Pizzi iranista
A mezzo secolo dalla morte dell’orientalista parmigiano Italo Pizzi (1849-1920), “l’oblio quasi totale in cui quell’operosissimo divulgatore di esotica cultura è oggi caduto” (1) veniva accusato come ingiusto da Francesco Gabrieli, che nel 1969, volendo riproporre al lettore italiano il poema nazionale persiano, ne aveva curato per la UTET un’antologia, anzi, “quasi una antologia dall’antologia”, in quanto la scelta dei brani era stata ricavata dalla versione ridotta pubblicata presso la casa torinese dallo stesso Pizzi (2).
Ma il prolifico e versatile orientalista pubblicò anche una traduzione integrale dello Shâhnâmeh (3) che costituisce senza dubbio il suo opus magnum. Lavorando per circa vent’anni sull’edizione calcuttense di Turner Macan del 1829, egli trasfuse i centomila versi mutaqârib di Firdusi in endecasillabi sciolti che furono lodati da Giosue Carducci, che nel 1867 lo aveva esaminato per l’ammissione alla Normale di Pisa. “L’arte del traduttore – scrisse il poeta sulla “Nuova Antologia” del 1 luglio 1886 – a me pare molta e buona. L’endecasillabo sciolto, condotto secondo le tradizioni della scuola classica, procede corretto, non stentato mai, decoroso, variato d’intonazioni e pienezza secondo e quanto permette l’indole di questa poesia, epica ed orientale”. Meno entusiastico fu il successivo giudizio di uno studioso dell’opera di Firdusi, Gino Lupi, il quale trovò la traduzione “volutamente artificiosa e contorta, ben lontana dalla semplicità firdusiana” (4), ma tuttavia non poté non poté fare di utilizzarla e di riconoscere a Pizzi il merito fondamentale di aver contribuito “alla conoscenza fra noi di quel mondo di cui ben pochi in Italia, prima di lui, si erano occupati” (5).
Non solo la traduzione dello Shâhnâmeh, ma anche i “numerosi appassionati studi del medesimo Pizzi sull’epopea iranica e su Ferdousî” (6), che Alessandro Bausani (1921-1988) invitava a rileggere per quanto li ritenesse “in qualche punto superati” (7), sono oggi praticamente negletti. Perfino il repertorio del Pearson (8), organica ed accurata bibliografia di trecento pagine destinata agli studiosi dell’Iran preislamico, registra sotto il nome di Italo Pizzi soltanto la Grammatica elementare dell’Antico Iranico, la scelta di passi avestici intitolata Lyra Zarathustrica e altri cinque titoli di diverso rilievo (9), mentre il numero delle pubblicazioni pizziane di argomento iranistico supera sicuramente la cinquantina (10). Oltre che dalla Grammatica elementare dell’Antico Iranico citata dal Pearson, l’attività linguistica di Pizzi è rappresentata dalle abbondanti note grammaticali e lessicali con cui egli corredò alcune opere antologiche, come la Chrestomathie persane o il Manuale della lingua persiana, un lavoro che in sostanza era un florilegio firdusiano (11). Probabilmente è quest’ultima opera di Pizzi quella alla quale si riferisce confusamente Mircea Eliade, allorché dichiara di aver cominciato nel 1927 a studiare persiano e sanscrito “à l’aide des manuels Hoepli, de Pizzi et Pizzagalli” (12), sognando di poter tradurre in romeno lo Shâhnâmeh; confusamente, perché nella serie dei Manuali Hoepli, che effettivamente comprendeva la Grammatica sanscrita di A. M. Pizzagalli, apparve una Grammatica persiana compilata da Angelo de Martino, non da Italo Pizzi.
