In questo contributo si cercherà di analizzare (ancora una volta) la situazione di conflitto in Palestina su più livelli: quello ideologico e geopolitico (che naturalmente include anche il lato della propaganda su entrambi lati); quello economico e quello prettamente militare. Per fare ciò, si partirà da alcuni estratti dai discorsi del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del Presidente dello “Stato ebraico” Isaac Herzog.

Per comprendere il piano ideologico di un conflitto si rende necessario partire dalle considerazioni del teorico militare tedesco Carl von Clausewitz (1780-1831). Questi, infatti, affermava che la guerra deve essere combattuta sempre per degli specifici obiettivi politici; di conseguenza la strategia militare deve essere sviluppata in modo subordinato a tali obiettivi[1].

Bene. Netanyahu ha affermato: “Israele non ha iniziato questa guerra; Israele non ha voluto questa guerra; Israele vincerà questa guerra[2]. Allora, in primo luogo è il caso di ribadire che, in realtà, quella a cui si sta assistendo non è una nuova guerra, ma semplicemente la recrudescenza di un conflitto che tra bassa ed alta intensità va avanti da prima del 1948. Si potrebbe partire addirittura dal 1936, con la Grande Rivolta Araba guidata dal Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husayni (rivolta indirizzata in primo luogo contro la potenza mandataria britannica, ritenuta complice del movimento sionista). Questo punto è importante, perché c’è ancora oggi chi sostiene la tesi che la coscienza nazionale palestinese sia un prodotto posteriore alla cosiddetta Nakba. Invece, già nei primi decenni del Novecento, quando il territorio era ancora sotto il dominio ottomano, vi era in Palestina un fiorire di pubblicazioni in cui intellettuali arabi si confrontavano su quello che avrebbe dovuto essere il futuro della stessa Palestina[3]. Ne consegue che, in questo caso, il Primo Ministro israeliano stia operando, tornando a von Clausewitz, sul piano della “modificazione della realtà”: ovvero, pretende che l’attuale situazione di conflitto sia un “atto totalmente isolato che sorge repentino senza nessuna connessione con l’anteriore vita dello Stato[4]. Questo, in effetti, è uno schema tradizionale della propaganda occidentale (attuato in precedenza sia in Georgia sia in Ucraina): si cerca di separare l’evento dalle sue cause per invertirne le responsabilità nel tempo e nello spazio.

Lascia qualche dubbio anche l’affermazione secondo cui Israele non avrebbe voluto questa “guerra”. Questo perché l’operazione di Hamas chiamata “Tempesta di al-Aqsa” è stata il prodotto di mesi (se non anni) di studio e preparazione. Ed in questo periodo non si può certo affermare che il conflitto in Palestina fosse (completamente) congelato. Infatti la popolazione di Gaza vive da quasi vent’anni in stato d’assedio (acqua ed elettricità col contagocce, forniture alimentari ridotte, impossibilità di pescare nel mare adiacente alla propria costa o a sfruttarne le abbondanti risorse naturali) e sottoposta periodicamente ad operazioni militari aeree israeliane che causano centinaia di morti (soprattutto civili): ad esempio, Operazione Piombo fuso (2008-2009), oltre 1300 vittime di cui 900 civili; Operazione Pilastro di difesa (2012), oltre cento vittime civili[5]. Ancora, sarebbe opportuno ricordare che nel 2023 (fonte Save the Children) si è registrato il più alto numero di minori palestinesi uccisi dalle forze di occupazione (sebbene il dato si riferisca alla Cisgiordania e non a Gaza)[6].

Netanyahu ha affermato, inoltre, che “Israele vincerà questa guerra”. Qui, è opportuno tornare nuovamente a von Clausewitz, quando affermava che la guerra deve sempre avere degli obiettivi politici specifici e che la strategia militare deve essere subordinata a tali obiettivi. Come è noto, von Clausewitz combatté con l’esercito dello Zar contro Napoleone. È altrettanto noto che la dottrina militare russa è impregnata di teoria clausewitziana. E la guerra in Ucraina è un esempio lampante di conflitto combattuto con obiettivi politici specifici e con una strategia militare subordinata a tali obiettivi (naturalmente con tutte le contraddizioni che vi possono essere, e con gli alti e bassi delle operazioni belliche).

