In questi tempi di crisi, in cui la borsa fa su e giù come uno yo-yo, in cui un governo commissariato sta pensando di rivolgersi alla fata Turchina pur di trovare i soldi necessari ad ottenere il pareggio di bilancio ma intanto si barrica nei bunker dei propri privilegi (ogni riferimento a fatti, persone o cose realmente accaduti non è puramente casuale), viene da chiedersi: “i militari in missione chi servono?1”.
Già, perché quando le risorse economiche scarseggiano e il paese sguazza in sabbie mobili che lo inghiottono di più giorno dopo giorno, mettere insieme un gruzzolo da svariati zeri sembra fantascienza. Ma a volte la realtà supera la fantasia: ci si riferisce all’Afghanistan, un paese reale, una missione reale con costi, ahi noi, più che reali. Questa, però, è un’altra storia.
C’è un altro paese, con difficoltà economico – finanziarie e spese belliche altrettanto reali, sebbene di molto maggiori in quantità, l’America; quest’ultima però ha aspirazioni, o smanie dipende dai punti di vista, che l’Italia non può permettersi di avere. Complice l’innegabile potenza – possiamo ammetterlo, anche superiorità – su un piano geo – politico e militare, gli States si sentono un po’ i garanti morali e materiali dell’ordine mondiale, i paladini della democrazia, i principi azzurri delle varie cenerentole oppresse di turno (salvo poi, eventualmente, opprimere nelle più svariate forme e maniere).
Tutto questo ha una data di inizio, il 1945, ma anche una data di ufficializzazione, il 2002, anno di nascita della ‘dottrina Bush’. Parliamo di Bush jr., e parliamo degli anni della guerra al terrore, al terrorismo, ai terroristi; quindi parliamo della missione in Afghanistan, ma soprattutto dell’operazione “Iraqi Freedom”, “Libertà in Iraq”; si avvicina a grandi passi il decimo anniversario dell’ 11/09, vale la pena ricostruire il discorso che spinse il governo americano in Iraq, anche perché le conseguenze della suddetta campagna si trascinano ancora otto anni dopo, anche se non fanno più notizia.
LO ZIO SAM CUSTODE E PROMOTORE DELL’ORDINE MONDIALE
Non potrebbe trasparire in modo più chiaro la missione salvifica che si è assunta l’America ergendo la ‘dottrina Bush’ a politica di stato: “The U.S. national security strategy will be based on a distinctly American internationalism that reflects the union of our values and our national interests. The aim of this strategy is to help make the world not just safer but better. Our goals on the path to progress are clear: political and economic freedom, peaceful relations with other states, and respect for human dignity…”2.
Ma cosa predica questa ‘dottrina Bush’? Parte dal presupposto che gli USA sono l’unica super potenza a livello mondiale e che sia necessario preservare tale preminenza, questo non soltanto a vantaggio degli Stati Uniti ma del mondo intero, che ne sarebbe ugualmente beneficiato. Infatti, nell’ambito del discorso dal quale è tratta la suddetta citazione, il presidente Bush ha palesato la necessità, per lo Stato da lui rappresentato, di mantenere la forza difensiva al di sopra di ogni eventuale o possibile minaccia in modo che questo possa fungere anche da deterrente per potenziali azioni ostili. La visione neoconservatrice – evidentemente condivisa dal presidente texano – vede nell’onnipotenza e nella leadership americane la conditio sine qua non mantenere un ordine mondiale favorevole perché ‘l’egemonia americana è l’unica tutela possibile per la pace e l’ordine mondiali’, come hanno esternato altri due esponenti del movimento conservatore, William Kristol e Robert Kagan.
Realizzata questa condizione, si persegue anche un altro obbiettivo: far diventare conveniente stare dalla parte del più forte o, come amano dire i due personaggi su citati, ‘saltare sul carro dei vincitori’. Uno stato largamente più forte degli altri, infatti, non ha difficoltà ad ottenere ciò che ritiene parte dei propri interessi, anche se questo dovesse richiedere il ricorso alla forza, per cui ‘tanto vale …’; del resto, “everybody loves a winner”3, anche se forse Ahmadinejad & Co. potrebbero dissentire.
