E’ stato riscontrato come nell’esperienza umana sia tipico percepire un incremento del senso di insicurezza quando le minacce e le paure per cui si è abituati vengono meno, la cosiddetta perdita della ‘sicurezza ontologica’ in un sistema dove prolificano nuovi attori e scenari non sempre rientranti nella tradizionale matrice statuale[1].
Così la Cina sembra essersi conquistata, oltre lo status di grande potenza, quello di nemico, una minaccia, in grado di compromettere la stabilità globale sul breve periodo.
Lo sanno bene gli Stati Uniti, protettori di Taiwan, Giappone, Corea del Sud e Australia, quanto sia funzionale la costruzione di un nemico in politica, e lo sanno ancor meglio i media i quali non perdono occasione per classificare la Cina come una minaccia per l’equilibrio mondiale alla stregua di Russia, Iran e Corea del Nord.
L’ulteriore occasione è arrivata con il test di volo del J-20[2], l’ultimo ritrovato dell’industria militare cinese.
Il J-20 è un jet invisibile di quinta generazione che è stato testato in concomitanza con la visita in Cina del segretario alla Difesa statunitense, Robert Gates.
Secondo gli esperti il velivolo cinese sarebbe dotato di tecnologie paragonabili a quelle dello statunitense F-22, l’unico jet invisibile di quinta generazione attualmente operativo. Ma gli Stati Uniti, causa tagli alla difesa, hanno interrotto la produzione dell’F-22 con il meno efficiente F-35.
Lo sviluppo ed il test di volo del J-20 non è insignificante, ma in nessun modo rappresenta un cambio di rotta nel delicato equilibrio delle relazioni USA-RPC[3].
E’ dagli anni ’80 che la Cina sta attuando un ambizioso programma di ammodernamento delle sue forze armate. Pechino punta a garantire l’integrità del proprio territorio, ma chiaramente anche a rafforzare la sua capacità di proiezione politico-militare nell’Asia e nel Pacifico allo scopo di proteggere i suoi interessi nell’area e contenere l’influenza statunitense. La strategia sta dunque nell’evitare l’emergere di centri alternativi di potere egemonico, e a legare alla Cina i Paesi vicini in un rapporto che preservasse il delicato equilibrio sinocentrico, mantenendo lo status quo.
A preoccupare gli altri Paesi non è tanto il rischio che l’ascesa cinese assuma una connotazione aggressiva, quanto che Pechino, forte del suo crescente peso economico, ampli sempre più il perimetro delle sue ambizioni territoriali e geopolitiche.
Il Complesso di sicurezza regionale asiatico
Il complesso di sicurezza regionale asiatico è definito in larga parte dall’interazione di cinque grandi potenze, di cui quattro Cina, Russia, Giappone e India appartenenti all’area mentre il quinto imprescindibile attore sono gli Stati Uniti.
La regione è ricca di nodi di sicurezza di primaria importanza si pensi all’isola di Taiwan, la penisola Indocinese, lo Stretto di Malacca, lo Xinjiang, la Mongolia, la Siberia, il mare di Okhotsk, la Manciuria e la pensiola coreana.
Nell’area si trova inoltre la più alta concentrazione di capacità militari al mondo, i tre Stati nucleari più importanti come USA, Russia e Cina, uno Stato seminucleare come la Corea del Nord ed i tre Stati protonucleari di Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
Per mantenere la credibilità delle proprie rivendicazioni in questi teatri la Cina necessita di sviluppare adeguate capacità di proiezione della forza oltre i propri confini.
E’ in questo delicato contesto che il riarmo cinese acquisisce significato.
I leader della RPC parlano di “ascesa pacifica” per descrivere la strategia con cui intendono gestire il ritorno della Cina a una posizione di primato in Asia. Questo significa che la Cina non è disposta a rinunciare agli strumenti tradizionali di politica di potenza assicurando che il suo sviluppo militare non è altro che il normale progresso di una grande potenza globale[4].
Taiwan costituisce il punto di maggior criticità tra Cina e Stati Uniti, nonchè l’ambito in cui la postura strategica di Pechino è più revisionista all’ordine vigente. La Cina rivendica la sovranità sull’isola; il governo di Taipei dichiara che Taiwan è uno Stato sovrano formalmente chiamato “Republic of China” le cui relazioni future con la Cina possono essere risolte soltanto attraverso negoziati tra eguali. Per Pechino Taiwan è una provincia ribelle, un errore della storia, mentre gli Stati Uniti ne garantiscono l’indipendenza de facto. Agli occhi degli Stati Uniti Taiwan rappresenta un asset strategico di straordinaria importanza.
Sempre il professore Andornino spiega come l’isola sia collocata al cuore della cruciale via di comunicazione marittima che consente agli altri Paesi asiatici di accedere allo stretto di Malacca, attraverso cui passa il petrolio diretto verso Shanghai e Tokyo, oltre che le esportazioni cinesi e giapponesi per Medio Oriente e l’Europa, per non parlare del passaggio delle flotte statunitensi e russe in movimento tra il Mar della Cina meridionale e l’Oceano Indiano.
Una nazione democratica priva di mire espansionistiche rappresenta una garanzia per tutti, mentre se Taiwan fosse sotto la sovranità cinese acquisirebbe un’importanza strategica straordinaria.
L’unità costituisce da sempre il principale tra gli interessi geopolitici e geoeconomici cinesi. Per legittimità interna il PCC non può rinunciare a Taiwan. Poichè al momento l’equilibrio strategico non consente un’azione di forza, è essenziale che si preservi quantomeno la credibilità della rivendicazione di Pechino sull’isola.
Il regime cinese non perderà di vista il suo più importante interesse nei confronti di Taiwan: impedire che l’isola sia usata come piattaforma statunitense per attaccare o contenere la Cina continentale. Preoccupazione del tutto realistica se si ricorda che solo un anno fa il governo statunitense ha venduto armi all’isola per un valore di sei miliardi di dollari US.
E’ stato l’accerchiamento della ‘Terra di Mezzo’ che Washinghton ha creato con le sue alleanze in Asia a velocizzare il riarmo cinese. Il criticismo statunitense e occidentale non ha fatto altre che aumentare e provocare il fortissimo nazionalismo cinese, di cui il J-20 non è altro che l’ultima modernissima espressione.
L’ascesa della potenza cinese va dunque di pari passo con il rafforzamento della sua influenza nel resto del mondo, ponendo la comunità internazionale dinanzi al fatto compiuto che siamo “intellettualmente impreparati alla sfida di un egemone insoddisfatto dello status quo”[5].
[1] SIPRI YEARBOOK, Armaments, disarmaments and international security, cit. in G.Andornino, Dopo la Muraglia, la Cina nella politica internazionale del XXI secolo, pag. 266 Vita e Pensiero, Milano 2008.
[2] Si veda a riguardo l’articolo pubblicato su Eurasia: http://www.eurasia-rivista.org/7618/j-20-lo-stealth-cinese
[3] Si veda a proposito il seguento articolo in http://atimes.com/atimes/China/MA20Ad03.html
[4] Per quanto la Cina abbia mostrato un rapido incremento della spesa militare, vorrei ricordare che il regime è ancora lontano dal competere con gli USA che solo nel 2011 spenderanno 725 miliardi in spese militari contro gli 80 miliardi cinesi.
[5] Barry Buzan, Il gioco delle potenze.La politica mondiale nel XXI secolo, p.227, Egea, Milano, 2006
*Erica Saltarelli è dottoressa in Relazioni internazionali (Università di Perugia)
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