Ora, alla luce dell’affermazione del teorico tedesco, cosa può significare “Israele vincerà questa guerra”? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto capire quali sono gli obiettivi di Israele, perché ad oggi non sono molto chiari. Dunque, se l’obiettivo è la totale eliminazione di Hamas, ciò richiede uno sforzo bellico particolarmente imponente e si cercherà di spiegare perché. Senza considerare, al momento, che il cervello – la guida politica di Hamas – e la sua cassaforte non si trovano nella Striscia, ma sono sparsi tra Qatar, Libano e Iran. Qualora Tel Aviv volesse eliminare anche i vertici di Hamas, dovrebbe ricorrere ad assassinii mirati, sulla scia di quanto fatto in passato con i capi di Settembre Nero, ad esempio.

Allora, per eliminare Hamas (eliminazione che in linea teorica sarebbe solo temporanea, visto che i conflitti asimmetrici contro forze insurrezionali in Afghanistan, Iraq, o nella stessa Palestina, hanno insegnato che per ogni militante che si elimina ne nascono altri due, se si tiene in considerazione il notevole incremento demografico di queste popolazioni) l’esercito sionista dovrebbe in primo luogo procedere per gradi: avanzare, “bonificare l’area”, controllare.

L’esercito israeliano – è bene ribadirlo – ha scelto di ingaggiare un conflitto urbano in una zona densamente abitata. Questo genere di conflitti è estremamene rischioso (le forze armate in generale cercano sempre di evitarlo) e solitamente favorisce chi si difende e non chi attacca. Non solo, ma questo è un conflitto che si combatte sia in superficie che sotto terra. Quindi Israele dovrebbe “bonificare” sopra e sotto. Ad esempio, oltre all’utilizzo di bombe antibunker che arrivano a 20-25 metri di profondità o di “bombe spugna” che bloccano l’ingresso delle gallerie con materiale gelatinoso, si è parlato in questi giorni di pompare l’acqua del mare per inondare le gallerie costruite da Hamas sotto la Striscia. Tale soluzione appare complicata sia sul piano logistico (il trasporto dell’acqua marina diventerebbe inevitabilmente un bersaglio) sia su quello umanitario, visto che parte della popolazione civile si è rifugiata nelle stesse gallerie per sfuggire ai bombardamenti sionisti.

Ancora, l’IDF ha scelto di muoversi per zone. In questo caso, il problema è che parte della popolazione si sposta dalla zona di guerra verso aree relativamente più tranquille, col risultato che, nel momento in cui l’esercito israeliano dovrà spostarsi in una nuova zona, la troverà più popolata di prima, finendo così in una sorta di circolo vizioso.

Si tenga inoltre a mente che, ad oggi, l’esercito israeliano è al primo grado di questo processo (l’avanzata) solo in una zona limitata della Striscia di Gaza ed ha già perso un numero elevato di mezzi. E si tenga a mente che “bonifica” e “controllo” (i gradi successivi) richiedono sforzi e tempi anche maggiori (da non sottovalutare, ancora una volta, il fatto che Hamas si stesse preparando da tempo al conflitto urbano con tanto di manuali illustrativi, distribuiti ai miliziani, su dove colpire esattamente i carri Merkava). Dunque i costi economici, e non solo le perdite sul campo di battaglia, saranno molto elevati per Israele. Altro punto: Israele ha in questo momento un numero sufficiente di uomini preparati al conflitto urbano, in superficie e sotto la superficie? La risposta è no. E buona parte dei suoi riservisti non è preparata in alcun modo al combattimento, in generale. Al momento, solo l’esercito statunitense e quello cinese si stanno addestrando in modo continuato al combattimento sotto terra[7]. La Cina, in particolare, ha ultimato la costruzione di diverse fortificazioni sotterranee nell’Aksai Chin, lungo il confine conteso con l’India; si prepara ad un potenziale conflitto in un’area densamente abitata come Taiwan; ed ha approntato un sistema di difesa sotto la superficie del proprio territorio (rivolto principalmente alla protezione e occultamento dei propri sistemi missilistici) che è stato definito come “la grande muraglia sotterranea”.

