Negli ultimi giorni si è parlato non poco della diatriba tra Meta (l’azienda di Mark Zuckerberg alla quale fanno riferimento le piattaforme sociali Facebook e Instagram) e l’Unione Europea. L’oggetto del contendere sarebbe l’incompatibilità con le normative europee sulla tutela dei dati personali, che impedirebbero a Meta di trasferire gli stessi dati degli utenti europei presso i gestori e gli archivi nordamericani. Tali normative, infatti, rappresenterebbero un grosso limite per un colosso aziendale la cui attività e il cui profitto dipendono proprio dalla capacità di inviare agli utenti messaggi promozionali, annunci, informazioni e inviti mirati. Nello specifico, nel rapporto stilato da Meta si legge: “Se non siamo in grado di trasferire i dati tra i Paesi e le regioni in cui operiamo, o se ci viene impedito di condividere i dati tra i nostri prodotti e servizi, ciò potrebbe influire sulla nostra capacità di fornire i nostri servizi, il modo in cui forniamo tali servizi o la nostra capacità di indirizzare gli annunci[1].

Inoltre, si legge nel rapporto che Meta intende ottenere nuovi accordi con l’Unione Europea entro il 2022. In caso contrario, si vedrà costretta a sospendere l’utilizzo dei suoi prodotti in Europa.

Quello che potrebbe sembrare un semplice confronto tra un’azienda privata e delle istituzioni politiche (confronto che probabilmente si risolverà con l’ennesima capitolazione europea di fronte ai dettami d’Oltreoceano), in realtà, cela qualcosa di assai più rilevante sul piano geopolitico. Infatti sarebbe opportuno ricordare che due sono state le principali tecnologie attraverso le quali gli Stati Uniti sono riusciti a fare del mondo una “colonia economica americana”: la tecnologia finanziaria e quella informatica. La prima, con l’aiuto della seconda, come ha affermato l’ex Generale dell’aeronautica cinese Qiao Liang, ha promosso la globalizzazione del dollaro statunitense costruendo un impero finanziario dalla vastità senza precedenti[2]. Se la prima ha consentito l’egemonia del dollaro, la seconda è stata fondamentale in termini di gestione delle informazioni, di propaganda e di “costruzione del nemico”[3]: ad esempio, il terrorismo islamico, gli “Stati canaglia”, l’autoritarismo russo o cinese, o più recentemente il virus.

Oggi qualcuno continua a storcere il naso quando si parla di impero globale nordamericano. Più che altro lo si fa con il malcelato desiderio di negare l’evidenza o con il preciso intento politico di sviare/indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su tematiche assolutamente consustanziali al sistema e per nulla nocive ad esso. La dicotomia sovranismo/globalismo, ad esempio, si muove all’interno del sistema, non al di fuori di esso. Lo stesso discorso vale per la polemica novax/provax, largamente nutrita dallo stesso sistema per nascondere quelli che sono gli esiti più nefasti della crisi pandemica: il profitto smisurato delle multinazionali occidentali del farmaco, il rafforzamento delle strutture del capitalismo della sorveglianza (sfruttamento dei dati e delle informazioni private dei cittadini per ragioni commerciali e di sicurezza), l’assalto ai beni comuni globali nascosto dietro i provvedimenti per il contrasto alla stessa crisi. Di fatto, i governi collaborazionisti dell’Occidente hanno aperto la corsa dei fondi di investimento a quei beni che risultano essenziali per la vita: l’acqua, il mare, la terra (i parchi naturali ed archeologici), lo spazio circostante alla terra ed il cosiddetto spazio digitale.

