La notizia, diffusa a metà settembre scorso, della conclusione di un affare da sessanta miliardi di dollari per l’acquisto, da parte del Regno dell’Arabia Saudita, di armamenti e mezzi militari statunitensi ha rianimato il dibattito sulle relazioni particolari tra i due Paesi, spingendo diversi analisti ad affermare la teoria secondo cui Stati Uniti ed Arabia Saudita, dopo un periodo di rottura a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001, avrebbero posto le prime basi per la ricostruzione di una politica comune di sicurezza in Medio Oriente.
Sulle intenzioni da parte dell’amministrazione Obama di riedificare la struttura di sicurezza poggiante per gran parte sul Regno dei Saud, non ci sono dubbi. I dubbi sorgono, piuttosto, a proposito della gravità della crisi nelle relazioni tra i due Paesi dall’11 settembre ad oggi e, soprattutto, riguardo alla scelta di costruire sicurezza armando un regime come quello al potere nella Penisola Araba, anche alla luce di esempi analoghi nella storia recente.
La connection statunitense-saudita
Fin dal 1931, anno in cui gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente il Regno dell’Arabia Saudita, i rapporti tra i due Paesi hanno assunto caratteristiche di particolarità. A partire dal 1933, infatti, compagnie statunitensi iniziarono a trivellare il territorio saudita alla ricerca di petrolio, in cambio del pagamento di somme di denaro e royalties al Regno Saudita.
Negli anni ’40, la Seconda Guerra Mondiale e il sentore dei primi segnali di guerra fredda avevano reso chiaro all’amministrazione Roosvelt come le riserve di petrolio saudite fossero una risorsa strategica fondamentale per la sicurezza e la difesa della posizione di un paese, gli Stati Uniti, che si apprestava ad imporsi sempre più come superpotenza mondiale.
I rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non si limitarono alla collaborazione in campo petrolifero. Sul versante militare, nel 1951, gli Stati Uniti stabilirono una missione permanente di addestramento in territorio saudita, fornendo alle forze armate del paese supporto logistico e informativo sull’uso delle armi e sui servizi di sicurezza, e assistendo con i propri ingegneri la costruzione di installazioni militari nel Regno. Nei decenni successivi, gli Stati Uniti si sarebbero impegnati nella vendita, a più riprese, di potenti armamenti e mezzi militari al Regno Saudita, garantendo la sopravvivenza di quel rapporto particolare che tanto interessa entrambi i paesi.
Fin dagli anni ’30, dunque, gli Stati Uniti hanno trovato nell’Arabia Saudita un alleato strategico fondamentale, la cui difesa risultava, secondo le parole di Roosvelt, “vitale” per la difesa statunitense.
In effetti, il posizionamento dell’Arabia Saudita può essere definito di capitale importanza strategica per diversi motivi: innanzitutto, il suo territorio si estende sopra la riserva di petrolio più ingente al mondo; inoltre, essa occupa una posizione geografica esclusiva, a cavallo tra Asia ed Africa, è bagnata dalle acque, fondamentali per il commercio internazionale, del Mar Rosso e del Golfo Persico, confina a Nord con il Medio Oriente caldo di Siria, Israele, Palestina, Libano, si affaccia con le sue coste orientali sulle coste occidentali dell’Iran, si trova a mezza via (a livello geografico e in un’ottica tipica del periodo della guerra fredda) tra il mondo occidentale e il mondo orientale, ed è in grado, infine, di influire sui paesi arabi della regione con un soft power di matrice religiosa e l’uso combinato di ingenti somme di petrodollari. Tutte queste ragioni rendono l’Arabia Saudita unica in più dimensioni: la orizzontale, a causa della sua posizione geografica; la verticale, a causa del tesoro nero che si trova sotto le sue sabbie; e, infine, la terza dimensione, magari meno evidente nelle sue forme, ma di certo forte nelle sue conseguenze, del potere economico e culturale di influenza su tutta la regione.
Ai tempi della guerra fredda, diventava quindi fondamentale per una superpotenza mondiale, ingaggiata in uno scontro con una superpotenza analoga, l’appoggio da parte di chi controllava questo territorio e le sue risorse. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita trovava negli Stati Uniti un alleato insostituibile: da un lato, infatti, il moderno paese occidentale garantiva al Regno un trasferimento di denaro, di mezzi e di know how tecnico-militare che nessun altro poteva offrire. In secondo luogo, la stretta alleanza con una superpotenza mondiale permetteva all’Arabia Saudita di contare sulla difesa del proprio territorio dalle mire dei paesi limitrofi, arabi e non arabi, la cui vicinanza da un lato rendeva il territorio del Regno strategicamente fondamentale, dall’altro lo rendeva fortemente vulnerabile e allettante per diversi attori regionali. Le paure del Regno saudita, quindi, trovavano nell’apparato difensivo statunitense una sicurezza in cui rifugiarsi quando il mondo circostante si faceva troppo pericoloso. Il caso più evidente, in questo senso, fu la richiesta di difesa militare statunitense, da parte del Regno, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait.
