Ventiquattr’ore dopo la deposizione del presidente Hosni Mubarak, un’importante emittente europea ha avuto l’ardire di titolare così un proprio servizio: “Per la prima volta in trenta anni l’Egitto scopre la democrazia”. Chi ha scelto questo titolo deve avere un’idea molto originale della “democrazia”. Per quanto Mubarak fosse un despota autoritario, le elezioni una farsa, la costituzione disattesa grazie alle leggi d’emergenza in vigore da decenni, ciò che è accaduto in Egitto, negli ultimi giorni, è di fatto questo: che un presidente eletto è stato rimpiazzato da una giunta militare, il parlamento disciolto e la costituzione sospesa. Questa non è democrazia, è (ancora) dittatura militare. E perciò quella in Egitto non è stata, per ora, una rivoluzione – come molti, compresa “Wikipedia”, s’ostinano a chiamarla – bensì un colpo di Stato militare.
Un colpo di Stato che cambierà molte cose, ma di certo non sovverte né tanto meno rivoluziona l’Egitto. Perché l’Egitto è un regime militare dalla Rivoluzione del 1952. Anche quella fu un golpe militare, in realtà, ma merita l’appellativo di rivoluzione, perché depose un monarca e varò una repubblica ispirata ai valori del socialismo, del panarabismo e dell’anti-imperialismo. Nasser incarnò questi valori, i suoi successori li abbandonarono. Sadat abbandonò la lotta a Israele e s’allineò agli USA, inaugurò quel processo, poi portato a compimento da Mubarak, di privatizzazione dell’economia in linea coi dettami neo-liberali del Washington Consensus. Ma se sono cambiati i contenuti, non è cambiata la forma. Sadat e Mubarak giunsero alla presidenza da alti ufficiali militari, ed in questi sessant’anni le Forze Armate hanno acquisito un enorme potere in Egitto, non solo a livello politico ma anche economico. Le FF.AA. egiziane sono una specie di holding che controlla ampi settori dell’economia, e non in virtù del loro valore strategico, ma del potenziale di profitto. I militari egiziani hanno terre, immobili – inclusi resort a Sharm ash-Shaikh – e stabilimenti industriali, che producono dagli elettrodomestici all’olio d’oliva.
Hosni Mubarak, ormai ultraottantenne e gravemente malato (fonti giornalistiche affermano che sarebbe attualmente in fin di vita), non faceva mistero di ambire alla successione al potere di suo figlio Gamal. La prospettiva di vedere Gamal Mubarak divenire prossimo presidente – e dunque despota – d’Egitto non piaceva ai militari, e per due ragioni. La prima è che Mubarak Jr. non è uno di loro, non ha mai servito nelle FF.AA., e la sua ascesa al vertice dello Stato avrebbe significato la fine del regime militare, a vantaggio d’un regime familiare o, quanto meno, d’un sistema di potere imperniato sul Partito Nazionale Democratico (fondato da Sadat e poi egemonizzato dalla famiglia Mubarak). La seconda è che Gamal Mubarak, legato a doppio filo alla finanza anglosassone, è stato il regista del ciclo di privatizzazioni che ha caratterizzato l’economia egiziana negli ultimi anni. Privatizzazioni che, ovviamente, minacciano l’impero industriale-finanziario delle Forze Armate egiziane.
Il clan dei Mubarak era odiato, per tante buone ragioni, anche dalla maggior parte degli Egiziani (come le stesse elezioni, pur truffaldine, del 2005 dimostravano, allorché il PND usciva sconfitto da quasi tutti quei pochi seggi in cui era permesso di candidarsi a veri oppositori). Mubarak ha continuato, come i predecessori, a conculcare le libertà civili degli Egiziani, ed ha retto il suo governo sulla forza bruta e la repressione. Ha tradito gl’ideali panarabi ed il senso di solidarietà tra musulmani stringendo un’alleanza informale con Israele, tanto da rendersi complice del blocco imposto alla Striscia di Gaza. Ha, infine, distrutto, o permesso la distruzione, dell’economia egiziana. Quel paese che Nasser aveva lanciato sulla via dello sviluppo, e che negli anni ’70 era al livello delle più prospere economie asiatiche (ovviamente escluso il Giappone), dagli anni ’80 ha vissuto un progressivo declino in concomitanza con le riforme neoliberali. La demolizione del sistema di garanzie sociali ha peggiorato il tenore di vita dei ceti più bassi. Qualcuno (in primis la famiglia Mubarak) ha accumulato enormi ricchezze, ma i più si sono impoveriti.