Si è scelto non casualmente di fare riferimento in precedenza al “profitto smisurato” che le multinazionali occidentali del farmaco hanno ricavato dalla crisi pandemica (nonostante la stucchevole retorica del “vaccino bene globale” spacciata da talune istituzioni politiche). Ciò, oltre ad evidenziare che la geopolitica vaccinale è stata utilizzata come strumento di cesura tra Occidente e Oriente[4], impone una breve riflessione alla luce del fatto che il Premio Genesis (il “Nobel ebraico”) è stato assegnato all’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla, ed alla luce del fatto che alcuni Stati europei (Italia in primis) hanno scelto (o più probabilmente è stato loro imposto) di seguire il modello israeliano di contrasto all’epidemia di Covid-19. Questo premio (il corrispettivo di un milione di dollari che, solitamente, viene dato in beneficenza ad altre fondazioni ebraiche) viene assegnato ogni anno a personalità che si sono distinte come “eccezionale espressione di valori ebraici e per i servizi resi allo Stato d’Israele”. La motivazione dietro la scelta di Bourla (ebreo sefardita originario di Salonicco) sembra essere il fatto che questi, sprezzante nei confronti della burocrazia, si sia assunto i rischi (non si capisce esattamente quali, vista la protezione garantita dai governi occidentali contro eventuali richieste di risarcimento danni) di produrre un vaccino il più rapidamente possibile. Senza troppi giri di parole, il merito reale sarebbe stato quello di aver fatto guadagnare a Pfizer oltre 30 miliardi di dollari in un anno. Questo, però, impone un altro tipo di ragionamento che si ricollega perfettamente all’idea espressa da Qiao Liang, secondo la quale il modello imperialista nordamericano si fonda sulla tecnologia della finanza e dell’informazione. E tale ragionamento può partire da alcune considerazioni di Karl Marx tratte dallo scritto Sulla questione ebraica redatto in risposta ad alcune tesi del filosofo hegeliano Bruno Bauer. Scrive Marx: “Qual è il dio mondano dell’ebreo? Il denaro. L’ebreo si è emancipato in modo giudaico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui e senza di lui è divenuto una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell’ebreo, lo spirito pratico dei popoli cristiani[5].

La riflessione del pensatore di Treviri si presta inconsapevolmente alla geopolitica. La crisi geopolitica (conflitto militare o crisi pandemica che sia), infatti, è spesso e volentieri utilizzata per creare una situazione favorevole alla moneta: in questo caso, al dollaro americano. Dunque, un’altra caratteristica del potere globale nordamericano è il fatto che la geopolitica sia stata subordinata (è divenuta strumentale) alla politica monetaria. Gli USA per trarre profitto dall’egemonia finanziaria devono controllare i flussi di capitale e per controllare i flussi di capitale devono controllare i più importanti snodi commerciali del pianeta: in termini geopolitici, “i mediterranei dell’Eurasia” (il fu Mare Nostrum ed il Mare Cinese Meridionale).

Ora, per essere più precisi, gli Stati Uniti sono stati capaci di sviluppare il loro potere mondiale sia attraverso forme coloniali classiche, sia attraverso il sistema del dominio finanziario, informatico e informativo. Gli Stati Uniti hanno i loro territori d’oltremare: Guam, le US Virgin Islands, Puerto Rico e così via. Nelle loro basi militari sparse per il mondo vige la legge statunitense. E gli stessi crimini commessi dai militari americani sembrano non rientrare nella giurisdizione del “Paese ospitante/colonia” (strage del Cermis docet). Inoltre, dalle loro basi proiettano l’influenza politico-economica sullo Stato vassallo. E la forza militare apre la strada alle multinazionali votate allo sfruttamento delle risorse locali.

L’interventismo militare oltre i confini avviene in nome del “destino manifesto”; di un nuovo patto con Dio che ha consentito all’America, incarnazione di una forma tipicamente moderna di messianismo, di modificare il mondo a propria immagine e somiglianza. Tuttavia la politica estera di questo Stato imperialista, impostato a partire dagli anni ’70 come tecno-struttura finanziaria e informatica, è incentrata sulla salvaguardia esclusiva del proprio interesse. Gli interessi degli alleati/vassalli solo se coincidono (tra l’altro molto raramente) con quelli del centro imperialista vengono presi in considerazione. Altrimenti sono del tutto ininfluenti. Anzi, il territorio degli stessi vassalli viene utilizzato come potenziale teatro di guerra contro eventuali rivali (l’arsenale nucleare statunitense in Europa ha proprio il ruolo di evitare che il territorio nordamericano diventi obiettivo di rappresaglia nucleare). 