Nei Manuali Hoepli, invece, apparve nel 1887 un Manuale di letteratura persiana che, secondo Pizzi, doveva “dare un’idea di tutto il movimento letterario dell’Iran dai primi tempi fino a noi” (p. vii); ripartita in tre capitoli (letteratura antica, medioevale, moderna), questa trattazione storico-letteraria presenta alcuni brani di autori persiani. Qualche anno dopo, Pizzi pubblicò una più ampia Storia della poesia persiana, “più per tutti quelli che amano aver conoscenza delle letterature straniere, pur non facendone uno studio ex professo, che per gli Orientalisti” (p. vii). L’opera però non è semplicemente di una storia letteraria, ma è, al contempo, un’antologia poetica, poiché i due volumi (850 pagine in totale) contengono le traduzioni da centoventi poeti, per un totale di oltre quattrocento brani d’autore.
Tra i poeti persiani, Pizzi amò in particolare Sa’di, del quale tradusse il Gulestân (13); ma quello cui riservò la più costante ed amorosa attenzione fu Firdusi. Alla prima prova di versione dallo Shâhnâmeh, che apparve nel 1868 sulla “Rivista Orientale” di Firenze, ne seguirono altre (14), finché tra il 1886 e il 1889 videro la luce gli otto volumi della traduzione integrale. Ma il poema di Firdusi costituì pure l’oggetto di diversi saggi critici e divulgativi di Pizzi, tra i quali occorre menzionare il saggio sugli eroi dello Shâhnâmeh (15), il saggio sull’epopea persiana (16) e il “profilo” formigginiano in cui la presentazione dello Shâhnâmeh è inframezzato di brani del poema (17).
Lyra Zarathustrica, citato più sopra, contiene la versione di alcuni brani dell’Avesta così intitolati dal traduttore: Inno al Fuoco, Inno a Mithra, Inno alla dea delle acque Ardvi Sura Anahita, Leggenda del re Yima, Glorificazione di Haoma, Domande del fedele intorno al perché e all’origine delle cose. Mentre Francesco Adolfo Cannizzaro (1867-1914) aveva tradotto il libro avestico del Vendidâd, che sarebbe uscito postumo con una Prefazione di Italo Pizzi (18), quest’ultimo volle invece procedere sulla linea della compilazione antologica: diede alle stampe un volume intitolato L’Avesta (19), per il quale trascelse quei capitoli e quei passi che a lui parevano i “più importanti nel riguardo storico, morale, religioso, i più belli per l’ispirazione poetica, i più caratteristici per le idee dei tempi, dei luoghi, della gente, della civiltà a cui appartengono” (Prefazione, p. 12). La scelta dei brani era preceduta da una lunga Introduzione (pp. 17-118), articolata in una settantina di paragrafi, che mirava ad informare il lettore su Gli Irani (capo I) e su Zarathustra e la sua religione (capo II). F. Gabrieli apprezzò questo florilegio avestico in particolare per gli Yasht, “che Pizzi tradusse in torniti e sonanti endecasillabi, talora pervasi di un vero afflato religioso” (20).
Riscontri euro-iranici
Lo studio della civiltà persiana consentì ad Italo Pizzi di rendersi conto della parentela spirituale esistente tra l’Europa e l’Iran e di quella ricca eredità ideale che l’Iran ha trasmesso all’Europa, un’eredità “talvolta così radicata nel nostro costume di vita che non ce ne accorgiamo neppure, dato anche il fatto che frequentemente ci è giunta tramite culture intermedie o modelli occidentalizzati da secoli” (21).
Al già citato articolo Una massima di sapienza popolare nell’Antigone di Sofocle e nel Marzbânnâmeh di Verâvini possiamo aggiungere altri contributi che testimoniano della consapevolezza di Pizzi circa i rapporti euro-persiani, per esempio, la prolusione accademica su Dante e Firdusi (22). Ancor più significativo è il titolo Le somiglianze e le relazioni tra la poesia persiana e la nostra nel Medio Evo (23), dato ad una memoria che sarebbe stata trasfusa nell’ultimo capitolo della Storia della letteratura persiana.
In particolare, Pizzi attribuì un’origine persiana al romanzo di Tristano e Isotta: oltre a riprendere l’ipotesi di Hermann Éthé (1844-1917), il quale aveva fatto notare che il poema persiano di Ramîn e Vîs attribuito a Fakhrî tratta lo stesso tema del Tristano e Isotta di Goffredo di Strasburgo, Pizzi rileva le analogie tra la pazzia di Tristano e quella del giovane Qays (detto poi Majnûn, cioè “folle”) nelle opere di Nezâmî e di Giâmî (24).
