Fonte: http://www.atimes.com/atimes/South_Asia/MG13Df03.html
Secondo Asim Hussain, ministro federale pakistano per il petrolio e le risorse naturali, prima della fine del 2011, il Pakistan inizierà i lavori per la realizzazione del gasdotto IP (Iran-Pakistan) nell’area di sua competenza. Già pronti, 1.092 chilometri di condotti installati sul versante iraniano.
IP, anche conosciuto come “il gasdotto della pace”, originalmente era IPI (Iran-Pakistan-India). Nonostante l’enorme bisogno di gas per la sua espansione economica, fortemente voluta dall’amministrazione Bush ed ora anche da quella Obama, l’India non è però ancora decisa ad impegnarsi nel progetto, neanche dopo l’accordo semi-miracoloso siglato per la sua costruzione nel 2008.
Dal 2014, più di 740 milioni cubici di gas all’anno saranno fatti scorrere verso il Pakistan dall’enorme campo iraniano South Pars, situato nel Golfo Persico. Ciò rappresenta una importante evoluzione in Eurasia nelle “guerre” del Pipelineistan (per comprendere il concetto di Pipelineistan consultare l’articolo, sempre di Pepe Escobar, “Guerra Liquida: Benvenuti in Pipelineistan”; NdT).
L’IP è un nodo cruciale nel tanto decantato Asian Energy Security Grid (Rete di Sicurezza Energetica Asiatica) – la progressiva integrazione energetica fra sud-ovest, sud, est ed Asia centrale, ovvero l’ultimo mantra per attori euro-asiatici così diversi fra di loro, come Iran, Cina, India e i partner centro-asiatici della Stans Energy Corp.
Il Pakistan è l’utente della Rete con maggiori problematiche e maggior bisogno di energia. Diventare un Paese in grado di permettere il transito di energia potrebbe quindi essere l’unica chance per il Paese di passare da uno Stato vicino al fallimento ad un “corridoio energetico” per l’Asia e, perché no, per il mercato globale.
Dal momento che i condotti funzionano da cordone ombelicale, il cuore della questione è che l’IP, e magari nel prossimo futuro anche l’IPI, possa fare ben più di qualsiasi altra forma di “aiuto” statunitense (o interferenza diretta) per poter stabilizzare la metà pakistana del teatro “obamiano” di operazioni AfPak, e possibilmente liberarla dalla sua ossessione per l’India.
Un altro “asse del male”?
Questo sviluppo del Pipelineistan può ben spiegare la ragione che ha portato la Casa Bianca ad annunciare, la scorsa domenica (l’articolo è datato 13 luglio; NdT), il rinvio di 800 milioni di dollari previsti per aiuti militari verso Islamabad – più di un terzo delle abbondanti donazioni che il Pakistan riceve annualmente dagli Stati Uniti.
La fiorente fabbrica di invettive contro il Pakistan generata da Washington potrebbe essere intesa come l’effetto punitivo connesso alla saga infinita che vedeva Osama bin Laden riparato nei pressi dell’area Rawalpindi/Islamabad. A volte però, il mezzo utilizzato ostenta disperazione, e giustificarlo non convincerà in alcun modo l’esercito pakistano a seguire l’agenda di Washington come fosse una verità dogmatica.
Lo scorso lunedì, il Dipartimento di Stato USA ha sottolineato ancora una volta che Washington si aspetta molto di più da parte di Islamabad per la lotta al terrorismo e la lotta alle insurrezioni – di conseguenza non rinnoverà il suo “aiuto”.
Il solito doppio gioco diplomatico delle “relazioni costruttive, collaborative, e di reciproco beneficio” rimane in bella mostra – tuttavia non è in grado di mascherare la crescente sfiducia reciproca di entrambe le nazioni. I militari pakistani hanno infatti ufficialmente confermato che non sono stati avvisati della “sospensione”.
Non meno di 300 milioni di dollari degli 800 bloccati sono destinati ad “istruttori americani” – ovvero, la brigata del Pentagono per la lotta alle insurrezioni. Tutto questo quando Islamabad aveva già chiesto a Washington di non inviare più queste persone nel loro territorio; il fatto è che i metodi utilizzati da Washington sono inutili per combattere i talebani del Pakistan e i jihadisti collegati ad al-Qaeda situati nel aree tribali. Per non parlare che il metodo preferito dagli Stati Uniti resta comunque il drone assassino.
Il muro di sfiducia è diretto a raggiungere le proporzioni dell’Himalaya/Karakorum/Pamir. Washington, però, continua a vedere il Pakistan solo in termini legati alla “guerra al terrore” e di lotta al terrorismo. Da quando l’amministrazione Obama ha ufficializzato la combinazione AfPak, è stato chiaro che la principale guerra di Washington si svolge in Pakistan – e non in Afghanistan che ormai da rifugio ad una manciata di jihadisti di al-Qaeda.
