“Non si può chiedere alle FARC di inginocchiarsi, arrendersi e consegnare le armi. Non lo faranno. Deve esistere una via d’uscita e che sia tale da permetterle la partecipazione nell’arena politica. In questo modo si risolve un conflitto, e non solo il conflitto colombiano”. Con queste parole il presidente colombiano Juan Manuel Santos ha espresso, in un’intervista alla statunitense CNN, il suo concetto di fine delle ostilità tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero che vanta una longevità tra le più alte tra tutte le organizzazioni ribelli del mondo. Santos ha precisato con decisione che non ci sarà nessun cessate il fuoco, mentre avanzeranno le conversazioni di pace che inizieranno il 15 ottobre in Norvegia: “Ci sarà un cessate il fuoco e si sospenderanno tutte le operazioni militari solo in vista di un accordo finale”. Il presidente ha enfatizzato l’importanza dei golpe militari perpetrati ai danni delle FARC che, secondo la sua analisi, hanno portato i guerriglieri a sedersi a un tavolo di negoziazione. “Modestia a parte, nessuno in cinquant’anni è arrivato tanto vicino ai negoziati come me. Fare la guerra è molto più facile di fare la pace”, così il capo di stato colombiano terminava la sua intervista, riferendosi al suo lavoro svolto sia come ministro della difesa che come presidente.
Il cammino che ha portato fino a questo punto è stato lungo, complesso, costellato di innumerevoli esperimenti di soluzione del conflitto. La situazione attuale potrebbe essere però quella più fertile per un concreto sviluppo, inserendosi in un contesto di maggiore credibilità. I tentativi passati di arrivare a una pace duratura furono tutti dirottati da un’evidente impossibilità, sia da parte del governo che da parete delle FARC, di imporre una tregua a tutti i combattenti in campo. I gruppi guerriglieri, nonostante gli accordi, proseguivano nelle attività illegali e criminali, scatenando di nuovo le rappresaglie dei gruppi paramilitari di destra e allontanando il governo da soluzioni pacifiche che ripiegava a sua volta con l’utilizzo delle Forze Armate. Per tale motivo si è approdati all’ex presidenza con a capo Uribe, che ha adottato una linea dura nella lotta alle FARC, grazie a imponenti aiuti economici statunitensi, assestandole in otto anni duri colpi, riuscendo a far precipitare da 24.000 a 8.000 il numero dei combattenti, limitando la zona assoggettata alla guerriglia – si parlava di circa di metà del Paese – e eliminando i leader più noti. Il quadro generale ereditato da Santos è stato, quindi, più incoraggiante e gli ha reso possibile un cambio di rotta per uscire da una sorta di isolamento rispetto agli altri paesi dell’America Latina, che era stato dettato dalla linea dura appoggiata dagli USA.
Un contesto del genere ha favorito i primi approcci verso un riavvicinamento tra le parti in causa. Le prime avvisaglie risalgono ad inizio anno, quando due miliziani delle FARC apparvero a Bogotà, cominciando ad indagare sulle possibilità di sedersi ad un tavolo della pace. La risposta arrivò attraverso due emissari colombiani che comunicarono che, effettivamente, il governo nutriva interesse a tale proposito e potevano procedere a valutare le condizioni di un’eventuale negoziazione. A partire da questo segnale, le FARC collocarono all’Avana come interlocutore con il governo – per il quale mossero i primi passi l’assessore alla sicurezza Sergio Jaramillo e il Ministro per l’Ambiente Frank Pearl – un portavoce che ritennero indicato a svolgere un compito così delicato: Alberto Parra, meglio conosciuto come El Medico, comandante del Bloque Oriental delle FARC. Inoltre, si faceva sostenitore nonché mediatore di tensioni il governo venezuelano, con il quale il presidente colombiano aveva provveduto a normalizzare i rapporti e, in cambio della rinuncia di dare agli USA la base militare offerta da Uribe, Chavez era passato dall’appoggio politico e militare alle FARC ad una collaborazione contro di loro, estradando in Colombia alcuni leader.
Il prosieguo delle conversazioni esplorative hanno fatto si che il presidente colombiano, il 27 agosto, potesse annunciare ufficialmente al Paese la firma di un accordo preliminare volto a iniziare dialoghi di pace, sottolineando tre principi che dovranno caratterizzare l’intero percorso: apprendere dagli errori del passato per non ripeterli; il processo di pace dovrà portare alla fine del conflitto e non al suo ulteriore prolungamento; il governo manterrà la presenza militare in un tutto il territorio nazionale. Le reazioni sono state molteplici: l’opinione pubblica è divisa tra chi appoggia la negoziazione con i guerriglieri e chi è convinto che non sarà attuabile, almeno fino a quando non finiscano le azioni terroristiche. Il Paese ricorda con molta rabbia l’ultimo tentativo di pace del presidente Pastrana che, nonostante aver concesso l’istituzione di una zona di distensione nel Caguan, dopo tre anni di faticose negoziazioni dovette sospendere i dialoghi a causa del sequestro di un aereo. Inoltre, il popolo colombiano sta vivendo il dramma della smobilitazione e del reinserimento nella società civile di più di 30.000 paramilitari degli eserciti di autodifesa che, invece di seguire i programmi di giustizia, riparazione e garanzia, stanno rimpolpando le fila delle Bandas Criminales, mantenendo inalterata la catena di violenza. L’ex presidente Uribe ha prontamente comunicato che l’appoggio al processo di pace dato dal Venezuela sarebbe orchestrato dal presidente Chavez per favorire le sue possibili rielezioni, aggiungendo che la propensione di Santos nel trattare con la guerriglia è costato al Paese due anni di negligenza nella politica di sicurezza democratica, con una relativa recrudescenza del terrorismo. Gli Stati Uniti hanno accolto con favore la notizia e hanno dato il loro appoggio agli sforzi per terminare il conflitto più duraturo della storia, rimarcando, attraverso il portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland che il governo statunitense è sempre stato un fermo alleato della Colombia nel conflitto.
