Fonte: “Il Democratico”
Politici, intellettuali ed opinione pubblica occidentali hanno seguito sin da subito con grande entusiasmo simili fenomeni, vedendo in essi gli effetti di un grande e spontaneo movimento popolare, mosso dal riscatto contro governi autocratici e animato principalmente da giovani generazioni affamate di democrazia e di emancipazione sociale. Da ciò l’uso diffuso di espressioni idealizzanti quali “Primavere Arabe”, “Risorgimento Arabo” e simili.
Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, si constata che molto dell’entusiasmo della prima ora si è smorzato. Diversi fattori possono aver contribuito a ciò; fra questi, il ‘congelamento’ della rivoluzione in Tunisia ed Egitto, così come il prolungarsi della guerra in Libia; un conflitto questo ben più lungo e travagliato di quanto le dichiarazioni d’intenti iniziali avessero potuto far credere. Più in generale, l’intero evolvere degli eventi nell’ area vicinorientale ha infine mostrato, in maniera inequivocabile, come i fenomeni in questione siano molto più complessi e sfaccettati rispetto al quadro dipinto dai media, pieno invece di retorica e semplicismo.
Due giovani studiosi hanno provato a fare il punto della situazione con un saggio eloquentemente intitolato “Capire le rivolte arabe” (Avatar Editions). Daniele Scalea e Pietro Longo, questi i nomi degli autori, hanno una formazione accademica rispettivamente nel campo della storia e dell’arabistica; inoltre si occupano entrambi di geopolitica, in particolare per la rivista Eurasia, di cui sono redattori. Il saggio in questione si presenta di grande utilità per chiunque voglia orientarsi nella complessità dei rivolgimenti in corso nel mondo arabo, dal momento che analizza in maniera sintetica ma rigorosa le dinamiche di breve e lungo periodo sottese ai fenomeni rivoluzionari, tratteggiandone inoltre in maniera convincente diversi possibili sviluppi futuri.
Oggi più che mai assume grande importanza una conoscenza basilare della realtà mediterranea e vicinorientale, tanto più in un paese come il nostro che, pur se legato all’area politico-culturale nord europea ed atlantica, si trova quasi interamente disteso al centro del Mediterraneo; da una tale posizione, l’Italia non può trascurare le realtà dell’altra sponda di quello che fu il mare nostrum, né tantomeno fingere di ignorarne i problemi salvo – in quest’ultimo caso – subirne in maniera ancora più brusca e traumatica i contraccolpi, come ci ricordano i due studiosi. Ci auguriamo quindi che, grazie anche alla diffusione di opere come quella di Longo e Scalea, possa maturare una diffusa consapevolezza della necessità di abbattere quell’invisibile muro politico-culturale che ci separa dal mediterraneo extraeuropeo.
Abbiamo incontrato i due autori del testo per porgli alcune domande sui fenomeni oggetto del loro studio.
Una fondamentale chiave di lettura offerta dal vostro lavoro per cercare di spiegare i fenomeni in corso è quella del dirompente affermarsi dell’Islam politico a scapito di un nazionalismo arabo oramai in declino. Potete spiegarne in breve il significato? Pur nelle loro specificità e differenze, possono trovare coerente inquadramento entro questa lettura anche i due scenari di crisi attualmente più seguìti ed incerti dell’area, quello siriano e quello libico?
Daniele Scalea: Poniamo come premessa che nell’Islam non esiste la “separazione tra Stato e Chiesa” come da noi, e quindi la distinzione tra movimenti laici e movimenti religiosi è per certi versi arbitraria. Ciò detto, è lecito parlare di contrapposizione tra un nazionalismo laico, spesso panarabo, ed una corrente religiosa, talvolta indicata come “Islam Politico” o “islamismo”. Se il nazionalismo laico ha prevalso nei primi decenni del dopoguerra, esso è da tempo in fase calante: fallimentare, delegittimato ed impopolare, sta lasciando spazio all’ascesa dell’Islam Politico.