La crescente ostilità in seno alle Forze Armate si è incontrata con l’odio radicato tra la popolazione. Bastava una scintilla per fare esplodere la situazione, e questa scintilla è stata rappresentata dal successo (anche quello, a dire il vero, parziale) dell’insurrezione tunisina, con la fuga del presidente Ben Alì. La gente ha preso coraggio ed è scesa in piazza, prima i liberali e poi gl’islamisti, fino a raggiungere una massa d’urto che la polizia, fedele al presidente Mubarak, è stata incapace di contenere. Quando la folla ha sopraffatto la polizia è sceso in piazza l’Esercito. Le scene di giubilo della popolazione di fronte ai carri armati nelle strade, il fatto che i soldati abbiano arrestato più poliziotti e squadristi filo-Mubarak che manifestanti anti-Mubarak, dimostrano la comunità d’intenti – almeno nel breve periodo – tra popolazione e militari: entrambi volevano che Mubarak se ne andasse. I militari senza fretta: una transizione progressiva era la soluzione preferita, l’importante era che il potere non finisse a Gamal Mubarak ma ritornasse in seno alle Forze Armate, perché esprimessero un nuovo presidente tratto dalle loro fila. Forse proprio quel Omar Suleiman che il Presidente aveva nominato suo vice; quel Suleiman già capo della polizia politica e dei torturatori del regime, intimo di Washington e Tel Aviv. Il popolo, invece, più impazientemente ha spinto sull’acceleratore, chiedendo l’immediato abbandono di Mubarak. Una volta verificato che non c’era modo di calmare la piazza, i militari hanno chiesto a Mubarak di farsi da parte. Il 10 febbraio si sparse la voce che il Presidente si sarebbe dimesso: lo stesso Leon Panetta, direttore della CIA, lo anticipò al Congresso. Con grande sorpresa di molti, la sera del 10 Mubarak, nel suo ultimo discorso trasmesso in televisione, non rinunciò alla carica. L’11 non poteva che essere il giorno decisivo. I manifestanti erano decisi a marciare sul palazzo presidenziale, e l’Esercito aveva poche opzioni: difendere Mubarak sparando sulla folla, e così spezzando la “luna di miele” tra popolo e militari; lasciare che il popolo deponesse con le proprie mani il Presidente, concedendo così un pericoloso spazio di “sovranità popolare”; risolvere la situazione deponendo personalmente Mubarak e prendendosi i pieni poteri. Com’era prevedibile, hanno scelto quest’ultima opzione.
Gli USA hanno apertamente premuto per una soluzione del genere. In realtà, Mubarak è stato difeso da pochissimi paesi, tra cui spiccano, oltre all’Arabia Saudita e qualche altra tirannia araba, Israele e Italia. Altri, come la Cina, si sono limitati a condannare le ingerenze esterne: la “mano straniera” che Mubarak ha evocato nel suo ultimo discorso. In realtà, Washington non è uscita sconfitta dalla cosiddetta “rivoluzione egiziana”, e ciò perché ha saggiamente saputo giocare su più tavoli. Hosni Mubarak è stato costantemente sostenuto, diplomaticamente, economicamente, e con la consulenza della CIA in materia di repressione del dissenso, nel corso dei trent’anni in cui ha tiranneggiato l’Egitto. La grande finanza anglosassone ha cooptato e manovrato Gamal Mubarak, regista delle privatizzazioni e, fino a pochi giorni fa, probabile successore del padre alla Presidenza. Nel frattempo, la Casa Bianca, le Forze Armate statunitensi e la CIA hanno coltivato i rapporti coi vertici militari del paese arabo, prestando loro armi e consulenza (pochi giorni prima del golpe, i più alti ufficiali egiziani erano riuniti a Washington per consultazioni col Pentagono). Infine, organizzazioni “non governative” e para-governative degli USA (come il NED) già da alcuni anni hanno infiltrato la società civile e i gruppi d’opposizione al regime (vedi anche recente articolo di V. Maddaloni in questo sito). Washington, insomma, si è premunita di modo da riuscire vincitrice in ogni caso: semplicemente puntando su tutti i cavalli in corsa. O quasi.