Altre interessanti corrispondenze vengono indicate in Riscontri orientali (25): una novella del Gozzi ed una del Novellino rinvierebbero anch’esse al Marzbânnâmeh di Verâvini, mentre la storia di Rosmunda troverebbe parziale riscontro nello Shâhnâmeh.
Per porre in evidenza ulteriori analoghe connessioni, Pizzi si sofferma sulla figura di un dotto vissuto alla corte persiana nel VI secolo dell’era volgare, Buzurcimihr (=Vazurkmihr), al quale vengono riferiti ammonimenti e sentenze. I dialoghi che questo celebre saggio ebbe con Cosroe il Grande (531-578) furono redatti in pahlavi, quindi tradotti in arabo, in ebraico, in latino; da essi traggono origine il libro provenzale di Sidrac, il libro tedesco della disputa di Marcolfo con Salomone, il dugentesco libro italiano di Secondo, il libro di Bertoldo. Fu Buzurcimihr a tradurre dal sanscrito in pahlavi il Pañcatantra, che dal pahlavi fu tradotto in arabo, dall’arabo in ebraico, dall’ebraico in latino, dal latino in tedesco, francese, italiano ecc. Infine, fu Buzurcimihr a fissare le regole del gioco degli scacchi (26).
Frequenti rimandi alla cultura persiana sono contenuti nel manuale scolastico di storia della letteratura greca compilato da Pizzi nel 1897. Affrontando la questione omerica, l’autore difende la tesi unitaria proponendo un parallelo tra la nascita dell’Iliade e dell’Odissea e la composizione dello Shâhnâmeh. “Vi sono certi tempi, – scrive – in cui presso un popolo s’inizia e cresce e lungamente dura un grande movimento epico (…) e allora è facile che un poeta solo, fattosi come l’interprete fedele e gradito del popolo suo, imbrigli e governi, per così dire, tutto quel movimento e, facendolo suo, v’impronti l’orma del genio suo. Cotesto, per esempio, ha fatto Firdusi per la Persia nel 1000 dopo l’Era volgare allorquando (…) egli compose da solo, pur appoggiandosi sull’opera degli antecessori e dei contemporanei, il Libro dei Re. Ora, ciò che ha potuto fare un poeta persiano, non si vede perché non abbia potuto fare, in condizioni forse non dissimili, un poeta greco” (27).
Trattando della Ciropedia di Senofonte, Pizzi è indotto a supporre l’esistenza di un modello persiano. “La letteratura persiana (…) ha un genere tutto suo particolare che è il romanzo, e il romanzo persiano è di due maniere, o imprende a descrivere la vita di un grande personaggio storico, o narra pietose avventure d’amore di due amanti. Secondo la prima di queste due maniere, il romanziere persiano narra la nascita del suo eroe, la sua accurata educazione, la sua prima caccia in cui fa prodigi di destrezza (come appunto Ciro nella Ciropedia), la sua prima milizia, il suo avvenimento al trono, il suo regno, le sue conquiste e la morte felice e serena, rivolti amorevoli ammonimenti ai figli e agli amici. Ora non è questo appunto lo schema della Ciropedia di Senofonte? Nella seconda maniera invece, il romanziere persiano narra lungamente i casi di due giovani amanti, la loro felicità come son fatti sposi, la loro morte prematura e quasi contemporanea. E non è questo lo schema della tenera storia di Abradata e di Pantea, introdotta a modo di episodio nella Ciropedia?” (28) Origine orientale viene attribuita anche al romanzo di Carete di Mitilene, “portato in Occidente dai soldati di Alessandro” (29) e a quello di Striangeo e Zairinaia riferito da Nicolò Damasceno.
Per quanto riguarda gli storici minori del V secolo, Pizzi rileva, sulla traccia di Friedrich Spiegel, l’influenza che l’epopea e la mitologia persiane hanno esercitata sui Persikà di Ctesia; né manca di notare, con Christian Lassen, che alcune notizie contenute negli Indikà provengono da “poesie e speculazioni d’Indiani” (30).
