Sono dichiarazioni del prof. Simonoff, riportate nella presentazione all’opera di recente uscita “Imperialismo e rivoluzione latinoamericana” di Giovanni Armillotta (Aracne Editrice, Roma, 2011). Armillotta è direttore dell’autorevole rivista Africana e collabora come studioso alle due più importanti riviste italiane di geopolitica, Limes ed Eurasia. Nell’opera in questione, l’autore mette a frutto le sue conoscenze come cultore di Storia delle Americhe; il risultato è un lavoro pregevole che ci porta a sottoscrivere le affermazioni di Simonoff sopra riportate.
Sin dall’introduzione il lettore potrà trovare interessanti premesse concettuali, sicuramente non convenzionali. Anzitutto, il rifiuto del mito della “neutralità” negli studi di scienze sociali, almeno se intesa – scrive l’autore – come “irresponsabilità sociale”, “scientismo pseudo-scientifico” e “reazione”; per contro, “alla luce dei crimini, dei misfatti e di quel sangue colato con cui sono scritti i documenti, sostenere la causa di oppressi e sfruttati dell’America Latina è compito primario” (p. 13); il lettore si accorgerà presto che una simile presa di posizione è un’onesta dichiarazione d’intenti (di contro a tanta letteratura di argomento affine che nasconde uno strisciante ideologismo, dietro tanto decantata “obiettività”) che però non travalica mai i confini del rigore nella ricostruzione e nell’analisi delle questioni trattate.
L’opera in sé – ripercorrendo le vicende dei fenomeni antimperialisti dell’area – per forza di cose si presenta come una denuncia dei crimini e delle ingerenze dell’imperialismo, compiute dai centri di potere legati a Washington in maniera diretta o per procura. Ma, si badi, Imperialismo e rivoluzione latinoamericana rappresenta al tempo stesso “una rilettura marxista slegata da obbedienze partitiche”, come giustamente recita la quarta di copertina del libro. Una libertà da vincoli tutt’altro che scontata, dato che in passato la lettura dei fermenti rivoluzionari sudamericani è stata ampiamente distorta, da parte di quei comunisti nostrani fedeli al “politicamente corretto” dettato da Mosca. Al riguardo, con parole colorite ed efficaci, Giovanni Nappi scrive che per un “piccì moscovita istituzionale” si è dovuto per anni, “dal patto Johnson-Kosygin (1967) in poi, considerare le contraddizioni, le lotte e la guerriglia quali correggibili fenomeni ormonali e non di classe”[1]. Armillotta, per contro, inquadra in maniera coerente il fenomeno della risposta antimperialista sudamericana nelle sue diverse espressioni e non fa sconti ai compromessi cui gli stessi partiti comunisti sono scesi nella storia recente dell’area; ciò vale per tutte le volte in cui i p.c. locali hanno di fatto frustrato o finanche sabotato l’opera delle forze più sinceramente antimperialiste, macchiandosi di ignavia e ‘caccia alla poltrona’ nel migliore dei casi, di vera e propria connivenza col crimine nei peggiori. D’altronde, simili questioni riportate nel testo rientrano – come spiega l’autore – entro un più ampio fenomeno continentale di adeguamento delle forze comuniste filo-sovietiche locali alla distensione dei rapporti USA-URSS e alla spartizione delle sfere d’influenza fra le due potenze, oltre che ai crescenti interessi commerciali dell’URSS nell’area. Fenomeni geopolitici che uniti ad altri particolari fattori[2] spingeranno spesso i p.c. ad atteggiamenti colpevoli nelle forme sopra ricordate. Ed inoltre l’autore ricorda che simile fenomeno di normalizzazione dell’attività politica delle forze comuniste non ha semplicemente valenza continentale bensì globale, trovando le sue radici nel XX Congresso del PCUS (1956), quando si decise di spingere i p.c. locali ad una politica gradualista e parlamentarista che rifiutasse, in sostanza, l’insurrezionalismo armato. In questo contesto, Armillotta non risparmia aspri attacchi alle forze comuniste occidentali, passate gradualmente e inesorabilmente da un asservimento ad un altro: da quello nei confronti di Mosca a quello nell’orbita atlantica. Ma l’ interessante argomento esula dalla materia trattata ed infatti l’autore, oltre agli sparsi cenni nel testo, ha dedicato alla questione un’opera specifica[3].