A questo proposito, appare rilevante un’altra citazione di von Clausewitz: “L’essenza del soldato presuppone le qualità di coraggio, spirito di sacrificio, perseveranza, disciplina, resistenza fisica e psicologica a fatiche e disagi[8]. L’elemento umano, di fatto, è fondamentale nel conflitto. Per questo i vertici politici sionisti hanno cercato di impostare lo scontro in termini esistenziali. Tuttavia il carattere esistenziale è ancor più marcato sul lato palestinese, visto che gli stessi Palestinesi (per citare questa volta Marx ed Engels) hanno da perdere solo le loro catene. Di conseguenza, non è improprio parlare di un vantaggio psicologico palestinese che alla lunga (e i tempi saranno molto lunghi) potrebbe favorire questo lato della barricata.

C’è, ovviamente, un’altra opzione da considerare. Ovvero, che l’obiettivo di Israele è la pulizia etnica totale (o quasi) della Striscia di Gaza: in altri termini, spingerne gli abitanti verso l’Egitto, o magari convogliarli forzatamente verso la Giordania attraverso il deserto del Negev. In questo caso, l’obiettivo politico sionista sarebbe una nuova occupazione permanente della Striscia. Naturalmente, ciò avverrebbe in spregio del diritto umanitario (magari di diverse risoluzioni ONU, come già successo) e con il tacito assenso dell’Occidente (o meglio del suo egemone, gli Stati Uniti, più i governi dei suoi Stati vassalli in Europa e altrove, che giustificherebbero l’azione come “autodifesa”). È un’opzione fattibile? Sicuramente, il vantaggio per Tel Aviv sarebbe l’appropriazione indebita dei ricchissimi giacimenti marittimi di gas Marine 1 e 2. A questo proposito occorre evidenziare che gli accordi di Oslo (comunque ampiamente superati, per non dire totalmente falliti) non citavano in alcun modo lo sfruttamento delle risorse dei fondali marini come diritto riconosciuto all’Autorità Nazionale Palestinese. Ne deriva che Israele ha sempre considerato nulli gli accordi presi da Arafat nei primi anni 2000 con British Gas per lo sfruttamento di tali risorse. Ciò lascia presagire che, qualora la guida politica della Striscia “bonificata da Hamas” venisse affidata a quella che attualmente è un’entità collaborazionista dell’occupante (l’ANP), l’estrazione ed i profitti della risorse finirebbero totalmente (o quasi) nella mani di Tel Aviv, la cui ambizione di divenire potenza energetica regionale è ben sostenuta dagli Stati Uniti (che possono sfruttarla ulteriormente per mantenere l’Europa in condizione di cattività geopolitica, dopo il disastroso regime sanzionatorio che questa si è autoimposta in seguito al conflitto in Ucraina).

Allo stesso tempo, però, il progetto di pulizia etnica, parziale o totale, comporterebbe il rischio di un allargamento del conflitto ad altri attori regionali (oltre alle forze yemenite che, rovesciando quanto affermato dalla Convenzione di Montego Bay sul cosiddetto “passaggio in transito”, hanno già scelto di muovere guerra al traffico commerciale diretto verso l’entità sionista attraverso lo Stretto di Aden). Di conseguenza, le possibilità di vittoria reale per Israele rimangono ancora poco consistenti, anche in virtù del fatto che Hamas, paradossalmente, ha già raggiunto molti degli obiettivi che si era prefissati con l’attacco del 7 ottobre.

Ovviamente, appare pretensioso lasciarsi andare oggi a valutazioni finali (che magari si riveleranno totalmente fallaci) su chi ha vinto e chi ha perso. In questo sono esperti gli esponenti del giornalismo geopolitico che affollano i salotti televisivi e pure qualche canale di informazione sulle piattaforme della rete. Tuttavia, si possono trarre alcune conclusioni.