Trasportando questo primo punto della dottrina Bush nella realtà mediorientale, appaiono sin troppo succulente le conseguenze della possibilità di far salire sul proprio carro due paesi come l’Iraq e la Turchia: mutando gli equilibri regionali, con la bilancia favorevole a Washington, diventa plausibile ‘convincere’ ad unirsi anche gli altri stati della zona – poco importa se il tutto è il risultato della politica del regime change, ovvero cambio di regime imposto, anziché del diritto all’autodeterminazione e sovranità nazionali.
Il secondo punto è il ricorso preventivo alla forza delle armi – quindi alla guerra – quando le circostanze lo richiedono. Il clima post-11/09 ha fatto sì che si identificasse la minaccia suprema con il terrorismo, che aveva dato abbondantemente prova delle sue intenzioni di annientare la potenza americana mettendo in campo il massimo potenziale distruttivo a disposizione. Questo ha permesso agli ‘interventisti’ di sbandierare la necessità di avere ragione presto e in modo assoluto di tale pericolo prima che si manifestasse nuovamente ed in maniera totale. Come si suol dire? La miglior difesa è l’attacco.
Il terzo elemento della dottrina in esame è un unilateralismo spinto che segue naturalmente ai primi due punti e che affonda le sue radici in una incrollabile fede nella potenza militare americana.
Infine, c’è il tema dell’esportazione della democrazia, della quale gli States si sono assunti piena responsabilità; questo rivela l’assunzione della stessa democrazia a valore assoluto, dunque necessariamente positivo, per tutti gli Stati moderni in maniera totalmente acritica, ed eletto dunque a discrimine per distinguere gli stati buoni da quelli cattivi 4.
GLI INTERVENTISTI
Questi i punti cardine della tesi a favore dell’intervento militare in Iraq.
In realtà, a questo piccolo e sommario puzzle manca ancora una tessera fondamentale, dal momento che la minaccia terroristica non porta direttamente, o almeno non soltanto, in Iraq; il trait d’union è fornito dal dittatore giustiziato Saddam Hussein. Già, perché in realtà l’equazione ‘terrorismo uguale Saddam Hussein’ è stata tutto sommato un artificio dell’amministrazione Bush costruito ad hoc per intervenire laddove era interesse del governo intervenire – tutti ci ricordiamo delle famigerate armi di distruzione di massa o chimiche che fossero che non sono mai state trovate. Gli Stati Uniti avevano interesse a penetrare in Iraq per diverse ragioni, più stringenti di quanto fosse l’esigenza di regalare la democrazia ad un popolo sottoposto ad un regime oppressivo e sanguinario; l’Iraq doveva essere soltanto un primo passo in Medio Oriente: l’America avrebbe liberato tutti i paesi della zona da amministratori dispotici (e sostanzialmente anti – occidentali) per implementarvi governi illuminati e democratici – e possibilmente filo – occidentali – rendendo automaticamente l’area molto meno conflittuale, e dunque anche habitat migliore per chi democratico lo era già dalla nascita, per altro unico esempio nella zona.
Una delle altre ragioni che possono essere menzionate si chiama petrolio, e non è neanche necessario aggiungere altro.
Ma vogliamo tenere presente soprattutto l’altruismo dello zio Sam: Saddam Hussein era un soggetto politico estremamente pericoloso, che nel suo pluridecennale governo aveva dato prova in più occasioni di avere mire espansionistiche e bellicose verso i paesi limitrofi e non solo – dunque un aggressore seriale – che per le sue ideologie ed il suo atteggiamento poteva essere paragonato ad Hitler (e di fatto fu così), che aveva armi di distruzione di massa che poteva utilizzare o cedere ad al-Qaida, che opprimeva il suo popolo ed aveva progetti di pulizia etnica verso la minoranza curda; insomma, andava fermato a tutti i costi e il popolo iracheno liberato.