Crollata l’URSS, e venuta meno quindi l’esigenza di compiacere Mosca, resta comunque valida oggi l’esigenza di maturare interpretazioni slegate dal più stretto dogmatismo marxista (specialmente dalle univoche e cristallizzate interpretazioni di molti ‘discepoli’ di Marx), ma anche da questo punto di vista l’opera è ben lontana da certi impacci ideologici. A titolo di esempio, dovrebbe essere ormai noto (o almeno ci si augura lo sia) che serrare i movimenti rivoluzionari sudamericani entro le rigide maglie della “lotta di classe” è cosa lontana dalla realtà. Su tutte valga l’esperienza cubana: “una rivoluzione con il proletariato tradizionale a rimorchio, anziché alla testa” dalla quale maturò “la scelta castrista di non considerare prioritaria la lotta di classe all’interno della rivoluzione per far ricorso invece al concetto di popolo, quale agente storico privilegiato in un contesto condizionato soprattutto dal pesante sfruttamento statunitense” (p. 46).
Se dunque emerge da questa “rilettura marxista” un discrimine politico, esso è dato dalla differenza qualitativa fra forze politiche antimperialiste da un lato e quelle ‘collaborazioniste’ in favore di potenze esterne (U.S.A. in primis, evidentemente) dall’altro; con tutte le conseguenze che nelle più disparate vicende hanno accompagnato quasi costantemente l’affermazione delle une o delle altre[4]. Non interessa invece all’autore una lettura legata alla contrapposizione destra/sinistra, ed anzi il testo offre diversi spunti per neutralizzare una dicotomia che diventa particolarmente sterile nell’ambito degli argomenti trattati. Esempio interessante è dato dalla critica ad una vulgata troppo disinvolta nell’attribuire il bollino di “fascismo” allo stesso modo ai regimi militari cileno, peruviano e peronista mentre la lettura del testo rende chiara – qualora non lo fosse già al lettore – la grande differenza qualitativa, sempre in un’ottica antimperialista, fra l’esperienza militare peruviana e peronista da un lato e quella del regime di Pinochet dall’altro. Su queste ed altre, collegate questioni Armillotta lascia il campo alle valide riflessioni di Franco Cardini, il quale si chiede fra l’altro se i numerosi richiami al regime mussoliniano nel contesto latinoamericano “non siano usati più come parole magiche, a scopo di deterrente nella lotta politica interna ed internazionale”. Ed un simile gioco di screditamento mediante definizioni (pseudo-)politiche continua ancora ai giorni nostri, quando alle forze governative latinoamericane più scomode si applica il bollino di “populiste”, come ricordato nel testo a proposito dell’attuale corso politico venezuelano.
E il lettore più avveduto potrà intuire come proprio l’esperienza venezuelana sia imprescindibile nel trattare delle espressioni contemporanee della lotta contro le ingerenze esterne, per l’autodeterminazione nazionale e continentale. Ma più in generale l’affermarsi di governi autonomi da Washington e orientati a modelli di sviluppo non liberisti, la crescita esponenziale delle forme di cooperazione Sud-Sud, la presenza di un gigante (il Brasile) che è parte integrante di una realtà multipolare in fieri (BRICS), sono tutti elementi che porrebbero le basi per una emancipazione continentale dal “Grande Vicino”. Oramai si può affermare giustamente, mutuando un’efficace espressione di Tiberio Graziani, che l’ “America indiolatina non è più il “territorio di caccia” degli USA, utile per le sue scorribande imperialistiche, come nel secolo scorso”[5]. Armillotta ci ricorda in ogni caso che gli eventi succedutisi in questi ultimi anni “sono ancora cronaca e non storia” e per questo pone interrogativi di grande interesse sul futuro dell’area a partire da quelle specificità storico-politico-culturali che ne hanno costituito parte costitutiva del recente e remoto passato. Il futuro dell’America Latina è insomma cosa seria e complessa, e che di certo non può riporre aspettative su formazioni politiche sedicenti rivoluzionarie ma quanto mai ambigue ed inconcludenti. Al riguardo, l’autore non fa alcuno sconto al famigerato EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), anzi il capitolo ad esso dedicato è eloquentemente intitolato La “rivoluzione zapatista” da operetta e qui Armillotta raggiunge picchi di vena polemica e sarcasmo. Evidentemente l’autore non tollera – appunto – la banalizzazione del fenomeno rivoluzionario operato da tale formazione politica, i cui frutti concreti sembrano caratterizzati da nulla più che un misto inconsistente di folklore ed istrionismo. Una realtà – aggiungiamo – che forse potrà aver avuto un certo successo con il fu popolo di Seattle e che potrebbe destare simpatia presso gli attuali indignati o qualunque altra moltitudine à la Negri, se solo la sigla di tale “esercito zapatista” non fosse diventata un po’ demodé negli ultimi anni, come elemento decorativo di felpe e magliette.
