Segnali contraddittori: la Turchia che da una parte accoglie la richiesta NATO di installazione del cosiddetto “sistema radar di difesa” – una minaccia latente verso l’Iran e non solo, si pensi per esempio alla posizione della Russia – e che dall’altra rompe decisamente con Israele in seguito al persistente rifiuto dell’entità sionista di interrompere l’embargo verso Gaza e di scusarsi per il sanguinoso assalto alla Mavi Marmara.
E ancora l’allineamento del Paese della Mezzaluna nella demonizzazione del regime baathista siriano e il lungo colloquio (oltre sei ore, ha riportato la stampa turca) intercorso in agosto fra il ministro degli Esteri Davutoğlu e il leader siriano al-Assad alla ricerca – non ancora trovata – di un punto di accordo.
Sullo sfondo, ma forse domani in primo piano, l’ipotesi di un asse privilegiato Turchia – Egitto che riceverà un primo test di esame la prossima settimana con la visita nella capitale egiziana del Primo ministro Erdoğan.
Il radar antimissile che la Nato installerà in Turchia “non è rivolto contro l’Iran”, ha affermato l’ambasciatore turco a Roma, Hakki Akil, ed è difficile credergli, come è però difficile non immaginare che all’interno del sistema di potere turco forze contrapposte agiscano per fini differenti, e che il diplomatico giustamente sostenga le ragioni della politica – e in fin dei conti degli elettori turchi – contro quei vertici militari e massonici che spingono per un ripiegamento verso Occidente.
La decisione di ospitare il sistema radar della NATO è grave e sconta lo scotto dell’appartenenza turca all’organizzazione militare atlantica: dimostra, se ce ne fosse bisogno, che tale legame è forte e pienamente operativo. Tuttavia ciò non deve generare un pessimismo esagerato nei confronti del processo di graduale riconquista di sovranità da parte di Ankara, processo che è probabilmente irreversibile.
L’incertezza della politica turca si accompagna alla negativa congiuntura internazionale (guerra alla Libia, campagne medianiche imponenti contro la Siria, imbarazzante mancanza di iniziativa della Russia) ed è diretta o indiretta conseguenza di un vuoto di potenza, dell’assenza di efficaci legami eurasiatici nell’area. Ma la crisi del mondo unipolare “occidentale” è soltanto rimandata, e tutto il resto del mondo, sotto sotto, lo sa.
Dal Mediterraneo purtroppo in fiamme, vergognosamente calpestata ogni norma di diritto internazionale con l’affaire Libia, giunge comunque qualche novità interessante: il ministro degli Esteri di Ankara Davutoğlu ha tracciato con chiarezza la politica del suo Paese in seguito alla rottura con Israele, rimarcando con i suoi omologhi europei che non si tratta di “tensioni bilaterali” con lo Stato ebraico bensì di un problema più generale “legato all’inosservanza israeliana del diritto internazionale”.
Davutoğlu ha preannunciato l’interruzione di ogni intesa militare fra i due Paesi, e questo è molto significativo, considerata la storica contiguità fra i vertici delle Forze Armate turche e israeliane. Egualmente ha fatto sapere che Ankara rafforzerà la presenza della sua marina nel Mediterraneo (anche in funzione di proteggere l’invio di aiuti umanitari a Gaza), pronta a replicare a eventuali provocazioni di Tel Aviv.
D’altra parte, la Turchia sembra guardare con crescente interesse all’Egitto, e l’Egitto alla Turchia: il viaggio di Erdoğan al Cairo, cui accennavamo all’inizio, potrebbe avere notevole importanza anche simbolica, considerata la richiesta del leader turco di raggiungere – attraverso il valico di Refah – la martoriata Gaza, ove – come riporta il quotidiano turco Star – “è atteso come un Dio” (Tanrı indica in effetti la Sostanza Divina). Espressioni enfatiche che rivelano l’aspettativa del popolo palestinese nella politica turca, e che impegnano la politica turca a un alto grado di responsabilità verso gli arabi.
*Aldo Braccio, esperto del mondo turco nelle sue relazioni interne ed internazionali, membro del Consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è autore di Turchia, ponte d’Eurasia (Fuoco, Roma 2011)
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