Nel paragrafo conclusivo del manuale si accenna alla fortuna che la filosofia e la scienza dei Greci avrebbero conosciuta in Persia dopo il tramonto dell’ellenismo, nonché alla trasmissione dell’eredità filosofico-scientifica greca alla cultura islamica. “Il re Chosroe, quel Chosroe che fece tremar sul suo trono di Costantinopoli Giustiniano, accoglieva alla sua mensa ospitale in Ctesifonte i filosofi greci che l’imperatore aveva discacciati (…) Chosroe fece tradurre Platone e Aristotele e altri filosofi (…) Quando poi nel 650 gli Arabi invasero la Persia (…), in arabo fu scritta, dal settimo al tredicesimo secolo, tutta quanta quella letteratura scientifica che forma in complesso ciò che noi, erroneamente, diciamo cultura degli Arabi” (31).
Ai filologi che lo accusarono di aver tralasciato il metodo scientifico Pizzi replicò ribadendo la validità dei suoi accostamenti. “Gli egregi Critici hanno taciuto, p. e., ciò che ho detto di Erodoto e di Senofonte secondo le recentissime scoperte sui cuneiformi persiani e assiri e sulla letteratura persiana. Veggano cosa dice il Nöldeke (è un tedesco, si consolino) sull’epopea persiana di cui s’è trovato un frammento in Erodoto, e leggano come io abbia pur riferita questa cosa (pag. 158). Il giuramento di Serse, riferito da Erodoto, fu da me, credo per il primo almeno in un manuale, confrontato con un passo dei cuneiformi persiani che ha quasi le stesse parole (pag. 157)” (32).
Convinto dell’importanza che tali riferimenti rivestivano per l’istruzione classica, Pizzi compilò una rassegna storico-letteraria dei generi poetici e prosastici, Ammaestramenti di letteratura (33), che per la prima volta introdusse nell’insegnamento ginnasiale utili raffronti con le letterature orientali. A coloro che li giudicarono inopportuni obiettò: “Gli studi filologici orientali hanno ormai messe in sodo tali verità intorno alle origini di alcuni generi letterari, che nelle scuole secondarie non è più lecito ignorarle” (34).
Il Kalevala, i Nibelunghi e l’Oriente
Gli studi che Pizzi coltivò al di fuori del prediletto ambito iranistico spaziarono da diverse lingue e culture accomunabili sotto la generica e vaga definizione di “orientali” fino alla filologia germanica e al greco, sfiorando la filologia slava e quella ugrofinnica. Le sue avventure linguistiche cominciarono allorché, quindicenne, si imbatté nella grammatica ebraica dello Slaughter; “come mi sentii in grado d’intendere il testo ebraico della Bibbia”, leggiamo nelle Memorie da lui pubblicate sotto lo pseudonimo di Italo da Parma, “passai allo studio del caldaico e del siriaco”. Il passo successivo avvenne in direzione dell’arabo; poi fu la volta del persiano, “col quale ultimo andai oltre il campo degl’idiomi semitici per entrare in quello degl’indoeuropei”. Lo studio del sanscrito fu rimandato, ma affrontato anch’esso. Il greco non venne mai trascurato, anzi: “Di questa lingua (…) mi occupai sempre sempre senza interruzione alcuna” (35).
La multiforme erudizione linguistica e letteraria di Italo Pizzi è testimoniata da un altro testo scolastico che egli compilò ad uso delle scuole: un’antologia di brani epici persiani, indiani, germanici, slavi e finnici (36).
Per quanto riguarda l’epica finnica, è il caso di notare che Pizzi fu tra i primi a presentare traduzioni italiane dal Kalevala (37), anche se l’antesignano degli studi kalevaliani in Italia, Domenico Comparetti, nella sua rassegna delle versioni integrali e parziali del poema finnico non cita altre traduzioni italiane oltre a quella di Domenico Ciampoli, “che ne ha dati alla stampa due saggi (Runa 8a e 50a, Catania 1890)” (38).