‘I NEUTRALISTI’
Sebbene la storia sia andata come sappiamo, all’interno dell’amministrazione Bush c’era anche chi dissentiva rispetto all’obbligatorietà dell’intervento armato nell’Antica Babilonia; evidentemente una posizione di minoranza che non è riuscita a ricavarsi il giusto spazio per far sentire la propria voce, ma ugualmente interessante da considerare brevemente. Nel fare si va a scomodare due autorevolissimi personaggi del mondo non soltanto accademico americano, John Mearsheimer e Stephen Walt, per offrire una panoramica puntuale delle confutazioni alle motivazioni addotte dai fautori della guerra preventiva.
- L’Iraq ha una politica estera aggressiva ed espansionistica; falso: nei trent’anni di potere di Saddam, sono state intraprese soltanto due guerre – contro l’Iran nel 1980 e contro il Kuwait nel 1990; la media a questo proposito non è peggiore, nel senso di più alta, di altri paesi dell’area, come l’Egitto o Israele, che dal 1948 hanno giocato un ruolo attivo nel provocare diversi conflitti. Nella guerra contro l’Iran, inoltre, gli Stati Uniti in primis, insieme a diversi altri paesi arabi, hanno supportato materialmente l’Iraq di Saddam come il minore dei due mali;
- L’Iraq possiede armi di distruzione di massa; falso: non è stata trovata alcuna arma del genere. Ma anche se fosse stato vero, gli Stati Uniti avrebbero potuto pacificamente dissuadere Saddam dal ricorrervi, esattamente come era avvenuto con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda;
- Gli USA non possono contenere l’Iraq, dunque è necessaria una guerra preventiva; falso: storicamente gli Stati Uniti hanno dato prova di riuscirvi perfettamente;
- Esattamente come Saddam Hussein usò armi chimiche contro i curdi, potrebbe utilizzarle contro gli USA; altamente improbabile: se poté ricorrervi contro i curdi fu perché questi non potevano reagire minacciando seriamente il paese, mentre la stessa ratio non è assolutamente applicabile agli Stati Uniti; questi posseggono una forza ed una potenza militari ben superiori a quelle irachene, senza contare le armi di distruzione di massa (loro sì!). È per questo, aggiungono i due autori, che ‘Mr. Hussein non usò armi chimiche o biologiche contro le forze americane o israeliane nel 1991’;
- Saddam Hussein potrebbe cedere le sue armi di distruzione di massa a gruppi terroristici quali al-Qaida; falso: se c’è una cosa evidente negli anni di governo di Saddam è che questi intendeva rimanere al potere il più a lungo possibile e, di conseguenza, non avrebbe mai ceduto queste famigerate armi a gruppi terroristici anti – americani perché ciò avrebbe significato una sicura quanto rapida fine del suo governo. In poche parole, facendo una cosa del genere, il dittatore iracheno aveva molto poco da guadagnare e tutto da perdere.
Personalmente, ne aggiungerei una sesta: il fatto che Saddam abbia ignorato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che questo possa essere addotto come ulteriore elemento pro – intervento è alquanto pretestuoso; mi viene in mente almeno un altro caso di paese che ha costantemente ignorato le risoluzioni ONU, durante tutto il corso della sua ‘breve’ storia, e provvedimenti in merito non sono mai stati neanche paventati.
Da questi pochi punti possiamo trarre un’importante quanto semplice conclusione: le motivazioni addotte dai fautori dell’intervento in Iraq semplicemente sono prive di ogni fondamento.