Al momento, il piano della guerra informativa è tutto in favore di Hamas. Emblematiche, in questo senso, sono state le immagini della liberazione di alcuni ostaggi (civili) israeliani, trattati nel rispetto dell’ingiunzione profetica che invita a prendersi cura ed a comportarsi in modo gentile con i prigionieri (non bisogna dimenticare che, in qualità di “Movimento di Resistenza Islamico”, l’approccio di Hamas al conflitto segue precise norme di derivazione teologica). Non solo. Con l’Operazione Tempesta di al-Aqsa Hamas ha letteralmente messo in evidenza le deficienze enormi degli apparati di sicurezza israeliani e di quello che veniva considerato come uno egli eserciti più organizzati e preparati al mondo. È notevole, in questo caso, la scelta accurata degli obiettivi da parte del Movimento di Resistenza, che, dopo aver neutralizzato coi propri droni le torrette di controllo, ha attaccato caserme occupate da carristi o personale che si occupa di logistica, tutti relativamente meno pronti al combattimento rispetto alle truppe d’assalto.

A questo proposito, occorre anche aprire una breve parentesi, visto che alcuni storici militari israeliani da tempo criticano apertamente quella che è una delle istituzioni sioniste per eccellenza: l’esercito. Il riferimento è ad Uri Milstein e Martin Van Creveld. Il primo, balzato agli onori delle cronache per aver affermato a suo tempo che Yitzhak Rabin fosse in qualche modo responsabile del suo stesso assassinio[9], ha affermato che l’esercito israeliano è un’istituzione antintellettuale che uccide ogni forma di pensiero critico. Van Creveld, invece, dal canto suo, ha descritto l’IDF come una sorta di milizia armata non professionale, la cui presunta superiorità rispetto agli altri eserciti regionali è data solo dall’utilizzo e dal possesso di sofisticati sistemi d’arma. Inoltre, sempre Van Creveld ha lamentato la quasi totale ignoranza in termini di dottrina e teoria bellica degli ufficiali israeliani, che preferiscono tenersi aggiornati solo attraverso i canali di informazione del rabbinato militare (effetto inevitabile del trionfo politico del sionismo religioso radicale nella società israeliana)[10]

Portando il discorso sul piano prettamente geopolitico, appare evidente che Hamas ha conseguito l’obiettivo di rallentare (per non dire interrompere, almeno momentaneamente) i comunque difficili negoziati per la normalizzazione “ufficiale” dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita e, più in generale, il processo messo in moto dai cosiddetti “accordi di Abramo” con il suo corollario di progetti infrastrutturali. Tra questi, il Trans-Arabian Corridor sostenuto da un’India in ottimi rapporti con Israele, sorta di spina nel fianco dei BRICS, nonostante il ruolo non disinteressato da essa svolto nel superamento del regime sanzionatorio occidentale imposto a Mosca. (Il Trans-Arabian Corridor avrebbe dovuto collegare il Mare Mediterraneo orientale con l’Oceano Indiano tramite il Golfo Persico ed il Mar Arabico).

Non solo, ma l’azione di Hamas ha ulteriormente smascherato la mentalità “doppiopesistica” occidentale: le vittime civili in due mesi di azione israeliana sono in proporzione molto più numerose di quelle avute in Ucraina dal momento dell’intervento diretto russo nel conflitto. O meglio, ha minato, se ancora ve ne fosse bisogno, la credibilità dell’Occidente come attore sia regionale (nel contesto del Levante) sia globale, a tutto vantaggio dei suoi principali competitori, Mosca (che ha addirittura accolto una delegazione di Hamas), Teheran e Pechino (già protagonista dello storico accordo sulla riapertura dei canali diplomatici tra Arabia Saudita e Iran). Ne consegue che non risultano affatto fuori luogo le parole della Guida della Rivoluzione Islamica dell’Iran, l’Imam Khamenei, sulla “deamericanizzazione” come esito futuro della “Tempesta di al-Aqsa”.

L’abilità informativa di Hamas permette di arrivare all’esame di un’altra dichiarazione di Netanyahu. Questi, infatti, facendo riferimento alle Scritture, ha parlato di una guerra tra “popolo della luce” e “popolo delle tenebre”[11]. Indubbiamente, questo è un argomento abbastanza noto, ricollegabile in modo diretto al messianismo protestante e, sotto certi aspetti, al sionismo cristiano protettore di quello giudaico. Esso è stato utilizzato a più riprese anche dai teorici del “trumpismo” in Nord America e dai loro epigoni “sovranisti” in Europa, i quali ne hanno fatto una vera e propria teologia politico-apocalittica.

