Fin dal 30 gennaio 2011, da Soulinanya a Bassora (Kurdistan iracheno), passando per Mosul e piazza Tahrir di Baghdad, decine di migliaia di civili iracheni hanno marciato tutti venerdì al grido di : “Via Maliki!”, “Barzani fuori!”, “No all’occupazione!”.
La stampa internazionale in un primo momento diede conto delle manifestazioni e della loro sanguinosa repressione salvo poi calare una spessa coltre di silenzio sugli ulteriori sviluppi della situazione.
Ciò ha permesso al Primo Ministro Nouri Al Maliki, trincerato dietro le mura fortificate della Zona Verde, di celebrare l’Iraq come “La regione più sicura del mondo arabo”.
Un altro modo per intimare giornalisti curiosi di “Circolare, non c’è niente da vedere…”.
Paesi del tanto peggio tanto meglio
Il Pew Research Center (PRC) si occupa di verificare e catalogare gli argomenti trattati dai mezzi di comunicazione.
Dalle analisi effettuate da tale istituto emerge che il 56% dei temi trattati negli Stati Uniti nell’arco temporale compreso tra il 31 gennaio e il 6 febbraio scorso riguardava i problemi dei paesi arabi tra cui l’Iraq, mentre alla fine di aprile la percentuale relativa al medesimo argomento non superava il 12%.
Gli articoli concernenti l’Iraq non riguardavano altro che gli attentati, nonostante le manifestazioni si svolgessero regolarmente.
“Ciò delinea una visione molto distorta del paese”, ha concluso il think tank in questione.
A causa dell’occultamento degli eventi, i ricercatori ripiegano quindi su alcune agenzie indipendenti irachene come Awsat Al Iraq oppure, per quanto riguarda il Kurdistan, sui siti Rudaw.net o KurdishMedia.com.
Una delle principali fonti di informazione sugli sviluppi della contestazione in Iraq corrisponde alla pagina di Facebook della Grande Rivoluzione irachena, ma non per molto tempo ancora.
In effetti, il governo si appresta ad assimilare a un “crimine cybernetico” la diffusione su internet di messaggi che incitano a manifestare o che si occupano di diffondere notizie relative a incontri antigovernativi, argomentando che tali iniziative turberebbero l’ordine pubblico e potrebbero ipoteticamente degenerare dando luogo a “ribellioni armate”.
Coloro che contravvengano a tali imposizioni rischiano il carcere a vita e da 25 a 50 milioni di dinari d’ammenda (corrispondenti rispettivamente a 16.250 e 32.500 euro).
Per niente impressionate dalle minacce del governo, più di 36.000 persone si sono iscritte ad alcuni social network per partecipare attivamente al prossimo raduno di contestazione, ribattezzato Alba di liberazione, che si terrà il 9 settembre in piazza Tahrir di Bagdad e all’interno dei governatorati.
Tra i suoi organizzatori vi sono i promotori della Grande Rivoluzione irachena e i membri dell’Alleanza del 25 febbraio, del Movimento popolare per la salvaguardia di Kirkuk oltre a studenti e organizzazioni giovanili dell’Iraq libero.
Chi ne ha sentito parlare, nel momento in cui gli organi di informazione fornivano la loro lettura tratta da dichiarazioni menzognere rilasciate dal Consiglio Nazionale di Transizione libico e da comunicati non verificabili emessi da ignote organizzazioni siriane?
A giudicare dal suo discorso tenuto nel maggio del 2011 e dedicato alle rivoluzioni arabe, il Presidente Obama non deve esser, evidentemente, rimasto contrariato dal fatto che l’Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo e l’odierno Iraq siano tra i paesi meno democratici al mondo.
I “100 giorni” che, a fine febbraio, Nouri Al Maliki si era concesso per migliorare i servizi pubblici, ridurre la disoccupazione e sradicare la corruzione, non sono stati altro che polvere gettata negli occhi degli iracheni, ai quali non è rimasto che manifestare nuovamente la propria collera all’inizio di giugno.
Human Right Watch (HRW) riferisce che a Bagdad, il 10 giugno, dei teppisti sostenitori di Maliki armati di bastoni, coltelli e tubi di ferro hanno violentato alcune donne e aggredito dei civili intenti a manifestare.
Centocinquanta tra poliziotti e militari in borghese hanno infiltrato il corteo.
Il 17 e il 24 giugno, le forze di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere i manifestanti hanno contribuito attivamente ad aprire la strada ai teppisti.
In Kurdistan, dove regnano nepotismo e corruzione, si sono verificati gli scontri più violenti.
Swrkew Qaradaxi, un giovane di 16 anni ucciso a Soulimaniya, nello scorso febbraio, dai miliziani di Barzani è stato assurto a simbolo della contestazione.
Suo padre, ex Peshmerga [termine che contraddistingue i guerriglieri indipendentisti curdi d’Iraq], accusa la cricca dirigente di sparare sulla propria popolazione per conservare il potere: “Saddam Hussein era un nemico esterno al Kurdistan – dice – ma ora ne abbiamo uno all’interno: il governo curdo uccide i curdi. E’ molto peggio”.
Amnesty International chiede alle autorità regionali d’indagare sugli attacchi subiti dagli attivisti dei diritti umani: fucilazioni, rapimenti, torture.
Il grottesco progetto governativo di parcheggiare i contestatori in tre stadi di Bagdad – in nome del diritto dei commercianti a non essere ostacolati dai manifestanti nell’esercizio delle proprie attività (!) – non era realizzabile.
In caso di gravi pericoli – ovvero mettendo in pericolo la Zona Verde – Nouri Al Maliki, che assolve alle funzioni di Ministro della Difesa e di Presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, si è assicurato nel marzo scorso il sostegno del generale curdo Babacar Zebari, Capo di Stato Maggiore dell’esercito.
Quest’ultimo, favorevole al mantenimento delle truppe americane in Iraq, si è detto pronto ad affrontare qualsiasi minaccia… Interna.
Traduzione di Giacomo Gabellini
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