Turchia e Iran stanno vivendo un epocale riavvicinamento, che li ha portati ad un’attiva collaborazione economica e diplomatica. Questo processo è stato vissuto con allarme da Europa e Stati Uniti, preoccupati per l’apparente svolta orientale intrapresa dal governo di Ankara.

Molti politici e analisti occidentali sono apparsi preoccupati dall’ambiziosa politica estera condotta dalla Turchia, che dal 2002 è governata da un partito di matrice islamica, sebbene moderato. Mentre alcuni temevano che questo portasse la secolare Turchia ad intraprendere una politica estera islamista, altri paventavano la resurrezione dello spirito dell’impero Ottomano. Omer Taspinar, in particolare, ha messo in guardia da un crescente “Gaullismo turco”, che coniugherebbe nazionalismo, grandeur e frustrazione nei confronti degli storici alleati occidentali.
Tali sospetti si sono diffusi in particolare dopo che Ankara ha rifiutato il proprio appoggio alle sanzioni emanate a giugno 2010 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nello stesso periodo l’incidente della flottiglia salpata dalla Turchia per infrangere il blocco di Gaza, aveva fatto precipitare ai minimi storici le relazioni tra Ankara e Tel Aviv. Riflettendo una percezione piuttosto diffusa, Tom Friedman del New York Times è arrivato a vedere la Turchia come parte di un asse anti-israeliano che comprende Iran, Hamas e Hezbollah. Ma è proprio vero che Ankara ha fatto una scelta tra Oriente e Occidente?

Zero problemi

L’AKP (partito per la giustizia e lo sviluppo) del primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha fatto il suo ingresso sulla scena politica turca nel 2002, quando ha vinto di misura le sue prime elezioni. Pur essendo un partito filo-islamico, il programma dell’AKP si basava su liberalizzazione economica e riformismo democratico; infatti gli otto anni di governo non hanno portato ad un’islamizzazione della politica turca.

La tenuta del partito, che era stato confermato alla guida del paese nel 2007, è stata ulteriormente rafforzata dalla vittoria del sì al referendum sulle modifiche costituzionali del 12 settembre scorso. Con un alto tasso di partecipazione, il 58% della popolazione ha dato il suo consenso al pacchetto proposto dall’AKP, che prevede una revisione della magistratura e delle prerogative dei militari.

Da quando è al potere l’AKP, la Turchia ha vissuto un periodo piuttosto roseo dal punto di vista economico, riuscendo ad apportare le necessarie riforme per superare la crisi del 2000. Grazie agli alti livelli di crescita è diventata la diciassettesima economia mondiale oltre che membro del G-20. Nel 2009 l’inflazione era scesa al 9,5%, gli investimenti diretti stranieri erano aumentati di quindici volte rispetto agli anni novanta e le esportazioni erano quadruplicate fino a raggiungere 132 milioni di dollari. È proprio l’economia il cardine del successo dell’AKP e, dunque, anche in politica estera è stata la determinante delle sue scelte. Inoltre, il desiderio di diventare un membro a tutti gli effetti dell’Unione Europea ha spinto l’AKP ad allinearsi agli standard Ue, rafforzando le strutture democratiche e tentando di risolvere le dispute di lungo periodo con Cipro e con l’Armenia.

Pur restando fermamente interessata all’accesso all’Ue, la Turchia ha dovuto fare i conti con le riserve espresse al riguardo da alcuni paesi europei, specialmente Francia e Germania. Rinunciando all’idea di un rapido ingresso nel club europeo, ha compreso l’esigenza di diversificare i propri legami economici. Inoltre, nuove possibilità imprenditoriali nella regione hanno spinto la Turchia ad accrescere sempre più il proprio coinvolgimento nei mercati del Medio Oriente, dalla Libia al Golfo Persico.

Tali passi avanti si sono concretizzati sotto la leadership di Ahmet Davutoglu, principale consigliere di Erdogan sulla politica estera e, dal 2009, ministro degli esteri. Questo stimato professore – definito un “Kissinger turco” dalla rivista Foreign Policy – ha sostenuto un nuovo attivismo in politica estera, rivendicando per Ankara un ruolo sempre più indipendente nel Medio Oriente e oltre, pur mantenendo ai primi posti lo storico legame con la NATO e l’ambizione alla membership dell’Ue.

