A più di un anno dalla caduta del regime di Hosni Mubarak, l’Egitto ha un nuovo leader. Mohamed Mursi, candidato della Fratellanza Musulmana, è il primo presidente civile della storia della Repubblica. In assenza di una Costituzione resta da vedere con quali poteri e per quanto potrà governare. Mursi ha messo al centro della propria agenda non tanto i temi religiosi ma le difficili questioni di politica interna. Tuttavia anche le future relazioni dell’Egitto con i paesi della regione richiederanno una particolare attenzione e sensibilità.
Dopo un simbolico giuramento in Piazza Tahrir in cui ha ricordato “i martiri della rivoluzione” senza i quali non sarebbe mai stato eletto, il presidente Mohamed Mursi ha giurato ufficialmente davanti alla Corte Costituzionale chiudendo in questo modo il lungo e contestato processo elettorale che lo ha portato alla vittoria. Si tratta di un’eccezione perché il Parlamento egiziano a maggioranza islamista, di fronte al quale la Costituzione prevede che si debba giurare, era stato sciolto poco dopo la chiusura dei seggi elettorali dalla giunta militare al potere (Scaf) e dopo che la Corte Costituzionale egiziana aveva dichiarato la legge elettorale incostituzionale. Al centro del suo attesissimo discorso Mursi ha posto l’importanza dell’unità nazionale e ha promesso che sarà un presidente “per tutti gli egiziani”. Per dare prova di questo impegno, si è dimesso dalle sue posizioni all’interno della Fratellanza e ha dichiarato che presto nominerà le prime due cariche, entrambe di vicepresidente, e che verranno assegnate per la prima volta nella storia dell’Egitto ad una donna e ad un cristiano.
Tuttavia la dichiarazione costituzionale aggiuntiva promulgata dallo Scaf a ridosso dei primi risultati elettorali ha diffuso una certa preoccupazione circa l’impatto reale che avranno le elezioni nel Paese. Con essa, infatti, i militari si sono aggiudicati non solo ampi poteri politici, sottraendosi all’autorità presidenziale e diventando un “organo sovra-costituzionale”, ma anche l’indipendenza sulle questioni legate al ministero della Difesa (ad esempio sull’enorme complesso militare-industriale e sulle nomine interne) e sul proprio budget. La dichiarazione ha così svuotato di significato il tanto atteso passaggio di potere ponendo molti limiti all’autorità presidenziale. È chiaro quindi che le principali sfide che Mursi dovrà affrontare riguarderanno la politica interna e le difficili questioni economiche e sociali.
Intanto la comunità internazionale ha salutato il neo presidente egiziano, rivolgendogli gli auguri di rito per l’incarico che si appresta a ricoprire. Tuttavia, oltre le formalità di facciata e la prassi della diplomazia emergono differenze, timori, rinnovate speranze e inviti al mantenimento della “stabilità” e della pace nella regione. Da Washington ai Paesi del Golfo, in molti attendono di scoprire le prime mosse del Cairo, le scelte del capo di Stato espressione del movimento islamista e la lotta di potere che si gioca dietro le quinte fra esercito e Fratelli musulmani. In un vortice di auguri – sinceri o di circostanza, più o meno interessati – si distinguono le reazioni improntate, in grande maggioranza, alla cautela da parte dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo, le cui relazioni con i Fratelli musulmani sono da sempre ridotte ai minimi termini.
Uno dei maggiori timori espressi non solo da questi paesi ma anche dall’intera “comunità internazionale” è la possibilità che Egitto e Iran riprendano i rapporti diplomatici interrotti da più di trent’anni. Ad alimentare questa preoccupazione è stata la pubblicazione da parte della semi-ufficiale agenzia di stampa iraniana Fars di un’intervista al nuovo Presidente egiziano durante la quale avrebbe dichiarato la volontà di ripristinare le relazioni diplomatiche con l’Iran e di rivedere il trattato di pace con Israele al fine di stabilire un nuovo equilibrio strategico. Queste dichiarazioni hanno turbato in primo luogo Stati Uniti e Israele da anni impegnati in tentativi di isolare l’Iran attraverso pesanti sanzioni economiche a causa del controverso programma atomico nazionale e del supporto a Siria e Hezbollah. L’Iran inoltre è accusato di essere rimasto a fianco del presidente Bashar al-Asad dall’inizio della rivolta e di appoggiare la repressione in corso. Cercando di far fronte alle numerose critiche, i leader iraniani hanno difeso la loro posizione sottolineando che al-Asad ha acconsentito all’introduzione di riforme politiche che hanno avuto il sostegno della maggioranza del popolo siriano. Nonostante ciò, la lentezza nella loro implementazione ha causato una crescente frustrazione che ha provocato lo scoppio delle rivolte popolari. Le riforme riguardavano l’abolizione della vecchia legge di emergenza e le modifiche alla Costituzione, che sono state approvate da un referendum popolare lo scorso febbraio e hanno portato a elezioni parlamentari multipartitiche. Tuttavia, queste elezioni sono state dominate ancora una volta dai baathisti, dimostrando il blando impegno a porre fine ad un monopolio partitico che si protrae da quarant’anni. Nei mesi scorsi, i diplomatici iraniani sono entrati in contatto con l’opposizione siriana, dentro e fuori il Paese, per assistere e facilitare i negoziati tra il presidente e l’opposizione. I leader iraniani vedono il conflitto come un pericolo per i loro più ampi interessi strategici nella regione e per questo ritengono che una soluzione politica sia essenziale per la stabilità dell’“asse della resistenza”- Iran, Siria, Hamas, Hezbollah. Il vortice di violenza che ha travolto il Paese negli ultimi mesi ha infatti portato Hamas a prendere le distanze da Damasco.
