Il blocco eurasiatico, se emergerà, potrebbe essere l’evento geopolitico più importante della storia recente dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Giorgio S. Frankel
(A.A., Tornare a crescere, Milano, 2006)
L’accelerazione della storia e la dimensione continentale
Il vuoto geopolitico verificatosi con il crollo dell’Unione Sovietica ha favorito l’espansione economica e militare degli USA in gran parte della massa continentale eurasiatica. Le amministrazioni statunitensi che si sono succedute alla Casa Bianca nel corso degli ultimi sedici anni hanno sostenuto tale espansione basandosi su dottrine (e pratiche) geopolitiche la cui più esatta formulazione, nonostante aggiustamenti e ritocchi, rimane tuttora quella delineata, nel 1997, da Zbigniew Kazimierz Brzezinski nell’articolo “A geostrategy for Eurasia” e in The Grand Chessboard. American Primacy and It’s Geostrategic Imperatives, un testo ormai diventato un classico della letteratura specializzata.
Come noto, l’ex consigliere del presidente Carter suddivideva il continente eurasiatico in quattro regioni principali: Europa, Russia, Asia e Vicino Oriente. Brzezinski, nel quadro degli “imperativi” geostrategici statunitensi, riteneva che l’Europa, definita come la “periferia occidentale dell’Eurasia”, dovesse rivestire il ruolo di testa ponte (democratic bridgehead) funzionale alla espansione della “nazione indispensabile” in Asia Centrale, mentre la Cina (the easter anchor) quello del paese ove ancorare l’impegno americano in Asia; sosteneva, inoltre, che la Russia, fin tanto che non si fosse ridefinita come uno stato postimperiale, sarebbe rimasta a lungo politicamente inerte, rappresentando il “buco nero” dell’intero continente, e stimava che il Vicino Oriente, frammentato e in continuo stato di tensione, si sarebbe caratterizzato sempre di più come i Balcani della massa eurasiatica. Su una scacchiera del genere , senza alcun “competitor” di rilievo, nulla sembrava impedire, sul finire degli anni novanta, agli USA la conquista dell’Eurasia e, dunque, di ergersi a unica potenza mondiale.
Oggi, a distanza di appena 9 anni, il quadro delineato da Brzezinski appare parzialmente mutato. La penetrazione americana in Eurasia è certamente ancora in corso, tuttavia alcune condizioni che la favorivano sembrano essere venute meno.
La Russia, a partire dall’insediamento di Putin ai vertici del Cremino, non è più quel “buco nero” nel quale era sprofondata durante la presidenza di Boris Elc’in. Il presidente russo, nello spazio di pochi anni, è riuscito infatti a tessere una serie di relazioni tali da rilanciare la Russia, almeno nella parte orientale d’Eurasia, quale insostituibile punto di riferimento per le repubbliche centroasiatiche, e le nazioni emrgenti: l’India e la Cina.
La Cina, nonostante le attenzioni degli USA, non rappresenta certamente l’auspicato ancoraggio per l’espansione statunitense in Asia, tutt’altro.
Lo strapotere della potenza extracontinentale, accentuatosi con le occupazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha sortito l’effetto di accelerare i progetti di integrazione grancontinentale che spesso, per ragioni pragmatiche, accidentali e in genere correlate a politiche di egemonia regionale, i governi di Cina, India e Russia hanno reciprocamente proposto gli uni agli altri negli ultimi anni.
Passi verso l’integrazione eurasiatica
Le divergenze che, nel passato, anche recente, opponevano tra loro le grandi nazioni asiatiche (Cina e India) e la Russia sembrano essere ora superate dagli importanti accordi economici siglati ultimamente, dalle esercitazioni militari congiunte, e dalle manifestazioni di amicizia e simpatia ostentate in occasione di importanti summit.