I lati oscuri della connection
Tuttavia, malgrado la dipendenza reciproca, i rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non sono apparsi, nei decenni, sempre idilliaci. Troppe differenze di struttura tra i due paesi li rendono per molti versi incompatibili. Innanzitutto, un’Arabia Saudita retta da una dinastia reale che è emanazione di una corrente religiosa rigorosa e intransigente, lo Wahabismo, e che sola ha accesso al potere, che perpetua il proprio insediamento alla guida del paese distribuendo le massime cariche del paese, politiche ed economiche, ai propri discendenti, che intasca i proventi delle risorse petrolifere nazionali, che impone ai propri cittadini leggi ferree di derivazione religiosa, diventa in molti casi un alleato alquanto imbarazzante per un paese, gli Stati Uniti, che da decenni si propone come principale modello, difensore e, da qualche anno, esportatore di democrazia nel mondo. Inoltre, un terzo incomodo difficilmente superabile che ostacola l’idillio tra Stati Uniti e Arabia Saudita è costituito dalla questione palestinese, da sempre spina nel fianco nei rapporti tra i due paesi e causa di diversi fratture, seppur temporanee.
Così, fin della seconda metà degli anni ’30, quando iniziarono gli scontri tra arabi ed ebrei in Palestina, il supporto statunitense alla causa ebraica prima, e allo Stato israeliano poi, ha creato un certo disappunto in Arabia Saudita. Inoltre, non bisogna dimenticare come il rapporto esistente tra i due paesi, e la presenza statunitense nel paese dove sorgono le città sante di La Mecca e Medina, abbia fatto infuriare Osama Bin Laden, soprattutto da quando, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait, i sovrani sauditi preferirono essere difesi dall’esercito statunitense piuttosto che affidarsi ai suoi mujaheddin. Questa scelta attirò l’ostilità di al-Qaeda verso i Saud, il cui paese ha subito, prima e dopo l’11 settembre, diversi attentati.
D’altra parte, il partenariato con i sauditi da un lato e con Israele dall’altro ha in altrettante occasioni creato ingenti difficoltà agli Stati Uniti, che da decenni si trovano, pur essendo una superpotenza mondiale, ad essere in un certo senso “ostaggio” dei propri alleati, che, a loro volta, dipendono comunque dal supporto statunitense. Questo intricato meccanismo ha rischiato più volte, nei decenni, di implodere e di collassare: tuttavia, i reciproci interessi in gioco tra i tre paesi hanno fatto sì che le alleanze incrociate resistessero agli scossoni portati dalla storia.
L’esempio più evidente fu la crisi del 1973, quando, in seguito al supporto statunitense ad Israele durante la cosiddetta guerra del Kippur tra le forze di difesa israeliane e l’esercito egiziano, l’Arabia Saudita decise di partecipare all’embargo petrolifero contro gli Stati Uniti ed altri paesi indetto dai principali stati esportatori di petrolio, causando così una crisi petrolifera a livello globale.
11 settembre 2001: la fine della connection?
La crisi più dura che la connection statunitense saudita si è trovata ad affrontare è senza dubbio quella dell’11 settembre 2001. La scoperta che ben 15 dei 19 esecutori degli attacchi di quel giorno fossero di nazionalità saudita non ha lasciato indifferente l’amministrazione e l’opinione pubblica statunitense. Un conseguente raffreddamento nei rapporti sembra essere seguito, con gli Stati Uniti che, oltre ad aver diminuito il flusso di armi verso l’Arabia Saudita, iniziarono a rivolgere maggiore attenzione verso altri paesi della regione, come l’Iraq post-Saddam, la Turchia, il Pakistan e, al contempo, potenziarono ulteriormente il legame con Israele.
