La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che il 2012  sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Se davvero così fosse, gli americani, i francesi e i russi prima di ogni altra cosa dovrebbero decidere se avviare la ricerca con gli attuali inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, o se sarebbe più opportuno cambiarli.  Molto più difficile lo sarà per i cittadini di un Egitto che non si riesce ancora ad intravvedere chi lo governerà, come pure per gli abitanti dei paesi percorsi da quel che rimane delle primavere arabe.

Sicché l’unica cosa certa è che il nuovo anno che è stato giudicato con largo anticipo nero, parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà, e quindi saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive che potrebbero scatenare nuovi e devastanti conflitti. Perché oggi le  contraddizioni sono molto più forti a causa della globalizzazione che vuole azzerare la distanza tra universalismo e localismo  mortificando l’ identità. Pertanto, viviamo ormai da tempo, in modo schizofrenico due livelli di identità, la prima  che s’identifica col mondialismo, la seconda che rivendica invece la sua specificità. Il fondamentalismo prospera su questo conflitto esaltato dall’accanimento multimediale che si limita a riprendere i fatti senza spiegarne con obiettività l’origine. Eppure per schiarirsi le idee, basterebbe rileggersi Gilles Kepel quando scrive che gli odierni movimenti fondamentalisti sono «per eccellenza figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione; le loro grida e i loro lamenti incitano a ricercarne le origini, a rintracciarne la genealogia inconfessata. Come il movimento operaio di ieri, così i movimenti religiosi odierni hanno la particolare capacità di indicare le disfunzioni della società, che classificano secondo le proprie categorie interpretative».

Naturalmente, a differenza di quanto accadeva prima, i nuovi poveri  sono tutti coloro che se ne stanno incolonnati davanti all’ingresso della grande festa consumista, senza potervi entrare. Essi vivono nel continuo e logorante sospetto di non essere all’altezza dei tempi che impongono nuovi standard, nuove regole di vita e di lavoro. Cosicché il fondamentalismo diventa, accogliendo tra le sue fila gli esclusi, il solo rimedio radicale contro le regole imposte dalla società consumista basate sul libero mercato. Pertanto in un mondo dove tutti i modi di vivere sono consentiti, ma nessuno è garantito il fondamentalismo riesce ad infondere conforto e certezza poiché esso dice a chi l’abbraccia che cosa fare, anche se il prezzo da pagare è la limitazione delle libertà democratiche. Certamente nei periodi di crisi come questo che stiamo vivendo, il fondamentalismo è il solo segmento  che  combatte la mondializzazione in maniera forte, spesso ricorrendo al terrorismo, e scatenando così la repressione più dura, la guerra preventiva. Ragion per cui la tentazione di desumere il futuro del mondo dal presente e dal passato che ci circonda diventa ancora più grande in questo bilancio di fine d’anno.

Il tentativo è di capire se ci attende un anno nero shocking, o un futuro di pacifica coesistenza come auspica la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi. Naturalmente la sua è  una visione suggestiva che non va respinta, dato che a volte certe previsioni poi finiscono con l’avverarsi. Ragion per cui, nel breve volgere dell’anno che si chiude e del nuovo che si apre torniamo a scrutare la scala dei valori – fra cui il primato della coscienza, il pluralismo, l’etica della responsabilità – per vedere se sono stati compiuti passi in avanti o all’indietro mentre si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bilderberg club e della  Goldman-Sachs, insomma dei costruttori dell’impero economico. Quale sarà il futuro comune della coesistenza? Prevarrà la cultura del rispetto dei diritti umani o quella dell’human security con la quale si limiteranno gli spazi democratici e si privilegeranno  le leggi coercitive che ben conosciamo? Prevarranno le libertà civili o le leggi di sicurezza, gli imperativi dei sacri testi? Non mi sembrano delle domande retoriche. Perché lo squilibro geopolitico che s’è creato con la crisi economica che stravolge l’Occidente, le primavere arabe, le sanzioni e la minaccia di invasione dell’Iran, l’impiego sempre più diffuso dei droni (i bombardieri senza pilota), lo spread e gli squassi provocati dalle oscillazioni delle monete, hanno riacceso la discussione storica sul senso della vita coinvolgendo la politica, le ideologie, le fedi. Accade nello scenario dell’economia globale nel quale, «le persone non solo sono sempre meno necessarie, ma le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono una fonte primaria di inefficienza economica. Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stiamo creando un sistema che ha meno posti per le persone», sentenzia  David Korten, economista, già professore alla Harvard Business School.

Da questi squilibri nasce un desiderio ansioso di interrogarsi che ha avviato una ricerca profonda sui valori che accomunano gli uomini, sui criteri che li regolano, sui perché le regole tradizionali si scontrano con le nuove con effetti  laceranti, e infine sul senso stesso dell’esistenza. Con una velocità di analisi che non ha precedenti nella storia. Infatti, da quando – vent’anni fa – è implosa l’Unione sovietica, si è avviato il mutamento strutturale dei sistemi economico-produttivi che ha rivoluzionato la natura e la regolazione del lavoro così come rapporti sociali. Con risultati spesso traumatizzanti, perché il capitalismo-postfordista si poggia sul  “capitalismo flessibile”, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta – l’abbiamo imparato in fretta – per precarietà in un mondo postindustriale dove da tre lustri a questa parte, non si parla più – secondo il sociologo U. Beck  – di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”, (nell’area Ocse a luglio 2011 c’erano ancora 44,5 milioni di senza lavoro, 13,4 milioni in più rispetto al periodo pre-crisi), il che significa, come sostiene Beck, che la società del lavoro diventa sempre più precaria e che parti sempre più grandi delle popolazioni hanno “pseudo-posti di lavoro” sempre più insicuri.