Quasi, perché ci sono delle incognite nell’equazione egiziana. Incognite che Washington ha senz’altro previsto, ma non è ancora riuscita a controllare. In Egitto ci sono solo due grandi movimenti di massa, autentici centri di potere potenzialmente alternativi alle Forze Armate: i Fratelli Musulmani e la Chiesa Copta. Se a separarli è la fede religiosa, ad unirli è la comune ostilità verso il regime militare. Non è forse un caso che, poche settimane prima del golpe, sanguinosi attentati abbiano scatenato l’ira dei copti contro il regime e gl’islamisti. Attentati dietro cui, secondo le autorità egiziane, ci sarebbe stata una non meglio precisata “mano straniera” desiderosa di destabilizzare l’Egitto – la stessa mano straniera di cui ha parlato Mubarak nel suo ultimo discorso da presidente?
I Fratelli Musulmani hanno vissuto con Mubarak un rapporto assai peculiare. Acerrimi nemici, hanno però sviluppato una sorta di simbiosi. Nasser fu il principale persecutore della Fratellanza: costrinse Naguib, il primo presidente, a farsi da parte proprio con l’accusa d’eccessiva condiscendenza verso gl’islamisti, ed in nome della “laicità” (la laicità musulmana è comunque molto diversa da quella europea, come dimostrano i continui richiami alla legittimità ed all’appoggio divino da parte degli stessi governanti laici dei paesi arabi) e del nazionalismo li represse brutalmente. D’altro canto, Nasser era un leader idealista e carismatico, sinceramente amato dal suo popolo: lo stesso non può dirsi dei successori. Sotto di essi la Fratellanza ha ripreso a fiorire, trovando anche un modus vivendi con Mubarak: in cambio della presa di distanza dalla lotta armata (praticata da altre frange islamiste) e ad una sorta di “desistenza” elettorale, il regime ha concesso maggiori margini di manovra al movimento islamista. I Fratelli Musulmani hanno deciso di riconquistare la società egiziana dal basso, seducendo i cuori e le menti della popolazione offrendole un proprio sistema di tutele e servizi sociali. Tale strategia ha avuto tanto più successo perché messa in atto parallelamente allo smantellamento dello Stato sociale attuato da Hosni Mubarak e dal figlio – e Mubarak l’ha tollerata perché i servizi dei Fratelli Musulmani hanno rimpiazzato quelli dello Stato, neutralizzando così le ricadute sociali negative che avrebbero potuto travolgere il regime. In molte parti d’Egitto, tra cui il Cairo, la sanità “pubblica” è di fatto rappresentata dalla rete sanitaria della Fratellanza. Il ruolo degli USA e dei militari nell’orchestrare le proteste, ed il modus vivendi trovato col pur odiato Mubarak, spiegano l’iniziale titubanza dei Fratelli Musulmani a prendere parte alla rivolta. La decisione di non candidare propri uomini alla Presidenza del paese può riflettere sia il sospetto verso una “rivoluzione” etero-diretta dall’estero e dal regime stesso, sia il desiderio di non urtare la suscettibilità dei militari, evitare una nuova recrudescenza della repressione e poter proseguire la strategia di lungo termine fondata sulla conquista della società prima che del potere. Ma l’effettivo comportamento dei Fratelli Musulmani nelle settimane e nei mesi a venire è la grande incognita dei rivolgimenti egiziani. Adotteranno una strategia conservativa? I contatti con l’Arabia Saudita e con quell’autentica capitale dell’estremismo islamista che è Londra li indurranno ad un atteggiamento di collaborazione con gli atlantisti? Oppure, cercheranno di sfruttare il momento favorevole per forzare gli eventi e realizzare la propria, autentica rivoluzione?
