L’onda di proteste che ha portato alla caduta di longeve dittature in Tunisia ed Egitto – e che sta avendo risvolti fino a poco tempo fa impensabili – sta assumendo nei Paesi del Golfo Persico delle connotazioni che da un punto di vista geopolitico meritano un approfondimento, sia relativamente al versante interno che nei rapporti tra le potenze regionali. Andiamo con ordine. Nelle ultime settimane il Bahrein non è stato risparmiato nella lunga lista di Paesi della regione investiti dalla rabbia delle rispettive popolazioni. Si tratta di una monarchia costituzionale, la cui capitale è Manama, di poco più di un milione di abitanti, di cui solo la metà è in possesso della nazionalità e gode dei diritti garantiti. Fra i non nazionali, una fetta cospicua è rappresentata da lavoratori espatriati provenienti perlopiù dall’Asia meridionale. Oltre all’estrazione di gas naturale e petrolio, la cui produzione è comunque in diminizione, particolare rilievo hanno il turismo e, soprattutto, le attività finanziarie il cui sviluppo ha indotto l’OCSE a bollare il Paese come “paradiso fiscale” e ad incentivare la classe dirigente ad una politica collaborativa in materia di norme antiriciclaggio.
Nell’arcipelago – costituito da trentacinque isole – a largo delle coste saudite, indipendente dal 1971 dopo la parentesi che dalla fine della prima guerra mondiale lo ha visto protettorato britannico, la minoranza sunnita, incarnata dal sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa, che detiene le posizioni chiave sia nella sfera politica che economica, subisce da settimane il montare della protesta da parte della maggioranza sciita – circa i due terzi della popolazione – che chiede maggiore visibilità e la transizione verso una vera monarchia costituzionale in uno Stato in cui la corona è ereditaria. Fino a poco tempo fa osservatore interessato della situazione nell’arcipelago era l’Arabia Saudita, che considera la dinastia sunnita degli Al Khalifa, al potere da circa 230 anni, un alleato irrinunciabile, in funzione anti-iraniana. Mero osservatore, almeno fino a quando un migliaio di soldati sauditi – insieme a cinquecento poliziotti degli Emirati Arabi Uniti – non hanno fatto il loro ingresso nella capitale, Manama, per reprimere, a sostegno del governo sunnita locale, le rivolte. Dal The National del 14 marzo: “Mille soldati sauditi sono arrivati in Bahrein per riportare l’ordine nel regno, dove le manifestazioni continuano da più di un mese. La missione saudita, sotto l’egida del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), è partita dopo che l’opposizione del Bahrein ha rifiutato di scendere a patti con il governo”. Così, ancor prima della Libia, è stato il ricco arcipelago del Golfo a fare, per primo, da teatro ad un’invasione di forze militari straniere. Dal 14 marzo nel paese vige la legge marziale. Il Bahrain appare come la cartina di tornasole dei timori delle forze dell’area; che, cioè, un potenziale cambio di rotta politico possa dare un esempio alle opposizioni degli altri Paesi del Golfo. Un timore evidente ora in un’area in cui una sorta di predominio delle minoranze sembra essere messo in pericolo da quando sta accadendo in questi ultimi giorni. La posta in gioco è alta anche per quanto concerne gli equilibri nei rapporti tra le potenze regionali, in cui l’Iran – dove il 94% della popolazione è sciita – proprio insieme al regime saudita, recita un ruolo di primo piano. Non è un caso che nel bel mezzo dell’esplosione della rabbia del popolo bahrenita, il re sostenuto dagli Stati Uniti, abbia gridato a gran voce ad un complotto anti-sunnita ordito proprio dall’Iran. E che lo stesso presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad abbia tuonato definendo “un atto spaventoso destinato a fallire” l’intervento della coalizione guidata da Riyad. A parte le dichiarazioni, sebbene significative da un punto di vista politico – come quella del ministro degli esteri di Teheran Ramin Mehmanparast