A proposito di interessi non coincidenti tra centro imperialista e vassalli, si può menzionare il ritiro unilaterale nordamericano dall’accordo sul nucleare con l’Iran. La scelta della presidenza Trump, infatti, è arrivata nel momento in cui Washington si è resa conto che la progressiva rimozione del regime sanzionatorio contro l’Iran stava favorendo una “pericolosa connessione eurasiatica” reciprocamente vantaggiosa. L’Unione Europea, di fatto, grazie alla scelta statunitense ha perduto non poche commesse commerciali con Tehran (la sola Italia ha perduto commesse commerciali per circa 30 miliardi di euro)[6].

Il “destino manifesto”, inoltre, è l’unico collante ideologico all’interno di una costruzione statale fondata sul genocidio, su pregiudizi di tipo razziale e su immani differenze sociali. Il “destino manifesto”, infatti, è ciò che permette di scaricare la violenza recondita al di fuori dei confini americani. La violenza stessa diventa una forma di “aggregazione nazionalistica”[7] afferma il Gen. Fabio Mini nella prefazione al già citato testo di Qiao Liang L’arco dell’impero.

La guerra è una necessità, ed anche quando l’operazione militare risulta fallimentare dietro di essa si nasconde un successo finanziario e/o strategico (le guerre di Corea e Vietnam studiate per impedire ogni cooperazione tra lo spazio eurasiatico ed i “satelliti” ad esso circostanti, come il Giappone, o le aggressioni ad Iraq e Afghanistan). Questo spiega i 452 interventi statunitensi all’estero dal 1780 ad oggi, di cui 184 negli ultimi vent’anni: ovvero, nel momento in cui gli Stati Uniti hanno assunto a pieno titolo il ruolo di poliziotto globale ed in cui le avventure militari sono state giustificate sulla base dell’ingerenza di carattere umanitario (dal Kosovo alla Libia). In questo caso “il colonialismo si mimetizza con l’egemonia[8]. Colonialismo, infatti, è anche la capacità di far combattere i vassalli per proprio conto (si pensi al ruolo che gli Stati Uniti stanno riservando ad Australia e Gran Bretagna nel teatro dell’Indo-Pacifico) fingendo di considerarli alleati (l’Italia in Kosovo, Iraq e Afghanistan).

Il ruolo della NATO, in questo senso, è emblematico. L’Alleanza Atlantica, in realtà, è un’alleanza non paritaria. È uno strumento coercitivo nei confronti dell’Europa per impedire alla stessa di essere indipendente, realmente unita, e per impedirle di volgersi verso Oriente. Non a caso, secondo Brzezinski, l’espansione della NATO verso Est avrebbe allargato l’area di influenza statunitense in Europa e creato un’unione europea tanto vasta quanto poco unita e, di conseguenza, facilmente controllabile dalla potenza egemone.

La guerra nel Kosovo rientrava all’interno di questa prospettiva. Tra gli eventi più importanti del 1999 vi fu il lancio ufficiale dell’euro adottato inizialmente in 11 Paesi. Portare la guerra nel cuore dell’Europa sulla base di accuse alla Serbia rivelatesi prive di fondamento aveva il preciso obiettivo di indebolire la moneta unica europea rispetto al dollaro nello stesso momento in cui questa nasceva. La guerra americana in Europa, dunque, aveva lo scopo di inquinare il clima degli investimenti nel “Vecchio Continente”. E lo stesso discorso si potrebbe facilmente applicare alla crisi del debito greco, studiata a tavolino per mostrare la debolezza strutturale dell’euro e per mettere in evidenza il problema del surplus commerciale tedesco (non a caso il protagonista della “macelleria sociale” greca è stato il più importante referente dell’atlantismo nelle istituzioni europee, l’attuale Primo Ministro italiano Mario Draghi).

