Mentre scrivo, papa Benedetto XVI sta compiendo il suo ventitreesimo viaggio all’estero — una visita pastorale in Messico e a Cuba. Fra i temi che il Pontefice Romano affronterà spicca quello, delicatissimo e problematico, dell’annuncio del Vangelo nei due Paesi: povertà, violenza, criminalità e libertà variamente conculcata sono le piaghe che affliggono tradizionalmente il “cortile di casa” statunitense.
Tuttavia c’è un’altra spina, poco appariscente ma non per questo meno dolorosa, nel fianco della Chiesa di Roma: ed è il fenomeno delle conversioni di massa — dal cattolicesimo al protestantesimo e addirittura all’islam — che si verificano a decine di migliaia nel Chiapas, la regione messicana nota per essere la culla del movimento zapatista.
L’abbandono della religione cattolica in favore di altre confessioni è iniziato alla metà degli anni Novanta del ventesimo secolo: forse non casualmente di pari passo con l’ascesa dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che il 1° gennaio 1994 si fece conoscere in tutto il mondo con una plateale azione dimostrativa eseguita in concomitanza con l’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement; in spagnolo TLC, Tractado de Libre Comercio).
Il Chiapas, non bisogna dimenticarlo, è una delle regioni messicane con la maggior concentrazione indigena: vale a dire che da sempre la sua popolazione è costretta a vivere, o meglio a sopravvivere, in una condizione di estrema precarietà e di povertà endemica. Il movimento zapatista, che si è schierato al fianco degli indigeni sfruttati, espropriati delle loro terre, cacciati dai propri territori e spesso letteralmente schiavizzati dalle multinazionali d’Occidente, è stato praticamente l’unico a mostrare di avere a cuore le sorti delle comunità autoctone.
Prima di lui, avrebbe dovuto farlo la Chiesa: e per molto tempo gli indios hanno creduto che fosse davvero così. Ma la realtà è stata molto diversa: secondo Gaspar Marquecho, antropologo dell’università autonoma del Chiapas, «gli indios sono delusi dal cattolicesimo, carico di memorie coloniali e dell’autoritarismo dei preti meticci. Al contrario le chiese evangeliche, rispettose come sono del loro sincretismo, rispondono meglio ai loro bisogni di spiritualità e solidarietà di fronte alla povertà, all’analfabetismo e alla discriminazione» (Frédéric Saliba, Les Indiens du Chiapas tournent le dos au catholicisme, “Le Monde”, 21 marzo 2012). E Sandra Canas, ricercatrice di antropologia presso l’università del Texas, aggiunge: «In realtà i conflitti non sono religiosi bensì politici ed economici. Scegliendo di diventare evangelici, gli Indios scelgono di rompere col sistema autoritario e corrotto delle autorità civili locali, legate a doppio filo con le autorità cattoliche» (ibidem).
Il clero locale l’ha compreso benissimo, anche se non tutti hanno seguito l’esempio di Samuel Ruiz, arcivescovo di San Cristobal de las Casas dal 1959 al 1999: un quarantennio di impegno sociale oltre che pastorale, nel solco di quella teologia della liberazione (TdL) che folgorò anche monsignor Oscar A. Romero — l’arcivescovo del Salvador che pagò con la vita l’amore per la sua gente proprio in questi giorni, trentadue anni fa, il 24 marzo 1980. Mons. Ruiz è morto il 24 gennaio 2011, col dolore di aver visto salire al soglio pontificio proprio il più fiero avversario della TdL: Joseph Ratzinger. Vale la pena di riportare le parole di Giulio Girardi, salesiano e teologo della liberazione, che così si esprimeva nel settembre 2005, pochi mesi dopo l’elezione di Ratzinger al trono di Pietro: «La Teologia della liberazione nell’epoca di Ratzinger? La mia previsione sul pontificato di Benedetto XVI è che si manterrà sulla stessa linea di Giovanni Paolo II. Il fondamento più sicuro ed evidente di questa previsione è che per venti anni il cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, è stato il principale ispiratore e punto di riferimento di Giovanni Paolo II. Infatti, in queste prime settimane del suo pontificato, Ratzinger si è molto riferito al suo predecessore, quasi a voler rendere esplicita la continuità tra i due. Questo significa, dunque, affermare l’attualità dei documenti redatti da Ratzinger cardinale, di condanna della Teologia della liberazione e del suo supposto fondamento nel marxismo […] Significa in particolare riaffermare il giudizio di Giovanni Paolo II, nel suo secondo viaggio in Nicaragua, secondo cui la Teologia della Liberazione era morta, dato che era morto il suo fondamento, il marxismo. Si doveva dunque celebrare allo stesso tempo il funerale del marxismo e quello di sua figlia, la Teologia della Liberazione. Affermare la continuità tra i due pontificati significa, purtroppo, prolungare la revoca della condanna della Teologia della Liberazione da parte del governo centrale della Chiesa. Significa prolungare l’incomprensione della Teologia della Liberazione da parte della teologia della Chiesa centrale» (da un’intervista rilasciata a Stella Spinelli per PeaceReporter; Giulio Girardi è morto un mese fa, il 26 febbraio).
E infatti, puntualissimo, Benedetto XVI ha già dichiarato che il marxismo non risponde più alle esigenze del reale, e che non sa se la TdL possa aiutare a comprendere e risolvere i problemi della società. Invece mons. Romero, pochi mesi prima di finire ammazzato sull’altare, aveva compreso perfettamente e con chiarezza (così scriveva nel suo diario) «che l’anticomunismo, fra di noi, molte volte è l’arma che usano i poteri economici e politici per continuare le loro ingiustizie sociali e politiche». Del resto, non omnia omnibus.
Alessandra Colla, 24 Marzo 2012
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