Marco Bagozzi, autore de “Con lo Spirito Chollima” libro sul calcio nordcoreano è stato intervistato da Matteo Pistilli, redattore di Eurasia.
Un libro sul calcio nordcoreano: come è nata l’idea di pubblicare un testo su un argomento così particolare?
Ho scritto un libro su un argomento così di nicchia perché credo che sia una storia che merita essere raccontata. La stragrande maggioranza delle storie che leggiamo sul mondo del calcio sono questioni superflue, inutili: dichiarazioni dell’uno o dell’altro campione, infortuni, trasmissioni interminabili su errori arbitrali, ore a parlare di calciomercato. Riempiono i quotidiani sportivi e fanno vendere, ma, secondo la mia opinione, sviliscono il ruolo dello sport e del calcio, in particolare.
La passione per il calcio nordcoreano nasce prima del Mondiale sudafricano, quando ho cominciato a seguire la nazionale, spinto dalla curiosità che mi è nata leggendo i “non reportage” dei giornali sportivi: nessuno aveva nemmeno provato a cercare informazioni sui giocatori e su quel calcio. Mi sono domandato: ma è possibile che non si sa nulla dei coreani? Ho quindi aperto un blog, che ormai ha raggiunto l’anno di vita e quasi 10 mila visite, per seguire il calcio “Chollima”. Ho scoperto che ci sono giocatori coreani che hanno giocato e giocano in Europa, seppur in campionati minori e ho scoperto che esistono altri appassionati che seguono con partecipazione il blog. E’ nata quindi l’idea di comporre un almanacco per raccogliere tutti i risultati della nazionale, con l’intenzione di proporlo in ebook da far girare tra gli appassionati e gli statistici del calcio. L’idea è tramontata ad almanacco quasi concluso, quando ho cominciato a scrivere il saggio. Inizialmente pensavo di scrivere poche pagine, presentandolo magari a qualche rivista specializzata. Quando ho visto che le pagine cominciavano a diventare “troppe”, ho partorito il libro. Ho avuto la possibilità di consultare le raccolte di alcuni quotidiani italiani, per ricostruire la storia del Mondiale del 1966 e mi sono confrontato con alcuni specialisti, tra cui in particolare ricordo Nick Bonner, regista del bellissimo film sulla nazionale del 1966 The Games of Their Live, e il dottor Giovanni Armillotta, uno degli storici del calcio italiani più preparati.
Il libro è auto-prodotto, ha quindi le molte pecche e i pochi vantaggi di una pubblicazione “non ufficiale”, ma in questo modo posso presentare al lettore un lavoro non condizionato da logiche politiche ed editoriali.
Scrivendo il libro ti sarai appassionato od entusiasmato per un vittoria, una partita o un episodio in particolare. Ce lo puoi raccontare?
Sarebbe facile rispondere la vittoria contro l’Italia del 1966 o l’ottima prestazione contro il Brasile nel 2010, ma preferisco scegliere altri due momenti “particolari” entrambi sconosciuti al grande pubblico, ma molto importanti per chi ha a cuore la Corea unita: nel 1978 le due nazionali coreane raggiungono la finale dei Giochi Asiatici. Lo scontro fratricida finisce a reti bianche e le due squadre salgono congiuntamente in festa sul gradino più alto del podio; nel 1991 al Mondiale under-20 partecipa, per la prima ed unica volta nella storia, una squadra unita coreana, che strappa una favolosa vittoria contro l’Argentina prima di venir battuta dal Portogallo di Figo e Rui Costa e dal Brasile di Roberto Carlos ed Elber.
Cosa rappresenta per la Corea Popolare il calcio e più in generale lo sport?