In questo nuovo contesto, le classi dirigenti di Mosca, Pechino e Delhi sembrano condividere una “visione eurasiatica”, che va sempre più definendosi e articolandosi nell’immenso spazio continentale. Esempi rilevanti di questa comune visone che si concretizza in un “progressivo avvicinamento strategico” tra i maggiori paesi della massa continentale eurasiatica, sono, tra gli altri: l’intenzione dei paesi membri del Patto di Shangai di allargare l’omonima organizzazione di cooperazione (SCO) anche a India, Pakistan, Mongolia e Iran (1), l’opposizione di Pechino alle sanzioni contro Teheran, il recente e importante “maxiaccordo” energetico tra Cina e Iran (2), e da ultimo, in ordine di tempo, la riapertura del passo Nathula tra Cina e India, preludio alla costruzione di una grande rete ferroviaria che dal Tibet dovrebbe arrivare fino a Delhi e a Calcutta (3).
Intenzioni politiche di grande rilievo militare, economico e commerciale, infrastrutture a valenza continentale, gestione comune di risorse energetiche sono le solide basi per costruire una alternativa al sistema unipolare.
Note
1. “Alla SCO stanno per aderire, oltre all’Iran, anche l’India, il Pakistan e la Mongolia. In pratica, una volta concluse le trattative d’ingresso, il gruppo racchiuderebbe quattro potenze nucleari (Russia, Cina, India e Pakistan), due potenze economiche emergenti (Cina e India), due grandi produttori di risorse energetiche (Russia e Iran), due potenziali produttori (Kazakistan e Uzbekistan), ma soprattutto quattro paesi detentori delle pipeline che potrebbero portare il greggio dall’Iran verso la Cina e l’India (Tajikistan, Uzbekistan, Pakistan e Kirghizistan) con il potenziale contributo interessato del Turkemenistan”. (V. Maddaloni, A. Modini, L’atomica degli ayatollah, Roma, 2006, p. 102-103)
2. “All’embargo, Pechino preferisce la diplomazia, e quindi la continuazione del dialogo in seno all’AIEA. In quella sede, nel settembre 2005, la Cina si era peraltro astenuta dal votare la risoluzione secondo cui l’Iran avrebbe violato il Trattato di no proliferazione nucleare. La Cina è quindi un importante alleato per l’Iran, ma è vero anche il contrario e lo dimostra la visita del febbraio 2006 del ministro degli esteri Li Zhaoxing a Teheran e quella di Cui Tiankai, il dirigente del ministro degli esteri cinese che venerdì 14 aprile si è recato nella capitale iraniana. Gli interessi economici in gioco sono molti: Pechino è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per consumo mondiale di energia, pari a 7,4 milioni di barili al giorno. La Cina importa il 36% del suo fabbisogno energetico, di cui un terzo dall’Iran che è quindi il secondo fornitore di greggio dopo l’Arabia Saudita. A marzo 2006 Pechino e Teheran hanno firmato un maxiaccordo energetico in base al quale l’ente petrolifero di stato cinese SINOPEC è diventato azionista nei giacimenti iraniani di Yadavaran da cui saranno estratti fino a 3000 000 barili al giorno. […]. Dal punto di vista giuridico, la SINOPEC diventa azionista del centro di Yadavaran ed è seguita dalla India Oil and Natural Gas Corporation con una quota di minoranza del 29%”. (Farian Sabahi, Storia dell’Iran, Milano, 2006. p. 243)
3. “La riapertura del Nathula è il primo tassello di progetti grandiosi: la costruzione di una grande rete ferroviaria che colleghi il nuovo treno appena inaugurato fra la Cina e il Tibet, prolungandone il servizio fino a Delhi e Calcutta; più valanghe di asfalto da aggiungere al gigantesco network di autostrade (141 000 chilometri) in costruzione fra Cina, India, Vietnam, Thailandia, con sbocchi fino all’Asia centrale e l’Europa. E’ il disegno annunciato nell’aprile 2005 dal premier cinese Wen Jiabao in visita alla Silicon Vallley indiana di Bangalore, quando profetizzò che Cina e India costruiranno insieme il “secolo asiatico”. Una visione avveniristica e al tempo stesso un ritorno al passato: nel 1750 questi due paesi rappresentavano insieme il 57% della produzione manifatturiera mondiale, il loro interscambio era il baricentro dell’economia globale di allora”. (Federico Rampini, Accordo tra Cina e India. Riapre la Via della seta, in La Repubblica, 19 giugno 2006)
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