ANCORA NON E’ FINITA
Torniamo al 2011. Attualmente la situazione non è affatto definita: il governo di unità nazionale presieduto da Nuri al-Maliki è, ovviamente, estremamente composito e si mantiene in un equilibrio abbastanza precario; mentre la maggioranza pochi giorni fa si è seduta volentieri al tavolo americano delle trattative per prolungare la permanenza – il cui termine ultimo è fissato per la fine di quest’anno – dei corpi militari statunitensi con lo scopo di addestrare esercito e polizia locale, Muqtada al-Sadr, esponente della fazione sadrista che nel governo conta decine di deputati e più di qualche ministro, ha tuonato: ‘ Tratteremo chiunque rimanga in Iraq dopo il 2011 come un occupante oppressore a cui bisogna resistere con le armi’.
I colloqui per un verosimile prolungamento della permanenza delle forze d’oltreoceano in Iraq si sono resi in qualche modo necessari a causa della recrudescenza della violenza degli ultimi tempi, mai veramente sopita, che a sua volta dimostra l’impreparazione delle forze armate locali a fronteggiare situazioni di tensione o peggio. È sostanzialmente per questo che la classe dirigente irachena sembra essere interessata a discutere di uno slittamento della deadline per il ritiro totale delle forze americane, nonostante l’opinione pubblica sia piuttosto contraria. Anche i diversi attentati di cui sono bersaglio le stesse forze di polizia irachene non aiutano la costruzione della sicurezza del paese, e meno che mai la tranquillità psicologica della popolazione, avendo semmai l’effetto controproducente di mettere prima di tutto a nudo l’inesperienza ed incapacità degli uomini in divisa autoctoni.
In questa nebbia che rende tutto caotico riesce a farsi vedere nitidamente il vicino più ingombrante, l’Iran; il presidente della Repubblica Islamica si è detto disposto a sostenere la restaurazione della sicurezza e dello sviluppo in Iraq, nonché ad una piena collaborazione con Baghdad sulla scia delle affinità culturali e storiche che legano i due paesi. Il fatto poi che abbia affermato di considerare chi ostacola la ripresa del paese anche un proprio nemico, potrebbe mettere la pulce nelle orecchie americane, soprattutto perché pare condividano addirittura un obbiettivo, stando a quanto dichiarato dal presidente iraniano stesso: ‘un Iraq sviluppato e stabile avrebbe benefici non solo sull’Iraq ma sull’intera regione’ (anche se azzarderei che siano profondamente opposte le implicazioni della stabilità irachena per ciascuno di essi). Del resto, Ahmadinejad non ha fatto mistero della sua opinione: ‘Crediamo che i problemi della regione vadano risolti con la collaborazione e l’assistenza degli stati della regione’; non credo di allontanarmi troppo dalle intenzioni del parlante parafrasando liberamente con ‘Go on home American soldiers’.
Sicuramente i personaggi che all’epoca caldeggiavano un intervento armato nella regione non avevano in mente esattamente questo esito: un paese che ha democraticamente eletto un governo a maggioranza sciita, perché sciita è la maggioranza della popolazione, corteggiato da uno dei pochi Stati che non si è inchinato di fronte allo strapotere americano.
Sfidare con presunzione la sorte può essere pericoloso, oltre che controproducente.
* Paola Saliola è dottoressa in Lingue e civiltà orientali presso l’Università La Sapienza di Roma
1 Citazione di “Cose che non capisco”, Caparezza, Il sogno Eretico, 2011.
2 Abstract del documento di trenta pagine diffuso dalla Casa Bianca il 17 settembre 2002 intitolato “The National Security strategy of the United States”, a sua volta nato dall’ispirazione di una lettera inviata dallo stesso George W. Bush.
3 Cfr., C. Kaysen, S.E. Miller, M.B. Malin, W.D. Nordaus, J. Steinbruner, War with Iraq – Costs, Consequences, and Alternatives, American Academy of Arts and Sciences, 2002, p. 11.
4 Mi permetto di ricordare che, a quanto pare, se la democrazia gode di profondo ed infinito rispetto oltreoceano, non è così per i risultati cui questa può portare; Gaza docet.
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