Questa “controteologia”, nello specifico, ha un suo riferimento teorico in un breve opuscolo del 1944 scritto dal “teologo riformato” Reinhold Niebuhr dal titolo The children of the light and the children of darkness. L’opuscolo merita l’apertura di una nuova parentesi, visto che in essa si esprime l’idea di un vero e proprio scontro esistenziale tra gli Stati Uniti e l’Europa, un’idea neanche molto originale. Già per tutto il corso del XIX secolo, infatti, vennero propugnate negli Stati Uniti tesi dal sentore “cospirazionista” secondo le quali gli Imperi europei, in combutta con il Papa ed i Gesuiti, stavano cercando di distruggere il governo democratico di Washington. Ad ogni modo, al centro dell’opuscolo di Niebuhr vi era la “civiltà democratica moderna”, che trovava la sua perfetta espressione proprio negli USA. Questa, con il suo “credo liberale”, era, dal suo punto di vista, espressione dei “figli della luce”, e il suo unico peccato sarebbe quello di un ingenuo approccio sentimentale alle relazioni internazionali. Alla “civiltà democratica” si contrappone quella proposta dai “figli delle tenebre” votati al cinismo morale (caratteristica che, secondo Niebuhr, contraddistingueva tanto Benito Mussolini, collegato a Mazzini da una linea diretta, quanto Adolf Hitler, o il bolscevismo); il loro antidemocratismo sarebbe influenzato sul piano politico da Hobbes e su quello religioso da Lutero (sic!). Essi, malvagi ma assai intelligenti, non conoscono altra legge o diritto oltre la mera forza. Il nemico dei “figli della luce”, dunque, non può che essere la “furia demonica” del nazismo e del fascismo (oggi, magari, dell’Islam nelle sue espressioni non strumentali agli interessi geopolitici di Washington), i quali pongono gli strumenti della tecnica moderna al servizio di un’ideologia antimoderna che antepone la comunità all’individuo[12].

Ora, le affermazioni di Niebuhr possono essere facilmente confutate su più livelli. Il teologo riformato, in primo luogo, sembra essere uno scadente sconoscitore di Hobbes, la cui “unica colpa”, al massimo, sarebbe quella di non mascherare mai il potere, il suo peso e la sua posizione centrale in ogni comportamento umano, e mai di esaltarlo. In secondo luogo, egli sembra ignorare i molteplici crimini del colonialismo liberale e lo stesso fatto che la cosiddetta “Dottrina Monroe”, lungi dall’essere il prodotto di una geopolitica isolazionista, fosse semplicemente la prima espressione dell’imperialismo nordamericano. Inoltre, sembra ignorare il fatto che l’assenza di “diritto”, parafrasando Carl Schmitt, ha contraddistinto soprattutto le azioni nordamericane sul continente europeo. Demonizzando il nemico (meritevole di annichilimento), gli Stati Uniti, infatti, hanno riportato le “legge della giungla” in Europa. Superando il tradizionale ius publicum europaeum posto alla base dei rapporti tra le monarchie cristiane del continente, gli Stati Uniti hanno imposto sul continente un dominio che oggi, con la sola esclusione della Russia, è divenuto totale e totalizzante.

Ciò permette l’analisi di un’altra dichiarazione propagandistica sionista: quella del Presidente israeliano Isaac Herzog, che ha sostenuto la tesi secondo la quale Israele starebbe difendendo la “civiltà occidentale” nella sua interezza[13]. Anche in questo caso si tratta di un argomento piuttosto “datato”, visto che venne utilizzato già da Theodor Herzl, con uno slancio puramente “orientalista” da “fardello dell’uomo bianco”, nel manifesto del sionismo Der Judenstaat. Qui, infatti, in riferimento alla colonizzazione della Palestina, si legge: “Per l’Europa, che dovrà garantire la nostra esistenza, rappresenteremmo colà un vallo contro l’Asia, copriremmo l’ufficio di avamposto della civiltà contro la barbarie[14].