Le versioni dei brani d’epica germanica presenti nell’antologia (39) sono il frutto un interesse che indusse Pizzi a tradurre in versi italiani i Nibelunghi (40) e l’Atlakvidha eddico (41). Pizzi pubblicò qualche altro saggio di versione dall’Edda, poiché nelle sue Memorie egli scrive: “E mi ero anche proposto di tradurre l’Edda più antica che ha tanta relazione coi Nibelunghi, e già ne avevo dato fuori qualche breve saggio; ma poi non ne fece nulla. Me ne sgomentò la difficoltà estrema del linguaggio originale che è il nordico antico, e l’aver compreso che il nostro endecasillabo sciolto assai inettamente avrebbe reso, col suo andamento solenne, il verso rapido e tronco, e quasi saltante a sbalzi, del testo” (42).
L’interesse per l’epica indiana testimoniato nell’Antologia epica si ricollega ad una più vasta attività indologica dell’autore. Ex alunno di Michele Kerbaker, che insegnò al Liceo Regio di Parma nell’anno scolastico 1866-’67 (43), Pizzi recensì la traduzione kerkaberiana del Sauptika Parva (il Libro X) del Mahâbhârata (44) e tradusse egli stesso un episodio del Râmâyana (45). Tradusse inoltre il Pañcatantra (46) e lo Shatakatraya, ma di quest’ultimo tralasciò la seconda centuria, “quella dell’amore, poiché – così ne giustificò l’omissione – ha repugnato a me, come credo che repugnerebbe a chiunque, il tradurre cose tanto indecenti e oscene” (47). Degna di menzione, infine la Grammatica elementare della lingua sanscrita (48).
Nel novero delle grammatiche e dei manuali linguistici compilati da Pizzi rientrano anche una grammatica ebraica (in latino) con crestomazia e glossario (49) ed un paio di manuali di arabo (50). Il Pizzi arabista è anche autore di una storia letteraria (51) che arriva fino al XIII secolo, ma contiene anche qualche cenno al periodo successivo; scrive qualche cenno biografico su Shanfara, il poeta-predone dell’Arabia preislamica, fornendo la traduzione prosastica di alcuni suoi brani (52); traduce ed esamina (53) l’operetta dialogica dello shaykh ‘Abd Allâh ash-Shubrâwî intitolata ‘Unwân al-bayân wa bustân al-adhân (“Frontespizio di eloquenza e giardino di prudenza”), sintetico rifacimento di un testo pahlavico d’epoca sassanide attribuito a Buzurcimihr; traduce un passo di Ibn ‘Arabshâh, biografo di Tamerlano ed autore di una raccolta di novelle e di aneddoti che è il rifacimento arabo di un vecchio libro persiano (54).
Altre traduzioni dall’arabo, assieme ad altre che Pizzi eseguì dal persiano, dal sanscrito e dal siriaco, furono raccolte sotto il comun denominatore “orientale” in un’antologia intitolata Fiori d’Oriente (55) e suddivisa in sette libri. Il primo contiene racconti storici da cui risaltano caratteri, consuetudini, mentalità peculiari. Anche il secondo libro riunisce brani narrativi, ma concernenti fatti straordinari, casi strani, leggende. Nel terzo libro vi sono le novelle. Nel quarto, descrizioni di paesi, animali, fenomeni naturali. Il quinto contiene “ragionamenti e considerazioni” di carattere per lo più morale e filosofico; il sesto comprende sentenze, proverbi, motti arguti, facezie, favole; il settimo è quello delle allegorie.