Nell’area mediorientale Davutoglu riconosce l’importanza di utilizzare il proprio retaggio storico per intrattenere buone relazioni con i vicini, in modo da sviluppare al meglio un “soft power” che la configuri naturalmente come ponte tra Oriente e Occidente. Questa cosiddetta politica di “zero problems with neighbors” si è indirizzata non solo all’espansione dei suoi legami con le economie mediorientali, ma anche verso la risoluzione dei vari conflitti aperti nella zona che la riguardassero in maniera più o meno diretta. Quindi si sono fatti passi avanti per appianare i contrastati rapporti con Cipro e con l’Armenia, ma anche per svolgere un ruolo di intermediazione regionale grazie ai propri vincoli strategici e culturali. Così la Turchia si è proposta come mediatrice di varie dispute regionali, aiutando Israele e Siria ad intraprendere negoziati per normalizzare i loro rapporti, mediando fra sunniti e sciiti in Iraq e ospitando incontri d’alto livello tra i leader di Pakistan e Afghanistan.

Se questo coinvolgimento può far pensare ad una pericolosa fratellanza islamica, bisogna ricordare che la stabilità è la chiave della crescita economica. Alleviare le tensioni regionali, infatti, è stato un utile strumento per promuovere una maggiore interdipendenza economica che è andata a beneficio della Turchia. Un quarto delle sue esportazioni sono assorbite dai mercati del Medio Oriente (un aumento di sette volte nell’ultimo decennio) e i suoi investimenti sono particolarmente estesi nella zona, soprattutto in Iraq e Siria. Inoltre, Ankara ha firmato nel 2010 un’importante dichiarazione politica con Siria, Libano e Giordania che prevede la formazione di una zona di libero scambio, l’eliminazione dei visti turistici e un consiglio di cooperazione fra i quattro paesi.

La strana coppia

Se questi sviluppi sono passati relativamente inosservati, altrettanto non si può dire della nuova amicizia che lega l’Iran alla Turchia e del raffreddamento dei rapporti tra quest’ultima e Israele.

Iran e Turchia, che avevano condiviso ottimi rapporti nell’ambito dell’alleanza anti-sovietica CENTO, si erano allontanati dopo la rivoluzione islamica del 1979, poiché la Turchia voleva difendere il suo sistema secolare dalla minaccia dell’ideologia islamista. Una volta abbandonata l’idea di esportare la rivoluzione iraniana, le relazioni tra Ankara e Tehran erano riprese, ma solo nell’ultimo decennio si è assistito ad un riavvicinamento. La contesa tra l’Iran e la comunità internazionale sul programma nucleare, tuttavia, ha fatto leggere in una chiave diversa questo processo.
Il premier Recep Tayyip Erdogan ha definito il presidente Ahmadinejad un “grande amico” e ha bollato come pettegolezzi le accuse di progetti nucleari militari. I leader dei due paesi hanno scambiato visite reciproche e, all’indomani delle contestate elezioni del 2009, il primo ministro turco ha chiamato Ahmadinejad per congratularsi della sua rielezione. Il 17 maggio scorso, tuttavia, Erdogan ha stupito tutti, volando a Tehran con il presidente brasiliano Lula per firmare un accordo in ambito nucleare.

Il compromesso prevedeva che l’Iran trasferisse su territorio turco 1200 chili di uranio a basso arricchimento, perché fossero trattati ulteriormente, in modo da produrre materiale utilizzabile per scopi medici. Entro un anno sarebbero stati restituiti all’Iran 120 chili di uranio arricchito al 20%. Un simile compromesso era stato proposto alcuni mesi prima anche dal cosiddetto Gruppo di Vienna (che comprende Russia, Francia, Stati Uniti e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica AIEA) con lo scopo di attenuare le preoccupazioni occidentali sui veri fini del programma nucleare iraniano, dal momento che l’arricchimento dell’uranio avrebbe avuto luogo fuori dal suo territorio.
Le potenze occidentali temono che l’Iran, sotto la copertura di impianti civili, stia sviluppando tutte le capacità per costruire armi nucleari. Per questo motivo, dal 2006, Tehran è soggetta a sanzioni economiche emanate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha più volte richiesto la sospensione dell’arricchimento dell’uranio quale misura di “confidence building”. Se il rifiuto ad aderire a queste richieste è preoccupante per l’intera comunità internazionale, bisogna anche ricordare che l’Iran ha diritto ad utilizzare l’atomo a scopi pacifici, fintanto che rispetta gli accordi di salvaguardia dell’AIEA.

L’accordo negoziato da Brasile e Turchia, tuttavia, andava a interferire con gli sforzi che gli Stati Uniti avevano fatto nei mesi precedenti per convincere Russia e Cina ad appoggiare un nuovo round di sanzioni. Frustrati dai continui rifiuti iraniani, gli americani hanno criticato il compromesso promosso da Ankara, sostenendo che non avrebbe fornito garanzie sufficienti. Alla seduta del Consiglio di Sicurezza del 9 giugno 2010, quindi, gli Stati Uniti hanno promosso la quarta risoluzione sanzionatoria e Turchia e Brasile, quali membri temporanei del Consiglio, hanno votato “no”. Il Libano, inoltre, si è astenuto ma la risoluzione è stata approvata, sebbene con un grado di approvazione ai minimi storici.