La maggior parte degli “obiettivi con più valore appartenenti ad al-Qaeda” sono situati proprio nelle aree tribali del Pakistan – e sono, in un bizzarro parallelismo con quelli americani, essenzialmente degli istruttori. Riguardo l’Afghanistan, si tratta per lo più di una guerra neo coloniale portata avanti dall’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) contro una maggioranza Pashtun guidata da un movimento di “liberazione nazionale” – così come lo stesso leader talebano Mullah Omar lo ha definito.
Saleem Shazad, collaboratore di Asia Times Online – assassinato lo scorso maggio – ha argomentato nel suoi libro, “Inside al-Qaeda and The Taliban”, che il principale colpo di al-Qaeda, negli ultimi anni, è stato quello di trasferirsi completamente all’interno delle aree tribali in Pakistan, rafforzare Tehrik-e-Taliban Pakistan (i talebani pakistani) e in poche parole coordinare una forte guerriglia Pashtun in grado di fronteggiare l’esercito pakistano e quello statunitense – come tattica diversiva. L’agenda di al-Qaeda – esportare la propria ideologia, diretta al califfato, verso altre parti dell’Asia centrale e del sud – non ha nulla a che vedere con i talebani afghani guidati da Mullah Omar, che combattono per ottenere nuovamente il potere in Afghanistan.
Washington, da parte sua, desidera un Afghanistan “stabile”, guidato da un burattino di comodo, modello Hamid Karzai – in modo da ottenere il Santo Graal (desiderato dalla metà degli anni ’90); ovvero la costruzione del rivale dell’IP, il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che in questo caso oltrepassa il “malefico” Iran.
I desideri di Washington legati al Pakistan sono invece indirizzati a frantumare la guerriglia Pashtun all’interno del loro territorio; in altro modo le aree tribali continueranno ad essere letteralmente bombardate a morte dai droni – con nessun riguardo per quel che spetta l’integrità del territorio.
Non bisogna meravigliarsi, dunque, se il muro della sfiducia stia crescendo, anche perché Islamabad non è intenzionata a cambiare da qui a molto tempo la sua agenda.
La politica afghana del Pakistan include un utilizzo dell’Afghanistan stesso come uno Stato vassallo – costituito da un esercito molto debole (quello che gli statunitensi chiamano Afghan National Force) e soprattutto spesso instabile, e di conseguenza incapace di attaccare il vero nocciolo del problema: la questione Pashtun.
Per Islamabad, il nazionalismo Pashtun è una minaccia esistenziale.
L’esercito pakistano potrà anche combattere le guerriglie Pashtun in stile Tehrik-e-Taliban ma con estrema cautela; diversamente i combattenti Pashtun potrebbero unirsi in massa ad entrambi i lati dei confini e dare inizio ad una campagna in grado di destabilizzare Islamabad per sempre.
Dall’altro lato, Islamabad desidera che i talebani tornino al potere in Afghanistan – proprio come i bei vecchi tempi del 1996-2001. Il ché è praticamente l’opposto di quello che invece vuole Washington: un’occupazione a lunga scadenza, preferibilmente tramite l’uso della NATO, in modo che l’alleanza possa proteggere il gasdotto TAPI nel momento in cui si dia inizio ad una sua eventuale costruzione. Oltretutto, per Washington, “perdere” l’Afghanistan e la sua rete chiave di basi militari così vicine alla Russia e alla Cina è semplicemente impensabile – secondo la dottrina del dominio del intero spettro portata avanti dal Pentagono.
Quella che si sta sviluppando attualmente è una complessa guerra di posizione. La politica afghana del Pakistan – che include anche il contenimento dell’influenza indiana in Afghanistan – non cambierà. I talebani afghani continueranno ad essere incoraggiati come potenziali alleati a lungo termine – nel nome dell’immutabile dottrina della “profondità strategica” – mentre l’India continuerà ad essere considerata come la priorità strategica principale.
L’IP fomenterà ancor di più Islamabad – con il Pakistan che finalmente sarà un corridoio chiave per il gas iraniano, oltre ovviamente ad usare il gas per i propri bisogni. Se l’India decide una volta per tutte di rinunciare all’IPI, la Cina è già pronta a saltare a bordo – e costruire un allungamento dell’IP, parallelo alla strada del Karakorum, orientato verso lo Xinjiang.
In entrambi i casi, il Pakistan avrà la meglio – specialmente con il crescente investimento cinese o con il possibile “aiuto” militare della Cina stessa. Ecco perché la “sospensione” dell’esercito pakistano voluta da Washington non farà tendere molti nervi ad Islamabad.
* Pepe Escobar
(Traduzione di Stefano Pistore)
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