All’Oriente, inteso come area essenzialmente unitaria al di là delle forme di cultura diverse, è dedicato il saggio Pessimismo orientale (56). Il titolo, però, come scrive l’autore nel Proemio, “è più ampio e comprensivo di quanto veramente il libro contiene, perché non vi si tocca che del pessimismo presso gli Ebrei, presso gl’Indiani, presso i Persiani, e vi si tace di quello d’altri popoli d’Oriente” (57). Ma il titolo è anche indicativo di una certa incomprensione manifestata dall’opera nei confronti di dottrine che sfuggono a categorie sentimentali come pessimismo e ottimismo, categorie dalle quali possono difficilmente prescindere, a quanto pare, anche quegli occidentali che si trovano in possesso di strumenti linguistici atti ad agevolare il loro accostamento allo spirito dell’Oriente tradizionale. A mostrare l’incomprensione dell’autore per l’oggetto del suo studio (e ad ulteriore riprova dell’insufficienza dell’erudizione accademica di fronte alle dottrine spirituali) basterebbe citare alcune definizioni contenute in questo saggio, dal quale risulta che il sufismo è una “cupa dottrina pessimistica” (58), che un racconto simbolico di ‘Attâr è una “scempia allegoria” (59), che le opere di Giâmî contengono solo “idee scioccamente esagerate” (60) e così via, sicché alla domanda “A che approdarono Buddhismo e Sufismo?” l’autore ritiene di poter dare questa risposta sicura: “A nulla!” (61). Quanto al “pessimismo ebraico”, esso invece supererebbe se stesso, poiché, dopo un “momentaneo turbamento” (rappresentato dal Libro di Giobbe e dall’Ecclesiaste), la mente ebraica assurge “ad un più alto e nobile ordine di idee e di pensieri” (62).
Un’opera altrettanto infelice è L’Islamismo (63), che, oltre a rivelare notevoli lacune nella conoscenza della dottrina rispettiva, manifesta l’adesione dell’autore a luoghi comuni ed opinioni preconcette.
Purtroppo Italo Pizzi non andò esente da un vizio diffuso tra gli orientalisti: quello che consiste nel voler estendere “la loro competenza su tutto quel che ecceda la semplice erudizione”, fino a impegnarsi in un lavoro di esegesi dottrinale nella convinzione che “i loro studi linguistici e storici gli diano il diritto di trattare d’ogni sorta di cose” (64). Ciò tuttavia non deve impedirci, nel tirare le somme della sua attività, di riconoscergli quello che gli spetta: il merito di aver coltivato per la prima volta in Italia il campo dell’iranistica, soprattutto della filologia neopersiana, e di aver applicato il suo prodigioso poliglottismo a varie letterature d’Europa e d’Asia, riuscendo spesso a individuare i nessi che intercorrono tra le diverse forme culturali del Continente Antico.
1. F. Gabrieli, Arabeschi e studi islamici, Guida, Napoli 1973, p. 247.
2. Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano recato in versi italiani da Italo Pizzi, Edizione rifatta e compendiata sull’integra, 2 voll., UTET, Torino 1915. Questa edizione ridotta si era resa necessaria non solo perché la precedente, integrale, era andata esaurita nel giro di un quarto di secolo, ma anche perché, avvertiva il traduttore, “un poema, per quanto magnifico e grande, che conta intorno a centomila versi, riesce lungo e grave alla lettura anche con le molte sue bellezze; e la mole ne cresce, s’intende, anche il prezzo dell’acquisto. Indotto da ciò, mi avvisai di fare quanto si è fatto per altri poemi, cioè scegliere, serbandone l’ordine, le parti più essenziali all’intendimento di esse, le più belle e magnifiche per la forma e per le cose narrate e descritte, compendiando in succinta prosa le parti intermedie lasciate” (p. x).
3. Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano, recato in versi italiani da Italo Pizzi, 8 voll. (di circa 600 pp. l’uno), Unione Tipografica Editrice, Torino 1886-1889.
4. G. Lupi, Firdusi, La Scuola, Brescia 1947, p. 136.
5. Ibidem.
6. A. Pagliaro – A. Bausani, La letteratura persiana, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1968, p. 363.
7. Ibidem.
8. J. D. Pearson, A Bibliography of Pre-Islamic Persia, Mansell, London 1975, pp. 4, 28, 36, 87, 229. Il Pearson fu professore di bibliografia presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.
