La crisi tibetana merita sicuramente di essere ricordata tra gli avvenimenti che più hanno segnato l’immaginario collettivo occidentale negli ultimi decenni. La causa di questa rilevanza mediatica è in gran parte da attribuire ai media nostrani, che hanno tutti gli interessi a mantenere alta l’attenzione su una zona calda e strategicamente importante, ma un ruolo fondamentale gioca anche l’aridità spirituale in cui oggi si ritrova immerso l’Occidente. Altrimenti non si spiegherebbe la rapida diffusione di immaginari religiosi stranieri. La figura dell’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso, del resto, sembra costruita ad arte per compiacere il pubblico, quasi fosse un vero e proprio prodotto di mercato. Non è tuttavia esente da dicotomie anche gravi: si erge come difensore della non violenza pur essendo rimasto ambiguo sulla questione dell’armamento nucleare indiano, dimostrando una certa predisposizione a ragionare secondo le regole della realpolitik. Giova infatti ricordare che l’esilio a Dharamsala fu fortemente voluto da Eisenhower, che arrivò a concedere all’India di Nehru i programmi per l’avvio del nucleare in cambio dell’ospitalità al Dalai Lama. A riprova dell’amicizia storica con gli Stati Uniti, riceve finanziamenti dalla NED (National Endowment for Democracy), mettendo così in crisi qualsiasi tentativo di un Tibet realmente autonomo. Egli stesso denunciò gli interventi interessati degli Stati Uniti nel conflitto sino-tibetano, interventi che renderanno difficile sottrarlo un domani all’influenza nordamericana. Altra macchia che pesa sul karma del leader dei Gelukpa è la mancata riabilitazione del culto del Dorje Shugden, considerato eretico dal suo lignaggio sin dai tempi del Quinto Dalai Lama e, contrariamente alla sua immagine di promotore del dialogo interreligioso, ne ha ribadito durante un intervento a Zurigo l’assoluta incompatibilità con gli insegnamenti lamaisti (supportando così le persecuzioni da parte dei “berretti gialli” ai danni degli adepti del Dorje Shugden)(1).
Il reale motivo della mitizzazione della figura del Dalai Lama è sicuramente attribuibile all’interesse strategico che il blocco atlantico nutre per la regione. Costituita esclusivamente da montagne ed altipiani, la cui economia principale è, dopo il turismo, l’allevamento dello yak e l’agricoltura, non presenta un’allettante fonte di materie utili, ma il suo storico ruolo di “ponte” tra il subcontinente indiano e il territorio cinese permette di considerare il Tibet una preziosa risorsa per avere voce nelle decisioni tra queste due nazioni.
Sembra averlo capito Pechino, che sin dagli inizi della sua esistenza come centro politico della Repubblica Popolare Cinese decise di riannettere il Tibet ai suoi possedimenti, in barba ai trattati britannici che avevano fatto del Tetto del Mondo uno “stato cuscinetto”. La questione veniva legittimata mettendo in discussione la cosiddetta “Linea McMahon”, che garantiva l’indipendenza al Tibet al fine di proteggere i possedimenti coloniali indiani, senza badare al fatto che fino ad allora il Tibet era stato storicamente parte integrante della Cina.
Questa disputa e quella relativa al Kashmir furono all’origine delle tensioni tra India e Cina, tensioni che sfoceranno nel conflitto sino-tibetano del 1962. Da quella data in poi, i rapporti tra le due potenze rimarranno incrinati per decenni.
È solo recentemente che gli antichi dissapori sembrano essere stati accantonati (sebbene talvolta riaffiorino, come ad esempio in occasione del test nucleare indiano del 1998). I rapporti tra Cina e India mostrano segnali positivi: durante la visita del 2010 a New Delhi del primo ministro cinese Wen Jiabao, il comunicato stampa congiunto delle due parti ha lasciato intendere una possibile accettazione dello status quo per quanto riguarda le dispute territoriali, nonché un rinsaldamento dei rapporti commerciali (2). Per il primo punto vi è in realtà ancora molto lavoro da svolgere: lo smacco della sconfitta pesa molto sugli indiani, e probabilmente il potenziamento del commercio tra i due Paesi potrà essere un possibile lenitivo alle incomprensioni. Sempre in occasione di quell’incontro, Wen Jiabao ha dichiarato: “Vi sono cambiamenti all’interno della politica e dell’economia mondiale; è importante per noi supportarci e cooperare l’uno con l’altro. Stiamo entrando in tempi moderni. Dovremmo supportarci l’uno con l’altro nella costruzione della nazione e nel suo sviluppo. Abbiamo bisogno di lavorare fianco a fianco”(3). Queste parole sono di buon auspicio per un miglioramento dei rapporti: il settore informatico è ad esempio un punto forte delle due economie, e un accordo commerciale tra i due Paesi potrebbe renderli davvero competitivi sul mercato globale. Il valore annuale delle esportazioni indiane di software ammonta a quasi 10 miliardi di dollari, mentre a Bangalore, centro all’avanguardia anche per lo smaltimento dei rifiuti elettronici, lavorano 150.000 ingegneri informatici (in California, nella celebre Silicon Valley, “solo” 120.000) (4). Di concerto, la Cina vanta un gioiello nel mercato dell’elettronica come la Foxconn, responsabile dell’assemblaggio di oltre il 40% dei manufatti elettronici internazionali(5). Anche le recenti esercitazioni militari congiunte sino-indiane denotano un miglioramento dei rapporti, sicuramente destinati ad intensificarsi se l’India, da Stato membro osservatore quale è attualmente, entrerà stabilmente e a pieno titolo nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
In quest’ottica è facile vedere come la creazione della ferrovia del Qingzang giochi un ruolo importantissimo per stabilire solide relazioni tra India e Cina.
Sognata da Mao come il “Treno dei Cieli”, è l’unica ferrovia che collega il Tibet alle altre città cinesi. Realizzata con tecniche all’avanguardia e conclusa l’ultima tappa nel 2006, con la costruzione di vagoni pressurizzati per sopportare le elevate altitudini, essa collega Lhasa con Pechino ed è un importante scalo commerciale nelle rotte da e verso il Tibet. Importante notare come il termine della costruzione ferroviaria sia andata di pari passo con la riapertura dello scalo commerciale del Nathu La, chiusa fin dai tempi della guerra con l’India, che rimane ad oggi il principale scalo tra il resto della Cina e la regione del Tibet. Non sono da escludere, secondo il governo cinese, futuri ampliamenti che permetterebbero collegamenti con Nepal ed India (6).
Ecco quindi che le tensioni in Tibet e gli interventi statunitensi si colorano di un’ulteriore motivazione: rompere le uova nel paniere a possibili politiche di avvicinamento tra le due superpotenze asiatiche. Senza nulla togliere in modo pregiudizievole alla legittimità di alcune delle proteste promosse in Tibet, è opportuno però constatare l’impossibilità di poter proseguire genuinamente e senza strumentalizzazioni il riconoscimento di tali richieste. La tanto declamata indipendenza tibetana assume ormai le fosche tinte di un cambio di dominio: quello occidentale.
(1)http://www.fpmt.org/images/stories/organization/announcements/shugden/HHDLZurich05.pdf
(2) http://www.thehindu.com/news/national/article954094.ece
(4)http://punto-informatico.it/1926372/PI/Commenti/india-boom-ict-miseria-ed-alta-tecnologia.aspx
(6)http://www.asianz.org.nz/newsroom/regional-matters/transhimalayan-highway e http://english.people.com.cn/200607/07/eng20060707_280785.html
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.