La parabola di Silvio Berlusconi inizia ben prima della “discesa in campo” dei primi anni ’90: la sua vicenda politica risale già ai decenni precedenti, quelli del Berlusconi imprenditore, dati i suoi legami con lo “Stato Profondo” italiano del quale egli fu un membro a pienissimo titolo. La parabola della sua politica estera è però inscindibile da quella del Berlusconi Presidente del Consiglio e capo della compagine di centrodestra – il Silvio Berlusconi dal 1994 al 2010/2011. Partiamo dalle date: balza immediatamente all’occhio come il ventennio berlusconiano si sovrapponga con sorprendente precisione al ventennio del trionfo della globalizzazione neoliberista all’ombra dell’unipolarismo statunitense. Furono gli anni della “Pax Americana”, una pace strana che pace non fu (anzi, si nutrì di tutti gli interventi militari di Washington in giro per il mondo) e fu americana solo in parte, poiché contenne in sé i semi della crescita cinese – con le aperture della Repubblica Popolare ai mercati globali. Era il mondo della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, della crescita del commercio internazionale nella totale assenza di contrappesi geopolitici agli Stati Uniti.

Silvio Berlusconi fu sostanzialmente questo, senza tema di essere riduttivi: il presidente della globalizzazione. I suoi legami con gli Stati Uniti d’America si basarono sul rapporto con le due amministrazioni più globaliste: quella “internazionalista liberale” di Bill Clinton e soprattutto con quella “internazionalista neocon” di George W. Bush; ben più tesi furono i rapporti con l’amministrazione di Barack Obama, non solo per la natura maggiormente antirussa di quest’ultima (benché una stranissima narrativa propini per “filorussa” l’amministrazione Bush, quella del progetto di Scudo Spaziale in Europa Orientale o del ritiro USA dal trattato per la limitazione delle armi contro i missili balistici), ma anche per il minor trasporto mostrato da Obama verso la globalizzazione dei commerci e verso i concorrenti europei dell’industria statunitense. Ecco: Silvio Berlusconi si è sempre trovato poco a proprio agio con il mondo dei cosiddetti “sovranisti” e con gli espliciti protezionisti, si trovassero tra i suoi alleati delle destre italiane ed europee oppure tra i democratici e i repubblicani di Washington (infatti ha sempre rifiutato ogni accostamento alla figura di Donald Trump).

Il Presidente del Consiglio globalista non poteva certo essere esplicitamente antieuropeista: al di là di qualche uscita propagandistica contro la valuta comune europea, Silvio Berlusconi non ha mai messo in discussione la partecipazione italiana al progetto comune, e ha mantenuto salda l’adesione di Forza Italia al Partito Popolare Europeo. Berlusconi ha espresso e riflesso, piuttosto, l’atavica diffidenza di segmenti della piccola borghesia e dei ceti popolari italiani verso Parigi e Berlino, due capitali ammirate, nel nostro paese, solo in alcuni ambienti della classe dirigente o del pubblico colto. Senza mai mettere in discussione l’Unione Europea, egli cercò di diluirla e di diluire l’asse Parigi-Berlino. Lo fece giocando di sponda con il mondo anglosassone: furono idilliaci i suoi rapporti con la Londra di Tony Blair, alla quale Berlusconi si associò per seguire gli Stati Uniti nella sciagurata “Guerra al Terrore”, mobilitando per quella causa tutto l’apparato propagandistico occidentalista di cui il suo impero mediatico poteva disporre e attivando la prima, grande macchina della propaganda e del Kulturkampf bellicista della storia contemporanea del nostro paese (la prima e non l’ultima: quel modello fece scuola).