Mursi ha subito negato di aver rilasciato un’intervista all’agenzia di stampa Fars e ha dichiarato che avrebbe presentato una querela contro di essa. Tuttavia queste dichiarazioni e smentite hanno trasmesso un senso di incertezza e fragilità per quanto riguarda le future politiche dei Fratelli Musulmani in Egitto. La rivalità tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita si è intensificata a partire dallo scoppio delle rivolte arabe, che hanno alterato le certezze politiche in Medio Oriente. Qualsiasi riavvicinamento tra il Cairo e Teheran potrebbe mettere a repentaglio gli aiuti economici e gli investimenti promessi dal regno saudita all’Egitto. Il governo di transizione egiziano ha firmato all’inizio di luglio un prestito di 1 miliardo di dollari con l’International Islamic Trade Finance Corporation (ITFC), membro del gruppo Islamic Development Bank con base a Jeddah, finalizzato a finanziare l’importazione di prodotti petroliferi e materie prime alimentari, il grano in particolare. Questo prestito non solo consentirà all’Egitto di affrontare la crisi economica, ma anche di evitare di ricorrere al prestito proposto nei mesi scorsi dal FMI a condizioni molto svantaggiose per il Paese. È difficile quindi ipotizzare un cambiamento drastico nelle linee di politica estera egiziana, sulla quale continuano a pesare fortemente gli interessi sauditi. A conferma di ciò Mohamed Mursi ha scelto l’Arabia Saudita come meta per la sua prima visita ufficiale all’estero.
Il nuovo presidente dell’Egitto però non può tralasciare alcune questioni importanti e molto vicine alla popolazione egiziana che ha promesso di rappresentare, come la delicata questione del trattato di pace tra Egitto e Israele. La posizione della Fratellanza – ha ribadito nel suo discorso ufficiale – è per il rispetto degli impegni internazionali, anche se questo non esclude un tentativo di rinegoziare i limiti per i dispiegamenti militari nel Sinai. D’altronde, é difficile anche immaginare che il popolo egiziano tollererà la continuazione della politica dell’era di Mubarak favorevole, per esempio, al blocco della striscia di Gaza. Hamas, ramo palestinese della Fratellanza, ha salutato la vittoria di Mursi come una “una sconfitta per il programma di normalizzazione e di cooperazione per la sicurezza con il nemico”. È probabile che il valico di Rafah sarà più aperto ai palestinesi, senza però innescare una crisi immediata con Israele. Yediot Aharonot, uno dei giornali più letti in Israele, ha espresso allarme per quello che ha definito “un periodo buio in Egitto”. Questa dichiarazione, in contrasto con uno stringato messaggio formale di Netanyahu, riflette le paure popolari israeliane sui pericoli a lungo termine della “Primavera araba”. Anche la Giordania si é dimostrata particolarmente preoccupata circa le pressioni derivate dalle rivolte nei paesi vicini e teme che la vittoria di Mursi potrebbe incoraggiare il Fronte Islamico d’azione, l’ala politica della Fratellanza giordana.
Negli scorsi giorni il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha invitato al suo omologo egiziano Mohamed Mursi a partecipare al vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati che si terrà a Teheran il 29 agosto. Il Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM) è un gruppo di stati che si considerano non allineati formalmente con o contro qualsiasi blocco di potere consolidato. A partire dal 2011, il movimento ha avuto 120 membri e 17 paesi osservatori, e il prossimo mese l’Iran riceverà proprio dall’Egitto la presidenza del forum. All’inizio di maggio, i cancellieri della NAM si sono riuniti nella città egiziana di Sharm el-Sheikh per definire gli elementi centrali del documento finale del vertice di Teheran, tra i quali risaltano la tutela della pace regionale ed il rafforzamento delle relazioni tra gli Stati membri. Mursi non ha ancora confermato ufficialmente la sua partecipazione al vertice, al quale é stato invitato anche il presidente siriano. Tuttavia la sua presenza potrebbe rappresentare la possibilità di incontrare i rappresentanti di numerosi stati della regione e tracciare le linee della nuova politica estera egiziana che potrebbe rilevarsi non troppo diversa dalla vecchia.
●* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.