In Corea lo sport non ha raggiunto il livello di mercificazione dell’atleta che c’è in occidente. Rispondendo ad un giornalista italiano Pak Doo-Ik disse “Venderei un mio calciatore ad una squadra italiana? Da noi non si vendono le persone”. Essendo ancora un paese socialista, il dilettantismo degli atleti è ancora un punto fermo e il carattere formativo ed educativo dello sport è preponderante rispetto alla ricerca del spettacolo e del mero risultato finale. Una cosa mi piace evidenziare: fra le notizie sportive che la KCNA, l’agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang, rilascia in Occidente ci sono, ovviamente, i risultati di prestigio ottenuti dagli atleti nazionali, ma non solo: spesso leggiamo celebrazioni dei “maestri dello sport”, allenatori di squadre giovanili e squadre minori, tecnici federali, ai quali vengono riconosciuti i meriti nella formazione dei giovani talenti. Queste notizie, confrontate a quelle che passano sui giornali sportivi italiani, dominati da sole celebrazioni dei grandi campioni e dei grandi allenatori, evidenziano chiaramente la differenza che intercorre fra la nostra e la loro concezione dello sport.
Quando si sente parlare di calcio coreano in Occidente si sentono spesso toni machiettistici e propagandistici: Ad esempio, dopo i Mondiali abbiamo letto di una punizione ai giocatori e all’allenatore dopo l’eliminazione. Cosa c’è di vero?
Di vero c’è poco. Nel libro ricostruisco smentendo le più famose notizie “diffamatorie” sul calcio coreano: in particolare le presunte punizioni che hanno colpito i giocatori dopo le eliminazioni del 1966 e del 2010. In realtà basterebbe un giornalista serio per smentire quelle che sono semplicemente “dichiarazioni di anonimi imprenditori cinesi” che dicono di “aver riconosciuto” Kim Jong-Hun in un cantiere edile. Io ho raccolto le dichiarazioni dei giocatori, ho trovato immagini e video, oltre che la smentita ufficiale della KCNA e della FIFA. E vi assicuro che ho fatto semplicemente una ricerca su internet, senza nessuna “imbeccata” interessata. Ma qui entriamo in un terreno minato: l’attendibilità delle notizie che ci vengono proposte, che si mescolano con diceria, propaganda, poteri politici ed economici.
Secondo una definizione di Pascal Boniface, il Calcio è l’ultimo stadio della mondializzazione. Concordi?
Non conoscono le tesi di Boniface, quindi non ho la possibilità di confutarle o accettarle con precisione. Entro solo nel merito della frase citata. Per mondializzazione si intende la massificazione dell’Uomo, l’assenza di confini, di identità, di differenze, il villaggio globale. In questo processo lo sport e il calcio, in particolare, si pone con una doppia e opposta valenza. Su un piano il calcio è certamente uno degli ultimi stadi della mondializzazione (non è l’ultimo, perché ritengo che esistano “armi” ben più efficaci per gli agenti della mondializzazione, cinema, televisione ed internet, ad esempio): il fattore economico è preponderante, se spendi tanto vinci tanto. La compravendita dei giocatori di tutto il mondo, la nuova tratta degli schiavi, con l’acquisto di giovanissimi talenti africani e asiatici che arrivano in Europa anche prima dell’adolescenza, sono alcuni degli aspetti più drammatici del mondo del calcio. E sono simboli di una “mondializzazione” del calcio. Ma nel calcio rimangono alcuni valori che lo pongono in direzione diametralmente opposta al processo di mondializzazione: il fattore di appartenenza identitaria ad una squadra cittadina o ad una nazione, l’importanza del talento individuale e del lavoro di squadra, in cui tutto è deciso, organizzato, pianificato, gerarchizzato, si pongono in contrasto al progetto di massificazione.
In fin dei conti, lo sport “puro” è sempre un fattore positivo. Tutto quello che gli gira attorno (in particolare, l’aspetto finanziario e la mediatizzazione) può usarlo per scopi “negativi”.
*Marco Bagozzi, analista, collabora a Eurasia Rivista di studi geopolitici, ha scritto: “Con lo Spirito Chollima”.Introduzione e informazioni sul libro: http://www.eurasia-rivista.org/con-lo-spirito-chollima/12343/
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