In effetti, l’affermazione di Herzog non appare priva di fondamento. Il punto di fondo è capire cosa realmente si intenda, in questo caso, per “civiltà” e “valori” occidentali. A questo proposito, non sono privi di interesse gli studi dello storico e sociologo francese Maxime Rodinson e del sociologo israeliano Baruch Kimmerling, che hanno elaborato una sorta di parallelismo tra il modello coloniale americano e quello sionista. In particolare, hanno messo in luce come quello sionista sia passato dal sostenere (almeno inizialmente) un progetto coloniale fondato sull’economia di piantagione, sfruttando manodopera segregata e considerata umanità inferiore (sulla falsa riga di quanto realizzato nel Sud degli Stati Uniti), a realizzare un modello assai più simile a quello di Australia, Sud Africa e Nord degli Stati Uniti, dove la popolazione indigena è stata allontanata e/o sterminata.

Se questa è la “civiltà occidentale”, appare chiaro che i presunti “valori” di cui questa si fa portatrice non sono altro che dei “disvalori”: una mera macchinazione che oggi, in nome del multiculturalismo, vuole uccidere ogni forma culturale specifica. E la stessa “civiltà occidentale” (almeno nel modo in cui la intende Herzog, o in cui la si intende nei centri di potere dell’Occidente) appare come una “fabbricazione ideologica”: il prodotto di ideologie preconfezionate ed esportate dal dominatore geopolitico dello stesso Occidente sui territori da esso controllati. L’Europa, in particolare, non è Occidente, ma una sua appendice periferica colonizzata culturalmente ed oggi estremamente militarizzata (soprattutto nella sua zona orientale) in quanto “linea di faglia”: punto di rottura con un altro mondo. Ancora, il mito tecno-mercantile su cui si fonda l’attuale Unione Europea (il paradigma liberalcapitalista e mercantilista imposto agli studi politologici con conseguente occultamento di tutto ciò che appare come non “politicamente corretto”) è in sé un “antimito”: un mito negativo, privo di ethos arcaico, prodotto di una cultura politica (quella degli Stati Uniti) che fin dalle origini, parafrasando ancora una volta Carl Schmitt, è antieuropea.

Dunque, Israele non difende solo la presunta “civiltà occidentale” così intesa, ma difende anche la capacità del dominatore dell’Occidente geopolitico di imporre il suo volere su questa parte di mondo. L’entità sionista è uno dei motivi che lo tengono in questa parte di mondo. E finché la stessa entità sionista rimarrà su questi termini in Palestina non vi potrà essere alcuna sovranità per l’Europa.


NOTE

[1]C. von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, Oaks Editrice, Sesto San Giovanni (MI) 2023, p. 3.

[2]Israel did not start or want this war, but it will win this war: Benjamin Netanyahu, The Economic Times, www.youtube.com.

[3]Si veda A. Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci Editore, Roma 2017, p. 94.

[4]Pensieri sulla guerra, ivi cit., p. 11.

[5]La fonte è il Palestinian Center for Human Rights. Il sito www.pchrgaza.org è stato oscurato a seguito della nuova fase del conflitto.

[6]Si veda Cisgiordania: il 2023 è l’anno più letale per i bambini palestinesi. Uccisi almeno 38 minori, più di uno a settimana, 18 settembre 2023, www.savethechildren.it.

[7]Si veda Army is spending half a billion to train soldiers to fight underground, 2 giugno 2018, www.military.com.

[8]Pensieri sulla guerra, ivi cit., p. 4.

[9]The Israeli historian who blames Rabin for his own murder and praises Hitler is making a come back, 9 novembre 2018, www.haaretz.com.

[10]Si veda D. Perra, Sionismo politico e sionismo religioso, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” vol. LXXIII, n. 1/2024.

[11]Premier Netanyahu continues to use scriptures to defend Israeli war on Gaza, 3 novembre 2023, www.aa.com.tr.

[12]Si veda R. Niebuhr, The children of light and the children of darkness, Charles Scribners’s Son (1944).

[13]Israeli president: war against Hamas intend to save the values of western civilization, www.youtube.com.

[14]T. Herzl, Lo Stato ebraico, Il Nuovo Melangolo, Genova 1989, p. 60.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).