Il tema del surplus commerciale tedesco merita un approfondimento perché la moneta unica era stata studiata anche come sistema per impedire un eccessivo rafforzamento del marco. Il problema (nordamericano) è dato dal fatto che gli Stati Uniti sono i più grandi debitori al mondo. Il debito pubblico statunitense ha raggiunto nel 2021 il 132,8% sul PIL; il debito netto verso l’estero è salito al 109% del PIL. Tra i Paesi che hanno una posizione finanziaria internazionale netta in attivo ci sono Giappone, Germania, Cina, Hong Kong (ormai parte integrante della Cina) e Taiwan (ritenuta dalla stessa Cina alla stregua di “provincia separatista”). Il “problema fondamentale” è che questi Paesi sono in attivo soprattutto in termini di bilancia commerciale nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2019, il saldo per la Cina è stato di +345 miliardi, per il Giappone +69 miliardi, +67 per la Germania, +26 e +23 rispettivamente per Hong Kong e Taiwan.

Ora, senza considerare il fatto che un’eventuale riunificazione di Taiwan alla Cina non solo aumenterebbe in modo esponenziale le capacità industriali del Paese asiatico, ma rafforzerebbe ulteriormente anche la posizione creditrice nei confronti degli USA (ragione per cui questa eventualità deve essere assolutamente scongiurata da Washington) e senza considerare che il Giappone è già stato vittima di guerre commerciali negli anni ’80 del secolo scorso, particolare attenzione merita la posizione tedesca.

Il colpo di Stato atlantista in Ucraina nel 2014 era specificamente rivolto ad azzerare ogni possibile cooperazione tra Germania (ed in senso più allargato Unione Europea, di cui Berlino, lo si accetti o meno, è motore trainante) e Russia. L’attuale recrudescenza delle provocazioni NATO in Ucraina ha lo stesso identico obiettivo, al quale si aggiunge la volontà di forzare l’Europa (mascherandola per “diversificazione”) a comprare il GNL (gas naturale liquefatto) nordamericano. Europa e Russia, afferma Qiao Liang, sono giganti a metà. L’Europa ha il potere economico. La Russia, essa stessa parte dell’Europa, ha il potere militare. Unite sarebbero un gigante completo. Qualcosa che gli Stati Uniti non potrebbero mai tollerare. Per questo motivo il reale nemico del Vecchio Continente non è ad Oriente ma ad Occidente.


NOTE

[1]Mark Zuckerberg and team consider shutting down Facebook and Instagram in Europe if Meta cannot process Europeans’ data in US server, www.cityam.com.

[2]Qiao Liang, L’arco dell’impero con la Cina e gli Stati Uniti alle sue estremità, LEG Edizioni, Gorizia 2021, p. 59.

[3]Si prenda ad esempio l’emblematico caso italiano e del Gruppo GEDI in particolare. Nel 2020, in piena crisi pandemica, è divenuto Direttore del quotidiano Repubblica (giornale di punta del gruppo editoriale legato agli ambienti del Gruppo Bilderberg, avanguardia politico-finanziaria dell’atlantismo creata da CIA ed MI6) M. Molinari (personaggio in “ottimi rapporti” con il gruppo statunitense Stratfor Enterprise). Stratfor si definisce come “geopolitical intelligence platform”. Il gruppo è stato fondato dall’ebreo ungherese (figlio di sopravvissuti all’olocausto) George Friedman, ora a capo di Geopolitical Futures, e da alcune personalità legate direttamente al Pentagono come l’ex ufficiale dell’US Special Operations Command Bret Boyd. Stratfor viene considerata alla stregua di “CIA ombra” ed è profondamente legata con l’industria delle armi Lockheed Martin (la stessa che, attraverso il “serbatoio di pensiero” Project 2049 del protetto di Steve Bannon Randall Schriver, spinge per la vendita costante di armi a Taiwan), con Goldman Sachs (la stessa banca nella quale lavorava il primo ministro italiano Mario Draghi), Bank of America e Coca Cola. Agli Agnelli-Elkann (proprietari del Gruppo GEDI) fa riferimento anche la rivista britannica The Economist che, non sorprendentemente, ha dichiarato Mario Draghi “uomo dell’anno”.

[4]Si veda D. Perra, Geopolitica e diplomazia dei vaccini, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” vol. LXV, 1/2022.

[5]K. Marx, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007, p. 99.

[6]Si veda L’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano: conseguenze e implicazione per l’Italia, Osservatorio di Politica Internazionale, n. 139 settembre 2018.

[7]F. Mini, Introduzione a L’arco dell’impero, ivi cit., p. 22.

[8]Ibidem, p. 23.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).