che ha affermato come “la presenza di forze straniere e l’interferenza negli affari interni del Bahrein è inaccettabile e complicherà le cose in futuro” – l’Iran non ha posto in essere, ad oggi, contromosse sostanziali. Un immobilismo quello iraniano che potrebbe avere delle ripercussioni, oltre che sul piano degli equilibri regionali, anche su quello della politica interna, dove proprio un’audace condotta in politica estera è stata, fino a questo momento, il marchio di fabbrica di Ahmadinejad e che potrebbe vedere danneggiata la sua immagine e la sua posizione qualora la situazione gli dovesse sfuggire di mano nel Golfo. L’Iran ha sempre guardato con profondo interesse all’evolversi della situazione e al succedersi delle rivolte. Ed è per questo che, secondo molti analisti, l’invasione da parte delle forze saudite – che hanno impresso una svolta ancor più repressiva alle dimostrazione nel Bahrein con decine di morti in piazza – potrebbe indurre ad una reazione iraniana. Andando ad ampliare lo spettro d’analisi, gli Stati Uniti non possono essere esenti dall’essere citati, sia per la storica centralità che il Golfo ricopre nel quadro della politica estera di Washington, sia perché l’Arabia Saudita è tra destinatari privilegiati di sostanziosi aiuti annuali da parte della Casa Bianca in un binario diplomatico prioritario che dura ormai dai tempi della presidenza Reagan. Amministrazione americana che è sempre sembrata più interessata, per ovvie ragioni strategiche, a ciò che succedeva nel Golfo che, ad esempio, all’evolversi della situazione libica dove invece è l’Europa ad essere direttamente coinvolta a causa della rete di affari costruita negli anni. Ed è curioso che proprio il Bahrein, in cui le manifestazioni sono sistematicamente soffocate nel sangue, sia stato definito solo poco tempo fa dal segretario di stato americano Hillary Clinton, come un “partner modello per gli Stati Uniti”. Il Bahrein ospita il Comando della 5° Flotta statunitense, dove sono di stanza più di duemila soldati. Il Pentagono ha affermato di non essere stato avvertito del lancio dell’operazione facendo pressione sulla famiglia bahrenita affinchè ceda alle istanze di Piazza della Perla. Lo stesso segretario alla Difesa Robert Gates ha dichiarato, in una delle sue visite nell’area, che al momento “non ci sono prove che l’Iran abbia dato il via a queste rivoluzioni popolari Ma se la crisi si prolunga, Teheran cercherà di sfruttare la situazione”.
Assodata l’importanza dei confronti tra i leader dello scacchiere regionale, complice l’immensa ricchezza in termini di risorse, per l’Arabia Saudita un pericolo di contagio nel proprio ordinamento interno, cristallizzato da tempo intorno alla famiglia reale, è tangibile ed assai temuto. Un cambio di regime nel vicino Bahrein sarebbe dannoso ed intollerabile, e proprio con ciò è possibile spiegare la necessità di un’invasione a sostegno della famiglia sunnita degli al-Khalifa. Lo stesso regno saudita soffre di profonde disparità ed una delle preoccupazioni risiede nel gap generazionale tra una popolazione all’interno della quale ben il settanta per cento non supera i trent’anni e che vede non più tanto salda alle redini un’elite di ultraottantenni. Costanti, seppur con le dovute differenze, che si ritrovano in vari scenari, alcuni già teatro di sommosse popolari, altri in cui queste sono in fieri ed oggetto della repressione dei rispettivi regimi. Ricondurre la situazione del Golfo alla dicotomia sunniti-sciiti costituisce senza alcun dubbio una chiave di lettura doverosa e corretta, anche inserita in uno scenario sovranazionale. Si confermano dunque, contestualmente agli elementi analizzati, delle connotazioni guida, che sono alla base della rabbia di popolazioni marginali e periferiche da ormai troppo tempo
Diego Del Priore è dottore in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali (Università degli studi di Roma “La Sapienza”).
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