9. Grammatica elementare dell’antico iranico (zendo e persiano antico) con antologia e vocabolario, Clausen, Torino 1897; Lyra Zarathustrica, versione metrica, “Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino”, XLIV (1909), pp. 805-828; La radice zenda karet nei nomi di coltelli in Asia ed in Europa, 4° Congresso Internazionale di Orientalistica, 1878, vol. II, pp. 61-63; Paralleli indo-iranici, “Giornale della Società Asiatica Italiana”, 7 (1893), pp. 197-242; Les coutumes nuptiales aux temps héroïques de l’Iran, “Le Muséon”, II (1883), pp. 385-380; Le Livre des Rois de Firdousi et ses cycles épiques, “Le Muséon”, I (1882), pp. 371-388; Una massima di sapienza popolare nell’Antigone di Sofocle e nel Marzbânnâmeh di Verâvini, in Mélanges Charles de Harlez, Brill, Leiden 1896, pp. 226-227.
10. Cfr. C. Mutti, L’attività persianistica di Italo Pizzi orientalista parmigiano, “Malacoda”, genn.-febbr. 1991, pp. 25-33.
11. Chrestomathie persane avec un abrégé de la grammaire et un dictionnaire, Bona, Turin 1889. Manuale della lingua persiana. Grammatica, antologia e vocabolario, W. Gerhard, Leipzig 1883. La seconda edizione, emendata di alcuni difetti, uscì con titolo mutato: Antologia firdusiana. Con un compendio di grammatica persiana e un vocabolario, 2a ed. con l’aggiunta delle correzioni, Drugutin, Leipzig 1891. Questo lavoro rimase “per più generazioni un’ottima introduzione alla conoscenza del poema nell’originale” (F. Gabrieli, op. cit., p. 253).
12. M. Eliade, Mémoire I. 1907-1937. Les promesses de l’équinoxe, Gallimard, Paris 1980, p. 125.
13. Il Roseto di Saadi, 2 voll., Carabba, Lanciano 1917.
14. Storia di Rustem e di Akvân, “Rivista Orientale”, 1868; Storia di Sohrab, episodio del Sha^hna^meh di Firdusi. Recato dal persiano in lingua italiana, Fiaccadori, Parma 1872; Racconti epici del Libro dei Re di Firdusi, recati per la prima volta dal persiano in versi italiani, con un discorso d’introduzione sull’epopea persiana, Loescher, Torino 1877. La morte di Rustem, episodio del libro di Firdusi, “Il Fanfani”, 1 (1881), pp. 267-270, 277-280, 300-303, 330-334, 348-351, 363-367. Avventure di un Principe di Persia, Successori Le Monnier, Firenze 1882.
15. Gli eroi del Libro dei Re di Firdusi. Saggio, Paravia, Torino 1879. Stesso testo in: “Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino”, XXXII, 2a serie (1880), pp. 1-75.
16. L’epopea persiana e la vita e i costumi dei tempi eroici di Persia, Niccolai, Firenze 1888.
17. Firdusi, A. F. Formiggini, Modena 1911.
18. Il Vendidad reso italiano sul testo zendico di C. F. Geldner da F. A. Cannizzaro, Stabilimento tipografico Guerriera, Messina 1916. Nuova edizione: Vendidad. La Legge di abiura dei demoni dell’Avesta zoroastriano tradotto da F. A. Cannizzaro, Mimesis, Milano 1990.
19. Zarathustra, L’Avesta. Con una introduzione storica di Italo Pizzi, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1914. Seconda edizione riveduta e corretta: Bietti, Milano s. d. [ma: 1916].
20. F. Gabrieli, op. cit., p. 250.
21. P. Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’Occidente, Centro Culturale Italo-iraniano, Roma 1977, pp. 1-2.
22. Dante e Firdusi, Prolusione ad un corso di lingue e letterature orientali letta il 16 novembre 1908 nella R. Università di Torino, “Rivista d’Italia”, febbraio 1909, pp. 190-204.
23. Le somiglianze e le relazioni tra la poesia persiana e la nostra nel Medio Evo, “Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino”, 1892.
24. L’origine persiana del romanzo di Tristano e Isotta, Prolusione letta nell’Università di Torino il 16 novembre 1910, “Rivista d’Italia”, 1911, pp. 5-21.
