist, non è in una situazione disperata ma gli indicatori lampeggiano pericolosamente sul colore più acceso.
La Turchia e l’Europa
Ahinoi, sappiamo bene quale sia la situazione nel vecchio continente, ma ne sono consapevoli anche in tutti gli altri paesi del globo; tra questi la Turchia, che si preoccupa per noi, ci guarda con apprensione: ‘lo stiamo dicendo da mesi, l’Europa non vuole scegliere’. Ha ragione ad essere preoccupato il Primo Ministro turco: se la crisi peggiora ulteriormente, il tutto potrebbe avere ripercussioni anche sull’economia del Bosforo – che tra i suoi problemi non annovera un debito pubblico da capogiro – per cui l’obbiettivo è diventato evitare il rischio recessione.
Se un certo nervosismo o impazienza è percepibile nell’atteggiamento delle alte sfere turche è dovuto principalmente all’ incapacità dimostrata dai leader europei di evitare che la crisi dei debiti coinvolga i mercati a livello mondiale. Sarà superfluo sottolineare come questo non solo è plausibile ma, come dimostrano gli ultimissimi anni della finanza mondiale (gli USA docent in particolare), è assolutamente certo: se un’entità politico – economica come l’Europa viene travolta da una grave crisi, quest’ultima avrà ripercussioni a livello globale; in un 2011 oramai globalizzato, è ineluttabile.
L’indifferenza paga
Partendo dalla situazione appena descritta – che non possiamo definire propriamente di boom economico – e collocando la Turchia su un planisfero, si capisce la motivazione che soggiace alla scelta del titolo.
La vicina Siria ormai da qualche mese è bagnata dal sangue dei suoi stessi cittadini e la Turchia non ci sta; esponenti del governo hanno dichiarato che il paese non ha intenzione di rimanere indifferente al massacro in corso e, per cominciare, si stanno valutando le modalità e la tempistica per costituire una buffer zone al confine.
L’ultima volta che Ankara ha avuto uno scontro con il suo vicino meridionale è stato nel 1998 quando minacciò di invaderlo se non avesse rilasciato Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori del Kurdistan, fazione dichiarata fuori legge. La Siria ha ceduto e da allora le relazioni tra i due paesi sono sbocciate: il traffico commerciale è più che triplicato nel volume, i visti sono stati aboliti e gli incontri tra gli esponenti del governo dei due paesi avvengono spesso e volentieri, come comunemente si direbbe.
Naturalmente, questa mossa ha avuto importanti conseguenze a livello internazionale per la Sublime Porta: non soltanto ha potuto rivestire un ruolo di mediatore tra Damasco e Tel Aviv – salvo poi veder andare tutto in fumo in seguito all’attacco sulla Striscia del 2008 – ma soprattutto ha permesso a qualcuno di sperare che il binomio Erdogan – al-Assad potesse portare quest’ultimo fuori dall’orbita di Ahmadinejad, il vicino che nessuno vorrebbe avere, e mettere il governatore alawita sulla strada di una riforma politica profonda.
L’atteggiamento turco nei riguardi di ciò che sta succedendo in Siria sembra essere diverso da quello occidentale, nonostante non se ne discosti nelle apparenze; infatti, mentre da questa parte del mondo (l’Occidente) gli stati non sembrano intenzionati ad andare troppo oltre la via diplomatica e le parole di biasimo o ammonimento che, però, potrebbero rivelarsi poco efficaci – per usare un eufemismo – quelle della Turchia sembrano davvero essere parole di avvertimento prima che si proceda a qualcosa di più impegnativo.
Le posizioni assunte ultimamente da Erdogan, del resto, non fanno dormire sonni sereni ai capi di stato occidentali: sebbene abbia acconsentito ai piani NATO per uno scudo missilistico che è chiaramente anti – Iran, la mossa immediatamente precedente a questa sullo scacchiere internazionale è stata quella di opporsi all’imposizione di ulteriori sanzioni all’Iran. Non che le motivazioni alla reticenza del presidente turco a confrontarsi con Teheran siano completamente prive di fondamento: rappresenta il suo maggior fornitore di gas naturale e il principale sbocco delle sue esportazioni in Asia centrale.
Per queste motivazioni, e perché richiederebbe un costo non indifferente, forse la Turchia sta ancora esitando nell’intervenire; del resto, oltre ad un accresciuto prestigio a livello internazionale e maggior potere nell’area, ci si chiede quali possano essere le motivazioni che soggiacerebbero ad una tale decisione.
Perché, come la politica internazionale ci insegna, ma non solo quella internazionale, gli uomini di potere non si muovono mai per pietas.
* Paola Saliola è dottoressa in Lingue e civiltà orientali presso l’Università La Sapienza di Roma
1 Soltanto un mese fa la lira turca ha raggiunto il valore più basso dal marzo 2009, con il cambio fissato a 1.5 rispetto al dollaro.
2 L’indice PMI è l’acronimo di Purchasing Managers Index. Indice sintetico del Napm, ne include cinque componenti destagionalizzati: nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte. È un sondaggio che viene compiuto su un campionario, in ogni paese, sui responsabili d’acquisti (o professionisti che hanno responsabilità simili) delle aziende (nel settore manifatturiero, edile e terziario). Vengono monitorate variabili quali il livello di produzione, nuove commesse, impiego e prezzi.
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