Le relazioni fra Turchia e Israele, che suscitano particolare interesse e a volte divergenti interpretazioni fra i commentatori politici, possono essere inquadrate e meglio comprese alla luce delle linee guida adottate dall’esecutivo di Ankara.
Il 17 dicembre scorso, in occasione del quinto anniversario del vertice di Bruxelles tra UE e Turchia, il Primo ministro Erdoğan affermava che “grazie alla sua posizione storica e strategica, la Turchia può dialogare con paesi entro un’estesa area geografica (…). Come sottovalutare la crescente influenza della Turchia nel Medio Oriente, nel Caucaso e in Asia centrale, e il suo ruolo di mediatrice affidabile nei conflitti regionali?”. Questo orientamento generale si combina con le intenzioni politiche perseguite dal ministro degli Esteri Davutoğlu, zero problemi con i paesi vicini (non necessariamente soltanto quelli confinanti).
La pragmaticità (non disgiunta dalla lungimiranza) di tale politica porta a comportamenti che di volta in volta possono essere contraddittori, o che sono complementari in una sorta di bilanciamento delle azioni.
Gli esempi di collaborazione militare tra Ankara e Tel Aviv (consolidata a metà degli anni Novanta con uno specifico accordo) sono un esempio della complessa situazione fra i due paesi : la cessione alla Turchia di droni è accompagnata dal rifiuto israeliano di fornire missili Barak-8 alla Marina turca e carri armati Namer per il trasporto delle truppe.
Premessa generale : non c’è dubbio che la Turchia riconosca la legittimità dello Stato israeliano, come non c’è neppure dubbio che esso venga considerato un Paese fra i tanti, e anzi decisamente problematico.
Come osserva il giornalista israeliano Jacques Benillouche, il ministro degli Esteri Lieberman “è il solo a non essere sorpreso del voltafaccia turco”; “voltafaccia” scandito non solo dalle esplicite prese di posizione di Erdoğan (le accuse di terrorismo rivolte allo Srato ebraico dopo l’assassinio dello sceicco Yassin nel 2004 e l’appassionata difesa di Gaza nel corso della conferenza di Davos del 2009, ad esempio) ma soprattutto dal cambio di linea politica internazionale impresso dal governo a guida AKP, in forza del quale la Turchia rispetta tutti ma non si sente più “alleata di ferro” di nessuno.
Particolarmente significativa è la odierna posizione di Ankara nei confronti della Siria, nazione chiave nella bollente regione vicino orientale: sono lontani i tempi in cui Damasco – che sosteneva la fronda del PKK – veniva minacciata dalla Turchia di essere “passata da parte a parte”, con grande soddisfazione di Israele. Ora, mentre i guerriglieri curdi vengono addestrati dagli agenti israeliani nel nord Iraq, Turchia e Siria dialogano fra di loro in un clima di ritrovata fiducia. Solo nel 2009 il totale degli investimenti turchi in Siria ha superato i 200 milioni di euri, mentre le esportazioni sono andate oltre il miliardo di euri!
Martedì prossimo inizierà una tre giorni di comune addestramento militare, per “rafforzare la cooperazione e l’accordo fra le forze terrestri dei due Paesi e migliorare il livello di addestramento e la capacità di operare insieme delle unità frontaliere”.
L’apertura alla Siria e il contemporaneo rifiuto di procedere sbrigativamente a sanzioni contro l’Iran sono due aspetti della politica turca che Israele non può accettare e che spingono Tel Aviv a cercare di “sostituire” l’alleato turco con la Georgia (in cui opera come ministro della Difesa un ex immigrato israeliano) e, in funzione soprattutto anti iraniana, con l’Azerbaijan.
Ankara è consapevole di questa insofferenza israeliana, tuttavia non intende venir meno al suo ruolo di potenza regionale inserita nella NATO ma con aspirazioni a una politica indipendente. Interrogato sulle relazioni con Israele, Davutoğlu ha sottolineato che “la Turchia non resterebbe con le mani in mano in caso di attacco all’innocente popolo palestinese. Ciò che conta per noi è l’obiettivo (delle relazioni turco-israeliane), non le relazioni in sé stesse. E l’obiettivo è la pace”.
La questione palestinese – trasposizione mediatica della questione israeliana – è alla fine ben presente nel cuore e nella mente del popolo turco, terminata l’anestesia di un malinteso “spirito laico” creato ad arte per isolare e separare la Turchia dal mondo islamico. L’esempio più bello è di questi giorni, e assume un valore simbolico oltre che concreto: proprio a Istanbul si è costituita un’alleanza che comprende numerose organizzazioni ed associazioni impegnate contro l’embargo su Gaza, la quale si adopererà per varare una flotta che vedrà partire, a maggio, partecipanti di venti Paesi imbarcati su una decina di navi, con oltre 5.000 tonnellate di materiali come cemento, case prefabbricate, materiali da costruzione, apparecchiature mediche e materiali scolastici per gli abitanti di Gaza. La flotta è organizzata dal Comitato di soccorso umanitario turco IHH, con la collaborazione di organizzazioni internazionali solidali con la popolazione di quella terra martoriata.
Un’iniziativa di pace, orientata contro un embargo anacronistico e illegittimo: come reagirà Israele? La dinamica del suo confronto con la Turchia ne risentirà certamente.
* Aldo Braccio è redattore di “Eurasia”
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