25. Riscontri orientali, “Giornale storico della letteratura italiana”, vol. XXII (1893), pp. 220-228.
26. Ciò che noi dobbiamo al gran savio Buzurcimihr, “Per l’Arte”, 14 (1902), pp. 92-93.
27. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, Clausen, Torino 1897, p. 34.
28. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., pp. 169-170.
29. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 270.
30. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 173, n. 2.
31. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 284.
32. Risposta del Prof. Italo Pizzi ai suoi Critici, Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona, Torino 1898, p. xxxxxxxxx
33. Ammaestramenti di letteratura per i componimenti in prosa ed in poesia ad uso della quinta classe ginnasiale, Loescher, Torino 1875. Gli Ammaestramenti ebbero numerose edizioni; l’undicesima (Petrini, Torino 1904) comprendeva anche un trattatello di stilistica per gli studenti di quarta ginnasio, Precetti dell’arte del dire, che venne pubblicato in successive edizioni.
34. Ammaestramenti di letteratura per i componimenti in prosa ed in poesia ad uso delle scuole secondarie, Loescher, Torino 1890, Prefazione.
35. Memorie d’un letterato che non fu ciarlatano, S.E.I., Torino s. d. [1921? 1922? 1924?], p. 33.
36. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, Loescher, Torino 1877. Seconda edizione: Antologia epica, Loescher 1891.
37. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, cit., pp. 314-352.
38. D. Comparetti, Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni, “Atti della R. Accademia dei Lincei”, a. CCLXXXVII (1890), Serie quarta, classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, vol. VIII, parte I, Memorie.
39. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, cit., pp. 222-255.
40. I Nibelunghi. Poema epico germanico. Traduzione in versi italiani, 2 voll., Hoepli, Milano 1889-1890.
41. Il Canto di Atli nell’Edda, tradotto in versi, Ferrari, Parma 1876.
42. Memorie d’un letterato che non fu ciarlatano, cit., p. 208.
43. Commemorazione di Michele Kerbaker, “Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino”, L (1915), pp. 189-194.
44. Del tradurre opere orientali, “Per l’Arte”, 14 (1902), pp. 331-334.
45. L’avventura di Visvamitra. Episodio del poema indiano il Ramayana. Tradotta dal sanscrito, “Acropoli”, IV-V (1911).
46. Le novelle indiane di Vishnusarma (Panciatantra), Unione Tipografico-Editrice, Torino 1896.
47. Le sentenze di Bhartrihari, Tipografia Salesiana, Torino 1899, p. 20.
48. Grammatica elementare della lingua sanscrita con temi, antologia e vocabolario, Clausen, Torino 1896.
49. Elementa grammaticae hebraicae, cum chrestomathia et glossario, Tipografia Salesiana, Augusta Taurinorum 1899. Seconda edizione: 1904. Terza edizione: 1909.
50. Piccolo Manuale dell’Arabo volgare d’Egitto. 1. Lingua Araba, Volgare, Grammatica, Le Monnier, Firenze 1886. Nuova edizione: 1912. Manuale della lingua araba scritta. Grammatica, temi, antologia, vocabolario, Successori Le Monnier, Firenze 1913.
51. Letteratura araba, Hoepli, Milano 1903.
52. Shanfara, “Per l’Arte”, 13 (1901), pp. 168-169.
53. Un riscontro arabo del Libro di Sidrac, in: Raccolta di studi critici dedicata ad A. D’Ancona, Barbera, Firenze 1901.
54. Un demonio che fa l’elogio di sé stesso, “Per l’Arte”, 14 (1902), pp. 409-410.
55. Fiori d’Oriente. Antologia di traduzioni di autori arabi, persiani, indiani, siri, Luigi Trevisini, Milano 1907.
56. Pessimismo orientale, Laterza, Bari 1902.
57. Pessimismo orientale, cit., p. 3.
58. Pessimismo orientale, cit., p. 84.
59. Pessimismo orientale, cit., p. 83.
60. Pessimismo orientale, cit., p. 83.
61. Pessimismo orientale, cit., p. 111.
62. Pessimismo orientale, cit., p. 127.
63. L’Islamismo, Hoepli, Milano 1903.
64. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Studi tradizionali, Torino 1965, p. 259.
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