La vera cifra del “Presidente della Globalizzazione” si può valutare però nei rapporti tra Silvio Berlusconi e tutto ciò che stava fuori da quell’ “Occidente” che costituiva il suo orizzonte morale, culturale e antropologico all’interno di un mondo che veniva definito “piatto”; in quel mondo l’impero americano aveva trionfato, la storia era giunta al termine e il comunismo era solo una caricatura che egli poteva grottescamente evocare per attribuirla ai suoi oppositori, in realtà molto più postideologici di lui. Paradossalmente, l’adesione di Berlusconi a quel mondo si manifestava nel suo totale disinteresse per l’Asia e nell’esclusiva personalizzazione dei rapporti con i capi politici extraeuropei. Non gli interessavano i paesi, i mondi, le strategie, poiché uno era il paese, una la strategia e uno il mondo che contava per lui: gli USA. Gli interessava intessere un rapporto personale con un capo, al di là degli orientamenti. Dove questo non era possibile o non gli risultava interessante, il paese veniva semplicemente ignorato: anche in questo, Silvio Berlusconi era l’arcitaliano, l’espressione della piccola e media borghesia dalla quale proveniva. La Cina era per lui il paese dove “…all’epoca di Mao non mangiavano i bambini ma li bollivano per poi usarli come fertilizzante per i campi[1]” (sic). Per molti italiani la Cina era, è e sarà questo. Già diverso il rapporto con il Brasile, terra che nel suo immaginario (e nell’immaginario di molti nostri compatrioti) appare più rassicurante e positiva: con il Presidente Lula i rapporti personali sono sempre stati positivi. Sempre sull’onda del personalismo sono stati costruiti i rapporti con il Vicino Oriente. A Silvio Berlusconi non interessava certo la cultura di quell’area (rectius: non gli interessava certo la cultura). Che cosa egli pensasse dell’Islam non lo tenne mai nascosto[2]; e il lavoro diplomatico che diede all’Italia la guida della missione UNIFIL in Libano, portato a compimento dal governo che aveva preceduto il suo ultimo, fu completamente dimenticato. Piuttosto, Silvio Berlusconi cercò sempre un rapporto personale con Benjamin Netanyahu, riconosciuto come membro della sua stessa famiglia conservatrice, come riferimento della stessa famiglia di capi personalistici e refrattari ai contrappesi istituzionali, come modello di occidentalismo armato. Uno stesso approccio, mai del tutto coronato dal successo, venne cercato con Recep Tayyip Erdogan, uomo politico astuto, conscio che i rapporti personali sono assai più volubili di quelli tra stati, culture e apparati. A fare le spese di questa leggerezza fu Muammar Gheddafi, “amico personale” con il quale Berlusconi concluse trattati e costruì rapporti di fiducia, per poi abbandonarlo all’aggressione di Stati Uniti, Regno Unito, Inghilterra, Canada e Italia. Nel silenzio insipiente di Palazzo Chigi iniziava la sistematica demolizione del nostro “estero vicino” ad opera di nemici e “alleati”.

Le Rivolte Arabe giravano definitivamente la pagina della stagione del globalismo trionfante, colpito nei propri fondamenti economici dalla crisi dei mutui statunitensi e in quelli geopolitici dalla consacrazione, con le Olimpiadi di Pechino, della Repubblica Popolare Cinese come grande potenza. Il mondo di Silvio Berlusconi si sgretolava davanti ai suoi occhi l’asse franco-tedesco e, più ancora, l’amministrazione statunitense si sarebbero presi di lì a poco le proprie rivincite. Simbolico e riassuntivo del rapporto di Silvio Berlusconi con la politica estera fu il rapporto non già con la Federazione Russa, ma, ancora una volta, con un capo: Vladimir Vladimirovic Putin. Silvio Berlusconi lesse la stagione “filooccidentale” di Mosca, causata sia dalla debolezza seguita al crollo dell’URSS sia dal sincero desiderio di buona parte della classe dirigente russa di inserirsi nel gioco globale, come un suo successo personale nel costruire un rapporto privilegiato con Putin stesso. Dando a Cesare quel che è di Cesare, bisogna senza dubbio ammettere che la vicinanza di Berlusconi a Putin ha permesso all’ex Presidente del Consiglio di comprendere meglio di altri, berlusconiani ed antiberlusconiani, quali siano le “linee rosse” del Cremlino e quale la posizione che l’Italia avrebbe dovuto assumere nello scontro fra l’Occidente e la Russia.


NOTE

[1] https://www.lastampa.it/esteri/2006/03/28/news/cina-protesta-per-frase-di-berlusconi-su-bambini-bolliti-1.37159594/

[2] https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11891581/berlusconi-islam-nel-corano-versetti-civile-convivenza.html


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.