Questa mancanza di consenso da parte di paesi alleati dell’Occidente è stato un duro colpo per Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che avrebbero voluto un voto positivo. Tuttavia, appoggiando la risoluzione, Brasile e Turchia avrebbero perso la faccia, sostanzialmente negando quanto avevano firmato poche settimane prima. L’incrinatura della posizione occidentale rispetto al programma nucleare iraniano riguarda il metodo più che l’obiettivo. La Turchia, infatti, condivide i timori degli alleati e si sentirebbe direttamente minacciata nel caso l’Iran diventasse un paese militarmente nucleare. Tuttavia, Ankara sostiene che isolare Tehran può solo essere controproducente, spingendo la leadership iraniana ad adottare posizioni sempre più radicali.

È necessario, piuttosto, trovare una soluzione negoziale e la Turchia si propone come mediatore naturale in questa disputa, data la sua capacità di interagire ad alto livello tanto con Washington che con Tehran. Lo stesso premier inglese David Cameron ha sostenuto che è proprio la Turchia il paese europeo con la maggiore probabilità di convincere l’Iran a cambiare la sua politica nucleare. Una simile capacità, se effettivamente portata avanti, sarebbe un importantissimo risultato per un paese emergente come la Turchia, consacrandolo come ponte diplomatico di primissimo rilievo tra Est e Ovest.

Oltre alla motivazione diplomatica, bisogna sottolineare che in Iran la Turchia ha profondi interessi economici che vengono messi a repentaglio dalle sanzioni economiche. Memore dei costi che ha dovuto pagare per le sanzioni contro l’Iraq di Saddam Hussein, Ankara mira a salvaguardare i suoi crescenti legami commerciali con Tehran. Tra il 2002 e il 2009 le sue esportazioni verso l’Iran sono cresciute di sette volte, passando da 300 milioni di dollari a 2 miliardi. Inoltre, Ankara importa 1/5 del suo gas naturale da Tehran e, preparandosi a diventare il corridoio energetico tra Asia ed Europa, vorrebbe che anche il petrolio e il gas iraniano passassero sul suo territorio.

Significato e prospettive

Piuttosto che a scelte di natura ideologica, la politica estera turca nei confronti di Tehran sembra quindi improntata a considerazioni pragmatiche. I legami commerciali e diplomatici sono stati utili per entrambi, ma è difficile immaginare che il riavvicinamento si trasformi in un’alleanza.

Innanzitutto la loro relazione non è stata esente da contese, tra cui la diversità di vedute sul futuro dell’Iraq. Se l’Iran si dotasse realmente di armi nucleari, inoltre, Ankara dovrebbe fare i conti con un’importante minaccia alla propria sicurezza nazionale e al suo status regionale. Insieme all’Egitto, infatti, è uno dei paesi che più probabilmente controbilancerebbe l’atomica iraniana seguendone le orme, rischiando di innescare un’ondata di proliferazione nel Medio Oriente. Un’alleanza islamica, poi, non appare giustificata, dato che, per entrambi, l’islam appare strumentale per appellarsi alle masse domestiche e del mondo musulmano in generale, più che per dare fondamento a scelte di politica estera. Date le rispettive dimensioni strategiche, Turchia e Iran possono entrambe ambire ad un ruolo di primo piano nella regione, cosa che le porterà ad essere in competizione se non addirittura rivali.
Come ha evidenziato il presidente Obama, l’impossibilità di accedere in tempi brevi all’Unione europea ha giocato un ruolo importante nel riorientare i suoi interessi verso Est. Chiusa fuori dal circuito europeo, la Turchia ha cercato altro sbocco per la sua economia in crescita, tentando al contempo di proporsi come attore rilevante sulla scena internazionale. È importante sottolineare, però, che la Turchia rimane legata a doppio filo all’Occidente, tanto dal punto di vista economico che politico. I legami transatlantici e la partecipazione alla NATO rimangono la chiave di volta della sicurezza turca. Inoltre, non è diminuita la priorità assegnata all’accesso all’Unione europea, che è responsabile dei ¾ degli investimenti esteri nel paese e che compra circa metà delle esportazioni turche.

In sostanza Ankara rimane dedicata agli obiettivi occidentali di stabilità e risoluzione dei conflitti in Medio Oriente, ma, come molti altri paesi emergenti, vorrebbe un ordine internazionale più in sintonia con l’attuale distribuzione di potere a livello globale. Come sostenuto recentemente dall’ex ministro degli esteri Joshka Fischer, il mondo non è più governato dall’Occidente.

* Roberta Mulas è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


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