È sicuramente questo l’auspicio degl’Iraniani. Vero è che l’Iràn sciita ha spesso avuto problemi con l’islamismo di matrice sunnita (si pensi ai Talibani o all’Arabia Saudita wahhabita), ma i rapporti non potrebbero essere peggiori che con l’attuale regime militare. Le relazioni intessute con Hamas, branca palestinese dei Fratelli Musulmani, dimostrano che il dialogo e la collaborazione sono possibili. Tuttavia, i toni trionfalistici utilizzati negli ultimi giorni dagl’Iraniani – che pretendono di vedere negli eventi egiziani una riedizione della loro Rivoluzione – sono esagerati. Un po’ di sincera esaltazione (la concomitanza degli eventi egiziani con l’anniversario della Rivoluzione Islamica – evento molto sentito in Iràn, certo assai più del centocinquantesimo dell’Unità qui da noi) a condire una massiccia dose di propaganda e di wishful thinking. Lo stesso fanno, del resto, gli USA ed i media da loro controllati: i motti anti-statunitensi ed anti-sionisti dei manifestanti sono spariti dai resoconti giornalistici, i Fratelli Musulmani sono snobisticamente considerati una minoranza nel paese, tutto il merito della rivolta viene assegnato alla locale fazione liberale. La stampa occidentale tesse le lodi di quei gran strumenti rivoluzionari che sarebbero Facebook e Twitter, ma fatto sta che le piazze egiziane si sono davvero riempite dopo che il regime aveva bloccato Internet, ed a riempirle è stata la Fratellanza Musulmana, col suo messaggio religioso ed il filo diretto che ha con la popolazione. La gente è pronta a morire per chi gli dà pane, cure, lavoro e speranza, non per chi gli “twitta” qualche slogan idealistico ed esterofilo.
Ma allora, se non dovessero intervenire i Fratelli Musulmani a scompaginare le carte in tavola, cos’è realmente cambiato in Egitto e nel Vicino Oriente? In Egitto, il regime militare appare più solido di prima: la deposizione di Mubarak l’ha rafforzato, non indebolito. È possibile che, soprattutto grazie alle pressioni degli USA, si giunga ad istituire un simulacro di democrazia liberale, ma nei fatti il potere rimarrà nelle mani dei militari e l’Egitto un paese a sovranità controllata. Obama, senza i proclami roboanti e le guerre di Bush, sta raccogliendo più di lui nella strada per la “democratizzazione” del “Grande Medio Oriente”, ossia nella sostituzione dei vecchi dittatori con una nuova generazione di despoti, magari oligarchie che garantiscano più spazi di libertà alle loro popolazioni, senza però permettere che si mettano in dubbio i dogmi atlantista e neoliberale. È un progetto ambizioso e l’apprendista stregone potrebbe perdere il controllo delle forze suscitate coi suoi sortilegi. Le popolazioni della regione non nutrono sentimenti amichevoli verso gli USA e Israele, e dunque mobilitarle per abbattere i governi e cercare di cooptarle nel sistema di potere atlantista è un grosso rischio: da qui l’inquietudine con cui Tel Aviv sta vivendo questi eventi, memore anche del sempre più tragico (per lei) esperimento turco. Le rivolte in Tunisia e Egitto, le vittorie elettorali di Hamas in Palestina e dell’AKP in Turchia, il successo di Hezbollah contro la tentata invasione israeliana del Libano, sono tutti eventi che stanno mutando la mentalità delle popolazioni dell’area. Dopo decenni, se non secoli, d’impotenza e sconfitte, qualcosa pare stia cambiando. I popoli locali hanno capito che possono essere arbitri del proprio destino.
Iràn e USA cercano di tirare la coperta dei rivolgimenti arabi ognuno verso di sé. Tehran sogna tanti Hamas e Hezbollah che prendano il potere nei paesi arabi, Washington lavora per regimi più “moderni” e presentabili, ma ancor più docili e sottomessi. Ma se tra i due litiganti a godere fosse il terzo? La Turchia, che ormai si configura come un paese sia islamista sia liberal-democratico, potrebbe essere il modello mediano su cui assestarsi per i lacerati paesi arabi. E che gran sorpresa sarebbe, se non lo sguardo severo di Khomeini e neppure la “icona pop” Obama, bensì il compassato e moderato Erdoğan, dovesse affermarsi come il faro che guida le masse arabe verso una nuova epoca.
* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010).
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