Si segnala infine la particolarità del capitolo di chiusura: Le “avanzate” civiltà precolombiane, dove il virgolettato rende chiara l’accezione sarcastica del titolo. Nell’affrontare le culture precolombiane se ne evidenziano gli aspetti più ripugnanti al nostro senso di umanità, a partire dall’enormità del numero di vittime versato per i sacrifici umani rituali. Una denuncia pienamente coerente con l’intento dell’autore più sopra ricordato: quello di difendere la causa degli sfruttati ed oppressi anche alla luce delle vessazioni subite e del sangue versato. Sotto quest’ottica, l’atteggiamento di netta sanzione dell’autore nei confronti delle antiche culture amerindie, appare in un certo senso coerente con le premesse; tuttavia si segnala en passant il personale dispiacere di chi scrive per quello che appare nel testo come un rifiuto in blocco delle civiltà in questione, e quindi anche di quei nobili aspetti delle stesse che le accomunano alle altre civiltà pre-moderne; aspetti che poi sono stati inevitabilmente spazzati via dalla modernità capitalistica e tecnico-industriale. L’individuazione degli elementi ‘positivi’ di queste civiltà porterebbe ad aprire una questione ‘assiologica’ fuori luogo in questa sede ma ci si augura che il lettore del libro possa riflettervi su. In una certa misura, e nonostante alcuni evidenti limiti, anche diverse intuizioni dello storico Prescott[6] – citato in chiave critica in uno dei brani del capitolo in questione – potrebbero risultare feconde al riguardo.
In conclusione, l’intera opera narra con grande maestria personaggi e fatti di quell’America Latina più genuinamente rivoluzionaria e affamata di giustizia umana e sociale. Il lettore non addentro alle vicende trattate potrà restare sgomento dall’apprendere quante e quali sofferenze umane sono state patite nel recente e remoto passato del continente. Allo stesso tempo, potrà conoscere singolari personalità e movimenti popolari purtroppo dimenticati dalla storia divulgativa ma che grande coraggio e sacrificio hanno dimostrato nella loro lotta per il cambiamento. Non esiste quindi solo il “Che”, cui indubbiamente meritata fama è stata tributata dalla storia; ma quanti di fatto conoscono, specie fra le nuove generazioni, il colonnello dominicano Caamaño, cui è dedicata la copertina dell’opera, o altre simili figure rivoluzionarie meno note? La lettura del libro si rivela una preziosa occasione per conoscerle o ritrovarle in una narrazione agile e avvincente, e al tempo stesso rigorosa e lucida.
[1] Dalla presentazione dell’opera in questione sul sito di Eurasia: http://www.eurasia-rivista.org/giovanni-armillotta-imperialismo-e-rivoluzione-latinoamericana/9990/
[2] Vedi, ad esempio, la morte del ‘Che’, accolta con malcelata soddisfazione a Cuba e nell’URSS; evento che segna ‘ufficialmente’ l’inesportabilità del modello cubano.
[3] Giovanni Armillotta, La cosiddetta sinistra, Jouvence, Roma, 2011. Per una breve presentazione vedi, dal sito di Eurasia: http://www.eurasia-rivista.org/la-cosiddetta-sinistra-il-nuovo-libro-di-giovanni-armillotta/8577/
[4] Volendo esemplificare in maniera estrema tali conseguenze, è evidente (e lo sarà comunque anche al lettore meno avveduto grazie alla lettura del testo) che l’affermarsi dei regimi compiacenti a Washington ha spesso significato perdita di una visione strategica (e geopolitica) nazionale, concessione (rectius: svendita) delle principali risorse nazionali a capitali stranieri, scarsa o nulla attenzione alle istanze sociali della popolazione e dura repressione – spesso in forma a dir poco criminale, come ormai noto – dei fermenti rivoluzionari. Per contro, le forze più marcatamente popolari ed antimperialiste hanno cercato, almeno in linea teorica e con gli esiti più disparati, di creare una solida economia nazionale, favorire il sostegno ai ceti popolari e sviluppare una certa autonomia da ingerenze esterne.
[5] Tiberio Graziani, “Gli USA, la Turchia e la crisi del sistema occidentale”, Eurasia, 3/2010.
[6] William Hickling Prescott (1796-1859), statunitense, autore – per quel che interessa in questa sede – delle opere La conquista del Perù (1843) e La conquista del Messico (1847).
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