Ciò avviene, o potrebbe avvenire, anche in Libia e Siria. Probabilmente Gheddafi non sarebbe mai stato rovesciato senza l’intervento straniero, ma questo c’è stato ed ora le porzioni più ricche e popolose del paese sono in mano ai ribelli, per lo più islamisti. Ad esempio il governatore di Tripoli, Abdelhakim Belhadj, è un veterano dell’Afghanistan: vi ha combattutto sia contro i Sovietici sia contro gli Angloamericani. Molti osservatori già da mesi indicavano nel Gruppo Islamico Combattente Libico (già affiliato a Al Qaida) la forza militarmente più significativa del CNT. Per quanto riguarda la Siria, tra gli oppositori più importanti va citata la Fratellanza Musulmana e, ancor più, i gruppi cosiddetti “salafiti”, o anche wahhabiti, che spesso si sono formati militarmente combattendo in Iraq contro gli USA.
Pietro Longo: Non bisogna cadere nell’eccesso di semplificazione: ciò che è avvenuto nel mondo arabo lungo quasi tutto il 2011 non è un duplice movimento di discesa delle ideologie nazionaliste e di ascesa di quelle informate all’Islam. Personalmente ho sempre contestato una separazione così netta tra queste due correnti e questo perché, a parte rari casi, nel mondo islamico il nazionalismo non si è mai qualificato totalmente come laico, al pari dell’omologo movimento europeo. Ciò detto, è pacifico che lungo questo primo decennio del XXI secolo abbiamo conosciuto un progressivo “risveglio islamico”, anche sottoforma di “rivincita sciita” a seguito di ben precisi accadimenti, come l’invasione US-led di Afghanistan e Iraq entro il primo quinquennio o lo sconfinamento in Libano dell’Israel Defence Force nel 2006. Tuttavia nel caso delle “rivolte arabe” bisogna certamente usare cautela e distinguere ogni scenario da qualunque altro. L’esempio egiziano è emblematico in ciò: una rivolta di piazza, scaturita dal malcontento di molteplici sfaccettature sociali, è stata senza dubbio cavalcata dalle forze islamiche, organizzatesi secondo nuovi partiti e associazioni, come il Partito Libertà e Giustizia affiliato alla Fratellanza Musulmana. In Tunisia, nel contesto dell’ipertrofia dei partiti politici, è stato reso legale il maggiore partito di opposizione, ossia al-Nahda dello Shaykh Rashid al-Ghannushi. Questo però può non implicare necessariamente che le frange politiche islamiche siano state le protagoniste della rivolta e potrebbe non essere nemmeno una garanzia per il futuro. Dopo una frattura più o meno violenta, entro qualsiasi ordinamento il potere politico dà luogo a fenomeni extra ordinem, non previsti da nessuna fonte normativa ma che si impongono di fatto. Non sembra casuale che, tornando al caso egiziano, il Partito Libertà e Giustizia si sia formato nel febbraio scorso ovvero prima che la Costituzione interinale adottata in aprile giungesse a vietare all’articolo 5 la formazione di partiti su base eminentemente religiosa.
Quanto ai casi della Libia e della Siria, siamo dinnanzi ad altri due scenari particolari. Nel primo il Consiglio Nazionale di Transizione appare formato da personalità eterogenee organizzatesi nell’area di Bengasi. Mustafa ‘Abd al-Jalil, ex Ministro della Giustizia dal 2007 e segretario del Consiglio Nazionale è un giudice proveniente dalla Facoltà di Shari’a degli atenei di Bengasi e di al-Bayda’. Ma questo fatto non è rivelatore di alcunché di specifico data la poca chiarezza sul programma politico dei “ribelli”, per il momento abbarbicati unicamente su posizioni anti-Gheddafi. La Costituzione interinale diffusa nell’agosto scorso poco ci suggerisce, salvo fissare la Shari’a come “la” fonte principale dell’ordinamento, come del resto nel caso egiziano, e informare l’educazione delle nuove generazioni allo spirito islamico e all’amore per la patria. Sarà necessario osservare come queste dichiarazioni di principio si tradurranno in politiche operative.
