Quando i principali analisti di politica internazionale che lavorano per i mezzi di informazione atlantisti si sforzano nel sostenere l’assoluta assenza di influenze esterne nei fatti che sconvolgono la politica interna di un Paese (soprattutto quando si tratta di uno Stato dell’area postsovietica), solitamente risulta vero il contrario.
Da tale dinamica, in questo momento, non può essere affatto esclusa la versione degli eventi che hanno recentemente avuto luogo in Kirghizistan con le proteste/rivolte seguite alle elezioni parlamentari e col successivo annullamento di queste ultime.
A partire dal 2005, anno dell’estromissione dal potere (a seguito della nota “Rivoluzione dei Tulipani”) di Askar Akayev (uno dei primi a rifiutare, per la delusione turca, i progetti del “Grande Turkestan” e ad aprire verso la Cina nonostante fra i due Paesi vi fossero delle dispute su alcuni territori che Pechino ritiene estorti dalla Russia zarista grazie ai famosi “Trattati Ineguali”)[1], il Kirghizistan ha conosciuto un costante periodo di destabilizzazione, che i mezzi di informazione “occidentali” si sono spesso limitati a descrivere come questioni domestiche legate a lotte fra differenti oligarchie più o meno corrotte.
Ciò che tali analisi evitano scientemente di affermare (quando non lo negano completamente) è in primo luogo il fatto che la storia recente della regione centroasiatica ha dimostrato che raramente delle manifestazioni di piazza, o delle rivolte, hanno carattere del tutto spontaneo; in secondo luogo, che da Brzezinski in poi l’azione di potenze esterne alla regione non si è più focalizzata sull’instaurazione di regimi ad esse favorevoli, ma sulla semplice e continua destabilizzazione attraverso il sostegno ad una o più fazioni che si contendono il potere politico all’interno di uno Stato.
Dunque, è il dato propriamente geopolitico a venire negato o minimizzato, come se non si conoscessero la “teoria del perno geografico della storia” di sir Halford Mackinder e il suo celebre motto: “Who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island commands the World”.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, il semplice “contenimento” spykmaniano lungo il rimland eurasiatico è stato sostituito da una politica di penetrazione nordamericana all’interno dell’Asia Centrale, politica che ha portato alla costruzione di relazioni strategiche tra gli USA e diversi Stati postsovietici della regione ed all’intervento diretto in Afghanistan; un’azione, quest’ultima, che ha avuto molto poco a che fare con la lotta al terrorismo e molto più con il tentativo di controllare un’area cruciale per ogni potenziale forma di cooperazione fra l’Ovest e l’Est del Continente eurasiatico.
Così, il Dipartimento di Stato USA, quasi con scadenza quinquennale, ha prodotto svariati documenti sulle strategie da adottare per garantire la presenza nordamericana nell’area. Il più recente è stato rilasciato il 5 febbraio di quest’anno e porta il titolo US strategy for Central Asia 2019-2025: advancing sovereignty and economic prosperity.
Il testo, come molti altri documenti rilasciati sotto l’amministrazione Trump, replica schemi che sono diretta emanazione della precedente presidenza, quella di Barack Obama. Ad esempio, il sistema del C5+1 (i cinque Stati centroasiatici più gli Stati Uniti) per la costruzione della cooperazione tra le parti, di fatto, un’idea sostenuta da John Kerry, è stata fatta propria dall’attuale amministrazione.
Gli obiettivi di questo disegno strategico sono essenzialmente sei: 1) rafforzare la sovranità e l’indipendenza dei Paesi dell’Asia Centrale; 2) ridurre la minaccia terroristica; 3) stabilizzare l’Afghanistan; 4) promuovere la connettività tra l’Asia Centrale e l’Afghanistan; 5) favorire le riforme democratiche; 6) favorire commercio ed investimenti[2].