Le trattative si apriranno, quindi, ufficialmente a Oslo per tornare poi a Cuba e proseguire con gli incontri. Designati Venezuela e Norvegia come mediatori, il Paese scandinavo può vantare un’esperienza diplomatica che conta con una partecipazione di circa venti interventi in materia di pacificazione di conflitti, con alcuni trascorsi proprio in territorio colombiano. L’ex ministro Umberto de la Calle guiderà la squadra governativa formata dall’ex direttore della polizia nazionale e dall’ex comandante delle Forze Militari. La controparte FARC ha designato Luciano Marin Arango, alias Ivan Marquez, come capo negoziatore coadiuvato da altri guerriglieri che, a detta degli esperti, rappresentano un mix che unisce l’ala dura e la parte ideologica della guerriglia.
Rispetto all’agenda dei dialoghi di pace naufragati con la presidenza Pastrana, l’ultima versione appare molto più snella – consta di appena 5 punti contro i 12 dello scorso tentativo, che andavano dalla revisione della struttura economica e politica dello stato, fino alla riformulazione dei trattati internazionali – e gli intenti molto meno ambiziosi e raggiungibili, senza dimenticare che alcuni aspetti che verranno discussi riguardano iniziative che già sono in corso nel governo riformista di Santos. I primi due punti dell’agenda rappresentano rivendicazioni storiche delle FARC: la politica di sviluppo rurale e la partecipazione politica. Riguardo al primo punto, che rivestirà un ruolo chiave, il Paese colombiano non ha mai promosso una riforma agraria, a differenza degli altri paesi dell’America Latina e, di conseguenza, la lotta per il controllo della terra ha sempre girato intorno alla violenza; a differenza dei passati tentativi di pace, questa volta il governo presenta un progetto di sviluppo rurale che non si discosta molto dal programma agrario delle FARC, che comprende una ridistribuzione della proprietà, l’inserimento dei contadini nei progetti nazionali e la creazione di zone di riserva per gli ex combattenti, il tutto con l’obiettivo di instaurare equilibrio nella struttura agraria. Il secondo punto risente della pesante eredità dell’esperimento dell’Union Patriotica, che, nata con gli accordi de La Uribe del 1984, propose come rappresentanti alcune frange smobilizzate della guerriglia, che furono eliminate fisicamente dalla ‘mano negra’ dei paramilitari, e dell’impossibilità costituzionale di ricoprire ruoli politici per chi abbia commesso delitti relazionati a gruppi armati illegali, di lesa umanità o narcotraffico. I successivi tre punti dell’agenda riguardano: la fine del conflitto, per la prima volta le FARC accettano di negoziare per deporre le armi e per la reintegrazione nella vita civile, si dovrà però decidere in che modo i guerriglieri saranno giudicati; tema delle droghe illecite, senza dubbio se i negoziati avranno esito ci sarà un effetto simbolico e reale sul narcotraffico, se la guerriglia esce di scena si realizzeranno condizioni favorevoli per una nuova politica di sostituzione delle coltivazioni illecite e, inoltre, governo e FARC sembrano favorevoli ad una legalizzazione; diritti delle vittime, creazione di una commissione della verità per risarcire le vittime del conflitto.
Le opinioni rispetto alle effettive possibilità di concretizzare il processo di pace sono contraddittorie. Come lo sono le analisi riguardanti gli attori in campo. Alle accuse mosse nei confronti del governo, di negoziare con i guerriglieri, il Ministro della Difesa Pinzon risponde con fermezza che non rappresenta un segno di debolezza, ma, bensì, se oggi si può parlare di pace, è proprio grazie ai successi ottenuti dalle forze militari colombiane che hanno indebolito la struttura delle FARC. I più scettici guardano la buona volontà delle FARC solo come un tentativo di riprendere fiato e riorganizzarsi. La posta in gioco del presidente Santos è altissima: in caso le negoziazioni vadano in porto non ci saranno dubbi riguardo un nobel per la pace e la sua rielezione, ma proprio il poco tempo a disposizione potrebbe essere uno svantaggio e indurre le FARC a strappare il massimo dalle negoziazioni. Di contro, un passo falso potrebbe ripresentare la necessità di una nuova linea dura alle prossime elezioni chiudendo le possibilità di negoziati. Per le FARC si potrebbe precludere definitivamente la possibilità di una presenza politica.
Massimiliano De Simoni è laureato in Scienze Politiche indirizzo internazionale
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