Il governo saudita, da parte sua, cercò fin dall’inizio di dissociare l’immagine del proprio paese da quella dei dirottatori dell’11 settembre, collaborando con gli Stati Uniti nella cosiddetta “Guerra al Terrore” e attuando una serie di nuove politiche anti-terrorismo in Arabia Saudita e internazionalmente. Inoltre, poco dopo l’11 settembre, l’Arabia Saudita firmò un contratto da 14 milioni di dollari con Qorvis, un’agenzia di Public Relations di Washington, affinché lanciasse una campagna volta a riabilitare l’immagine del paese negli Stati Uniti, attraverso spot televisivi preparati ad hoc, che evidenziavano i legami dei governanti sauditi con quelli statunitensi, così come i “valori condivisi” di Stati Uniti e Arabia Saudita.
In realtà, se molti analisti dimostrano come i rapporti tra i due paesi, dopo l’11 settembre, siano crollati drasticamente, essi non sono mai stati interrotti. Un’interessante inchiesta sviluppata dal giornalista Gerald Posner1 racconta come i servizi segreti statunitensi avrebbero interrogato, dopo averlo catturato, Abu Zubaydah, un membro di al-Qaeda vicino a Bin Laden, ottenendo da questi i numeri di telefono privati del principe Ahmed Bin Salman Bin Abdul Aziz, il nipote del re saudita Fahd, di altri due principi sauditi, nonché del capo dell’aeronautica pakistana, Mushaf Ali Mir. Dopo circa tre mesi dalla divulgazione di tali rivelazioni, Posner racconta come tutti i personaggi denunciati da Zubaidah siano morti in misteriosi incidenti. Tali fattori, tuttavia, sembrano essere stati, secondo Posner, trascurati dalle indagini sull’11 settembre, tanto che la più completa indagine ufficiale, effettuata dalla statunitense National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, non soltanto non si perita di azzardare un giudizio sulla veridicità delle rivelazioni di Zubaidah, ma non racconta nemmeno delle morti sospette ad essa seguita. Secondo Posner, l’amministrazione Bush avrebbe all’epoca bloccato un’inchiesta della CIA su questi fatti, con l’intento di coprire il possibile coinvolgimento di alcuni membri della famiglia reale saudita negli attacchi dell’11 settembre.
L’esempio portato da Posner dimostra come da un lato l’amministrazione Bush si sia trovata, dopo l’11 settembre, nella situazione di dover dimostrare pubblicamente un certo distacco nei confronti del partner saudita, mentre dall’altro essa non abbia mai inteso recidere i legami con l’Arabia Saudita, né abbandonare la struttura economica e difensiva che con i Saud ha costruito in decenni di attività. Ne sono ulteriore prova le tre visite diplomatiche che dal 2002 al 2008 il re saudita Abdullah ha effettuato negli Stati Uniti, e le due visite di George W. Bush nel regno saudita del 2008, che rappresentano il primo caso di una duplice visita, da parte di un presidente statunitense, allo stesso paese in meno di quattro mesi.
L’amministrazione Obama e le sfide dei prossimi decenni
L’amministrazione Obama non sembra aver abbandonato la politica precedente nei riguardi dell’Arabia Saudita.
Inoltre, il fatto che quasi dieci anni siano passati dagli attacchi dell’11 settembre e che nel frattempo l’opinione pubblica si sia concentrata su altre questioni, come l’Afghanistan o l’Iraq, permette all’amministrazione Obama una maggiore libertà di avvicinamento, anche pubblico, al tradizionale partner saudita.
D’altra parte, gli Stati Uniti che Obama si trova a dover governare sono profondamente diversi da quelli del 2001: da un lato, le ingenti operazioni militari in Afghanistan e Iraq hanno messo a dura prova le casse del governo statunitense; dall’altro, la crisi globale iniziata nel 2008 proprio negli Stati Uniti ha fiaccato ulteriormente l’economia del paese. Inoltre, la crescente esuberanza iraniana nella regione, unita allo sviluppo di potenze asiatiche regionali sempre più alla ricerca di petrolio per carburare la crescita delle rispettive economie, sembrano non aver lasciato agli Stati Uniti altra scelta che un accelerazione nel riavvicinamento al Regno saudita in chiave strategico- difensiva, come nella migliore tradizione della storia dei due paesi.
Così, alle metà di settembre del 2010 gli Stati Uniti hanno concluso un affare da circa sessanta miliardi di dollari per la vendita all’Arabia Saudita di armamenti e mezzi militari. L’accordo prevede, nell’arco dei prossimi dieci anni, la fornitura di 84 nuovi caccia da combattimento F-15, che assicureranno la superiorità dell’aeronautica saudita su quella iraniana per circa un decennio, oltre ad un maggior livello di interoperabilità con le forze aeree statunitensi; la fornitura di circa 150 elicotteri da combattimento Apaches, Black Hawks e Little Birds; il riassetto e l’aggiornamento di alcuni mezzi aerei già in dotazione all’aeronautica saudita; la fornitura di razzi aerei ad alta precisione; la fornitura di diverse navi da guerra che dovrebbero monitorare le coste saudite e gli impianti di estrazione petrolifera offshore.