Ora, l’analista attento non deve assolutamente lasciarsi ingannare dalle dichiarazioni di buoni propositi. Infatti appare evidente che, quando si parla di “rafforzare la sovranità”, si sta semplicemente esprimendo il desiderio di ridurre l’influenza russa sull’area. E quando si afferma la volontà di “stabilizzare l’Afghanistan” e di favorire la sua “connettività” con il resto della regione, è chiaro che tale stabilizzazione e progettazione economica non possono che avere una matrice nordamericana.
Solo uno sciocco potrebbe ritenere che il tanto ostentato ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan (qualora mai avvenga) implichi la fine delle operazioni e degli interessi di Washington nell’area.
Se è vero che, salvo casi rari, i progetti statunitensi hanno spesso incontrato risposte abbastanza tiepide da parte dei governi della regione, è altrettanto vero che ciò non ha impedito in alcun modo agli USA di sviluppare la loro opera di destabilizzazione e di reiterare i loro tentativi di porre Russia e Cina l’una contro l’altra.
In questo contesto geopolitico estremamente complesso, il Kirghizistan, benché la sua ricchezza in termini di risorse naturali sia abbastanza limitata, ricopre un ruolo chiave in quanto snodo geostrategico cruciale della regione centroasiatica. Questo, infatti, dalla catena montuosa del Tien Shan, controlla la Valle del Fergana, che a sua volta risulta fondamentale per il controllo dell’intero spazio centroasiatico.
Ancora una volta, non è un caso se proprio nella Valle del Fergana hanno fatto la loro comparsa gruppi di ispirazione settaria come il Movimento Islamico dell’Uzbekistan. Questo, creato da Tahir Yuldascev e Juma Namangami ed operativo fin dagli anni ’90 del secolo scorso, si è alleato a fasi alterne con al-Qaeda, con lo Stato Islamico, e col Partito Islamico del Turkestan (formazione legata al secessionismo uiguro dello Xinjiang cinese ed attiva anche nel conflitto siriano contro il legittimo governo di Damasco). Tutti gruppi che hanno partecipato, a più riprese, alla destabilizzazione dell’Asia Centrale.
Il recente interesse per il Kirghizistan è legato essenzialmente ai suoi rapporti sempre più stretti con la Cina ed alla cooperazione tra i due Paesi nei settori dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e della medicina. Uno dei tratti fondamentali del progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta è il corridoio ferroviario Cina-Kirghizistan-Uzbekistan. Tale corridoio consentirebbe alla Cina di porre in essere una via più rapida per arrivare in Medio Oriente attraverso l’Afghanistan (si parla di almeno cinque giorni in meno rispetto alla linea già esistente che passa in Kazakistan)[3] e, da qui, passando da Iran e Turchia, per arrivare in Europa[4].
Inoltre, ultimare tale opera consentirebbe alla Cina un collegamento diretto con il campo petrolifero di Mingbulak (ricco di circa 30 milioni di tonnellate di greggio) in Uzbekistan, dove la CNPC – China National Petroleum Corp detiene un contratto di sfruttamento fino al 2035.
Constatato il fatto che l’unico tratto del corridoio C-K-U non ancora ultimato è proprio quello interno al Kirghizistan, appare evidente che destabilizzare l’anello debole della catena può risultare la mossa vincente per imporre nuovi rallentamenti alla costruzione dell’opera ed alla creazione di una interconnettività eurasiatica che finalmente estrometta agenti esterni dalla regione.
NOTE
[1] A questo proposito si veda G. R. Capisani, I nuovi Khan. Popoli e Stati nell’Asia centrale desovietizzata, BEM, Milano 2007, pp. 275-276.
[2] Si veda US strategy for Central Asia 2019-2025: advancing sovereignty and economic prosperity, www.state.gov.
[3] Сенсация в логистике! Без Казахстана! Запущен маршрут Ланьчжоу – Ташкент – Ланьчжоу через Киргизию, www.chinalogist.ru.
[4] Китай открыл транспортный коридор в Узбекистан в обход Казахстана, www.fergana.site.
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