Infatti, sempre secondo David Korten:« Il sistema globale sta armonizzando gli standard paese dopo paese verso il minimo comune denominatore. Alcune imprese socialmente responsabili cercano di opporsi alla marea con qualche limitato successo, ma la loro non è una lotta facile. Non dobbiamo ingannarci», avverte Korten, «La responsabilità sociale è “inefficiente” in un mercato libero globale, e il mercato non perdonerà coloro che non approfittano di tutte le opportunità per liberarsi dell’inefficiente».  Insomma, quanto sta accadendo e non ci vuole poi molto per capirlo, provoca nei lavoratori un senso di fallimento – alimentato dall’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide – che mina alle radici la percezione di continuità dell’esistenza e della tradizione, scollega definitivamente il già mal conciliato tempo di lavoro e il tempo libero, creando così le condizioni di un conflitto permanente tra la personalità dell’individuo e la sua quotidiana esperienza di vita all’interno della comunità.

Il sociologo americano R. Sennet già quindici anni fa rilevava nel lavoratore precario, (in Italia il 46,7 per cento delle persone tra i 15 e i 24 anni che lavorano ha un impiego temporaneo), una progressiva corrosione del carattere, le cui caratteristiche di stabilità sono in contrasto con la dinamicità, la frammentarietà e la mutevolezza del capitalismo flessibile. Stando così le cose il liberismo conservatore americano, come dimostra Sennet, è caduto «in una profonda contraddizione: lo stesso libero mercato che esso propugna ha finito col minare profondamente il carattere morale individuale, la cui esaltazione è un elemento imprescindibile del pensiero conservatore e liberista». Ma i costruttori dell’impero economico non sembrano preoccuparsene, come informa Korten. Eppure la democrazia è nata in Europa e negli Usa come “ democrazia del lavoro “, cioè del lavoro salariato, se questo viene meno si rompe l’alleanza storica tra il capitalismo, stato sociale e democrazia e viene meno anche un certo modo di percepire il mondo così come fino all’altro ieri eravamo abituati. Infatti, è già nata – l’abbiamo vista – una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana e in questa interpretazione la religione, qualunque sia, gioca un ruolo determinante, perché essa possiede la straordinaria capacità di mettere a nudo le disfunzioni della società, senza avere  l’onere di realizzare con concretezza il rimedio.

Le condizioni, per molti versi sono favorevoli ai ministri del culto di ciascuna fede, perché il crollo del muro di Berlino, e con esso quello delle ideologie, ha prodotto in vent’anni, una frammentazione senza precedenti tra imperi-Stato, nazioni-Stato, nazionalità, così come risulta evidente dall’atlante del XXI secolo formato da centinaia di frammenti alla deriva sospettosi nei confronti dell’America perché «è un grosso cane amichevole in una stanza troppo piccola. Ogni volta che scodinzola, fa cadere una sedia», come scriveva Arnold Toynbee (Il mondo e l’occidente 1953), scatenando non poche polemiche. Egli credeva che per le civiltà valga un meccanismo di “sfida e di risposta”, poiché una civiltà nasce quando un gruppo umano è in grado di rispondere ad una sfida che gli viene posta dall’ambiente naturale o sociale e muore quando la civiltà non riesce più a rispondere vittoriosamente alle sfide che incontra. Toynbee riteneva possibile l’incontro e lo scontro, l’intrecciarsi di una pluralità di civiltà. Egli era per molti versi un ottimista, come oggi potrebbe apparire  Aung San Suu Kyi quando parla di ricerca di un nuovo equilibrio del mondo.

Dopo tutto, per spingersi verso “modelli economici più consapevoli” è indispensabile favorire il dialogo, la conoscenza, fare in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che va riscoperto e sostenuto. Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stato, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili. Dopotutto anche noi europei abbiamo bisogno di ricompattarci per non soggiacere all’ideologia e con essa agli interessi dei banchieri e della superpotenza imperiale. Infatti, l’esaltazione del consumismo senza il quale non c’è qualità di vita, ha prodotto l’atomizzazione degli interessi, delle culture, l’allontanamento nei fatti di ogni etica, ha stemperato il desiderio di aggregazione. Molto, anzi moltissimo, vi contribuisce quell’arma di distrazione di massa che è la televisione, la quale  tutto traduce in tragedia del mero presente, del nudo accadimento, senza offrire un minimo spunto di approfondimento che non sia strumentalizzato, distorto dai grandi gruppi di interesse e dai grandi ricchi che ne fanno parte.

Se poi si tiene a mente l’avvertimento di Neil Postman, secondo il quale «la televisione è un mezzo individualizzante. La si sperimenta e si reagisce ad essa, in un isolamento dagli altri che è tanto psicologico quanto fisico» , meglio si capisce come essa possa incidere più di chiunque altro sulle interpretazioni dei valori, stravolgendoli. La tolleranza, per esempio, che ora viene ritenuta una debolezza nell’incontro con l’altro, poiché – si sostiene –  si può tollerare soltanto ciò che “non” si reputa vero. Dimenticando che, come insegna Pico della Mirandola , la tolleranza è interconnessa all’amore. Che è l’unico sentimento che può garantire nel confronto con l’altro quell’armonia che il mistico Mullah Shah Badakhshi raffigurava  con un’immagine tenera: «Tu eri me e io non lo sapevo», parlando ai suoi allievi nel giardino di un tempietto appena fuori Lahore,  milleseicento e passa anni dopo Cristo, in piena èra Moghul.

 

Vincenzo Maddaloni


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