Infine in Siria, è vero che la Fratellanza Musulmana lavora quotidianamente per screditare il regime di al-Asad ma i comunicati e le dichiarazioni non sono improntante alla dialettica nazionalismo/secolarismo vs islamismo. Piuttosto si focalizzano unicamente sulla condanna alle stragi compiute dall’esercito e dunque alla perdita di legittimità dell’establishment al potere.
Sin dall’inizio dei disordini, abbiamo assistito a continue e gravi storture dell’informazione sui fatti di Libia e Siria, e per contro a prolungati silenzi sulle proteste in altri paesi quali Arabia Saudita, Bahrayn e Yemen.
Aspetto particolare è che questo atteggiamento non ha caratterizzato i soli media occidentali, ma è spesso partito proprio dai grandi mezzi di informazione panaraba quali Al Jazeera e al Al Arabiya. A quali logiche è ragionevole pensare che stiano rispondendo tali mezzi di informazione nelle crisi in corso?
DS: Come qualsiasi altro organo di stampa, alle logiche dei loro editori: ossia, rispettivamente, di Qatar e Arabia Saudita, ossia della famiglia Al Khalifa e della famiglia Saud. Entrambi i paesi – o meglio sarebbe dire le famiglie che non solo li dominano, ma li posseggono formalmente – nutrono ambizioni di potenza nella regione. L’Arabia Saudita ha un’ideologia ufficiale che è il wahhabismo, e s’impegna a diffonderlo nel mondo musulmano grazie ai petrodollari che affluiscono numerosi nelle casse del Regno. Il Qatar ha un’immagine più moderna ed una dimensione decisamente più piccola, ma è anch’esso molto ricco ed ha investito sui media come veicolo per procacciarsi influenza, e quindi potere, nella regione ed oltre (non a caso Al Jazira trasmette pure in inglese).
PL: I cosiddetti “media panarabi” hanno avuto un ruolo significativo in molteplici occasioni: durante gli eventi subito successivi al 9/11, durante la “caccia a Bin Laden” ed in generale nel corso della Global War on Terrorism, in diversi momenti della questione israelo-palestinese, nel caso dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq e così via. A volte al-Jazeera ha ricevuto le aspre critiche dell’opinione pubblica mondiale per la messa in onda di immagini particolarmente cruente o per la diffusione di notizie che potevano fungere da propellente ed infiammare gli animi. Nel caso della “primavera araba” questi network non sono stati meno presenti nei diversi scenari ed è sembrato che abbiano seguito delle agende ben precise. In verità questa critica può essere allargata a tutti i maggiori media globali, probabilmente protesi a confondere le idee sul reale svolgimento degli eventi. Basti pensare all’imprecisione, talvolta iperbolica, con la quale sono state riferite le stime delle morti nei diversi fronti. Nel caso libico però la questione è ancora più delicata, perché il coverage di al-Jazeera che ci ha condotti fin dentro al compound di Gheddafi, poco o nulla ha detto in merito alle casualità di civili procurate accidentalmente dai bombardamenti aerei. Lo slogan “l’opinione e l’opinione contraria” che fino a qualche anno fa era continuamente sbandierato dall’emittente qatarina, questa volta sembrerebbe aver preso delle derive nettamente unidirezionali.
Negli ultimi anni l’Italia sembrava fare passi avanti, pur fra evidenti limiti e contraddizioni, verso una politica di maggiore presenza nel Mediterraneo. Le crisi della regione hanno mostrato in realtà tutta la debolezza politica del nostro paese, che non si è in alcun modo distinto nell’azione politica e diplomatica e che si è lasciato trascinare in una guerra – quella libica – sicuramente non voluta a livello governativo. In che modo l’Italia rischia di pagare, se non lo sta già facendo, la sua impreparazione di fronte ai rivolgimenti dell’area? Nonostante ciò, dispone il nostro paese ancora di spazi di manovra politici anche minimi, atti a limitare i danni derivanti da simili destabilizzazioni?
DS: L’Italia sta pagando la crisi libica in vari modi. Innanzi tutto, ha perduto credibilità: col suo atteggiamento ondivago e col voltafaccia ai danni della Jamahiriya, con annessa sfacciata violazione del Trattato di Amicizia e di proditorio attacco ai danni della Libia. Tutto ciò è andato ad alimentare la leggenda nera – ahimé molto veridica – dell’Italia fellona, inaffidabile e incline al tradimento.