Una tale mossa si rivela al momento vantaggiosa per gli Stati Uniti in più direzioni: da un lato, le entrate assicurate da una tale vendita serviranno a ridare vigore all’economia statunitense, ravvivandone le esportazioni e l’afflusso di denaro nel mercato interno; dall’altro, l’armamento dell’esercito saudita consentirà di delegare all’Arabia Saudita le attività di difesa, fornendole una maggiore indipendenza e risparmiando così al Governo americano ulteriori futuri dispendi a tale fine, anche nell’ipotesi di un attacco iraniano al di fuori dei propri confini.
Inoltre, la conclusione dell’affare sembra voler sancire la volontà, anche da parte dell’amministrazione Obama, di fondare il sistema di sicurezza in Medio Oriente ancora sull’Arabia Saudita, oltre che sullo storico alleato Israele, alla luce dell’instabile situazione irachena e della perdita di affidabilità da parte dell’altro alleato tradizionale, il Pakistan. Infine, un riavvicinamento alla maggiore riserva petrolifera del mondo servirà da ammonimento alle nuove potenze emergenti, sempre più assetate di petrolio e sempre più intenzionate a circuire i paesi esportatori.
Di converso, la notizia dell’accordo commerciale tra Stati Uniti ed Arabia Saudita sembra essere stata accolta in Israele con apprensione. Secondo il quotidiano Haaretz, fonti dell’apparato di difesa nazionale avrebbero rivelato la preoccupazione che le armi in dotazione all’Arabia Saudita possano essere usate, in futuro, contro il territorio israeliano. Malgrado le rassicurazioni da parte del Governo statunitense, secondo cui gli armamenti avranno la sola funzione di contenimento nei confronti di eventuali azioni ostili dell’Iran, il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha chiesto agli Stati Uniti di garantire che i mezzi venduti all’Arabia Saudita non saranno più avanzati di quelli in dotazione alle forze israeliane, in modo tale da non perdere la superiorità militare. Anche in questo caso, come in passato, gli Stati Uniti si sono trovati a dover mediare tra due alleati importanti, Israele ed Arabia Saudita, in contrasto tra loro.
Malgrado queste complicazioni, la scelta di scommettere sull’Arabia Saudita appare probabilmente obbligata in un tale scenario. In realtà, pur essendosi verificato un certo raffreddamento temporaneo, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati interrotti. D’altra parte, la storia della connection statunitense saudita non era, nemmeno prima dell’11 settembre, connotata da una perenne sintonia, quanto piuttosto da una serie di accordi intervallati da scossoni di disappunto.
Quello che più stupisce, a mio avviso, nella notizia del nuovo accordo commerciale con l’Arabia Saudita, non è tanto il riavvicinamento degli Stati Uniti con il Regno dei Saud, quanto piuttosto le modalità con cui questo è avvenuto.
Infatti, appare quantomeno controverso il fatto che un Presidente come Barak Obama, che ha formato la propria immagine sulla promessa di un cambiamento nelle direzioni politiche statunitensi, che ha dimostrato in diversi interventi ufficiali una volontà di approccio nuovo alle crisi mediorientali, intenda costruire un sistema di sicurezza basato sul potenziamento dell’arsenale militare di un paese che difficilmente si può considerare equilibrato e totalmente distaccato dall’islamismo organizzato. La politica statunitense di armamento in chiave difensiva di paesi alleati contro potenze ostili risale ai tempi della guerra fredda, e ha creato, nei decenni, alcuni mostri come l’Afghanistan dei Talebani o il Pakistan nucleare.
La scelta di ricorrere ad una tale soluzione strategica risulta oggettivamente assai vantaggiosa nelle contingenze attuali, ma appare poco lungimirante e mina, a mio avviso, quella promessa di innovazione e di nuovo corso della politica statunitense su cui Barak Obama ha costruito la propria immagine e la propria fortuna. Se ad una politica difensiva cautelativa, come quella appena descritta, l’amministrazione Obama sarà in grado di associare la costruzione di un dialogo con l’Iran basato su trattative e su negoziati, piuttosto che su deterrenze muscolari, allora potrà dirsi veramente compiuto il nuovo corso della politica estera statunitense.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
1 Gerald Posner, Secrets of the Kingdom. The inside story of the Saudi-U.S. connection, Random House Trade Paperbacks, New York 2005.
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