In secondo luogo, ha speso milioni di euro per condurre i bombardamenti contro la Libia e per gestire l’emergenza profughi, o per aiuti umanitari di varia natura.
In terzo luogo, anche nel caso piuttosto remoto che l’ENI mantenga davvero il ruolo di preponderanza che aveva in Libia, come garantisce Frattini, rimane il fatto che il flusso di petrolio e gas dal paese nordafricano non potrà recuperare i livelli precedenti prima di molti anni.
Inoltre, i contratti petroliferi dell’ENI rappresentano solo uno degli elementi di cooperazione economica precedentemente in atto tra Italia e Libia. In particolare, numerose imprese italiane – spesso PMI – ricevevano le commesse della Jamahiriya: inoltre, una parte consistente dei suoi petrodollari (quasi 10 miliardi) era investita nel nostro paese. Sicuramente gl’investimenti esteri libici si sposteranno ancor più decisamente verso la Francia e il mondo anglosassone, e le commesse della ricostruzione post-bellica saranno affidate alle imprese di questi altri paesi, non a quelle italiane.
Infine, in un’ottica strategica, un paese che si trovava nella nostra “sfera d’influenza” sta spostandosi verso quella francese, indebolendo il peso dell’Italia nel Mediterraneo.
PL: Gli storici delle relazioni internazionali rintracciano nella storia moderna del nostro paese tre “cerchi” di politica estera, o meglio due campi d’azione tradizionali ai quali dopo la Seconda Guerra Mondiale se n’è aggiunto un terzo per effetto dell’integrazione europea. Ai consueti spazi “balcanico” e “mediterraneo” si è aggiunto quello propriamente europeo. Come in un gioco di scatole cinesi però a monte di tutto ciò si trova l’altrettanto tradizionale “fedeltà atlantica” legata alla partecipazione alla NATO. I tre cerchi più l’opzione atlantica lungi dal formare un tutt’uno osmotico sembrano più che altro costituire una piramide.
Fuor di metafora, l’Italia ha scelto di imbarcarsi nell’avventura libica, venendo meno ad impegni bilaterali precedenti e scommettendo sul futuro. Nel 2008 l’attuale Premier italiano volava a Bengasi per firmare il Trattto di Amicizia, Partenariato e Cooperazione. A ben vedere però i semi di quel patto risalgono a ben 10 anni prima, quando Lamberto Dini, allora Ministro degli affari esteri, siglò un primo step. L’ENI poi ha sempre avuto un ruolo di primo piano nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici e per converso Tripoli ha posseduto investimenti nella FIAT. Sul versante politico, i due paesi si erano concentrati sulla cooperazione a prevenzione dell’immigrazione illegale (2000) e anti-terrorismo (2002), spianando la strada a quel quadro di “special and privileged relationship” secondo la dicitura ufficiale rimarcata dal Trattato di Amicizia del 2008. Tuttavia, come hanno mostrato i giuristi internazionalisti, quel testo non ha mai avuto la pretesa di fissare norme di “non aggressione” nonostante le clausole che impedivano, reciprocamente, la conduzione di atti ostili a violazione della sovranità territoriale. Ecco dunque perché la diplomazia romana ha potuto inscrivere questo trattato nel cerchio atlantico, senza creare incompatibilità. Finanche gli impegni economici stipulati dal medesimo trattato sono stati talmente onerosi da poter venire giustificati solo alla luce di un rapporto di amicizia sedimentato: l’Italia si impegnava a costruire infrastrutture di base per un valore di 5 miliardi di dollari, ottenendo in cambio sgravi fiscali per le imprese italiane operanti in Libia.
Stando a quanto annunciato nei mesi scorsi, nonostante il regime change il governo italiano considera il Trattato ancora in vigore e quindi si ritiene che, normalizzato il paese, gli impegni contenuti in esso verranno onorati. Bisognerà, anche in questo caso, attendere la fine delle ostilità per comprendere appieno le implicazioni di una mossa, quella italiana, che tutto è apparsa tranne che decisa in autonomia.
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