Sin dai primi passi nella Casa Bianca il presidente Obama ha posto tra le priorità di politica estera della sua amministrazione la questione afghana ed il necessario cambio di strategia militare nell’approccio alla regione al fine di superare quello che, nel giro di circa dieci anni, s’è trasformato in un pericoloso pantano. A Washington le aspettative sul supporto europeo alle azioni militari nella regione centro asiatica sono sempre state elevate, pertanto, non deve sorprendere che le restrizioni solitamente poste dai governi del Vecchio Continente sulle proprie truppe, per evitare il loro ingaggio in vere e proprie operazioni di combattimento, siano state note dolenti nel concerto transatlantico. Intanto, a circa tre settimane della Conferenza di Londra sul futuro dell’Afghanistan, fa notizia questi giorni la caduta del governo olandese diviso sul voto circa la prosecuzione della partecipazione militare del paese alle operazioni contro i Talebani nella provincia di Uruzgan.

Una certa asimmetria ha caratterizzato l’apporto dei paesi NATO in Afghanistan: fin qui un nocciolo duro di Stati ha contribuito col grosso delle truppe combattenti (Stati Uniti, Regno Unito, Olanda e Canada), mentre il resto dei paesi si sono dedicati più che altro all’assistenza allo sviluppo ed ai peacekeepers.

Il maggior coinvolgimento umano e materiale degli Stati Uniti nel conflitto contro l’insorgenza dei Talebani ha causato una certa “americanizzazione” delle operazioni, ossia un maggior peso di Washington nelle decisioni strategiche. A tal proposito non bisogna dimenticare che, oltre ai soldati coinvolti nella missione ISAF a guida NATO, gli Stati Uniti hanno schierato altre 13,000 unità attive, parte dell’operazione Enduring Freedom, per lo più in prossimità del confine con il Pakistan.

Alla vigilia della Conferenza di Londra del 28 Gennaio scorso, alcuni osservatori hanno evidenziato lo scarso coordinamento degli aiuti portati in Afghanistan e la mancata definizione di parametri condivisi per la valutazione dei risultati raggiunti dalla missione in termini di governo, sicurezza e prestazione economica del paese.

In una certa misura assistiamo al cambiamento di rotta della politica estera nordamericana, che si sposta dallo stile dell’ex presidente George W. Bush, incline alla ricerca di una netta vittoria militare in Afghanistan, all’approccio più moderato dell’Amministrazione Obama che, pur riconoscendo l’importanza dell’elemento militare nella riuscita dell’impresa, fa trasparire delle aperture ad una soluzione di compromesso.

Probabilmente una simile apertura è da attribuire non tanto alla diversa origine politica dell’attuale Presidente, ma piuttosto alla necessità di fare i conti con un’opinione pubblica (e lo stesso si potrebbe dire di quella britannica) sempre più critica verso il mantenimento delle truppe in Afghanistan.

Diversi sono gli esiti della recente conferenza di Londra, a cui hanno partecipato più di settanta paesi oltre ai rappresentanti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e di numerose organizzazioni non governative.

Tra dichiarazioni di intenti e progetti programmatici, è emersa la volontà di negoziare con l’insorgenza (se esiste o meno una compatta controparte “talebana”, capace di negoziare la fine delle ostilità, è un punto ancora da chiarire). In linea di massima questa nuova attitudine verso i ribelli, accompagnata da un più efficiente sforzo di ricostruzione, dovrebbe aiutare a migliorare le prospettive e la fiducia verso il futuro del paese.

Nella riunione di Londra si è anche stabilito un obiettivo preciso al centro della nuova strategia: portare lo Stato afghano all’autosufficienza, garantendo la sicurezza necessaria al pieno esercizio della sovranità su tutto il territorio. Altrettanta chiarezza è stata fatta circa gli strumenti ed i tempi in funzione di tale meta: sviluppo economico, sicurezza e buon governo dovrebbero permettere, nel giro di circa diciotto mesi, il passaggio di consegne dalla coalizione a guida statunitense al Governo afghano.

Il vertice ha anche assolto la sentita esigenza di rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa il maggiore peso del personale civile schierato. In tal senso tutti i dirigenti della compagine transatlantica hanno enfatizzato la designazione di Mark Sedwill alla carica di rappresentante civile della Nato a Kabul.

Agli occhi del primo ministro Gordon Brown il contributo militare deve essere armonizzato con la necessità di sviluppo economico ed il perfezionamento del sistema e delle pratiche di governo. Il rappresentante del Regno Unito ha anche espresso un’opinione favorevole al programma di pacificazione, tendente a risanare il tessuto della società afghana, proposto dal presidente Karzai. Tale programma si articola in una fase di reintegrazione, che si rivolge ai combattenti più giovani e meno indottrinati su cui l’offerta di un’alternativa economica può ancora fare presa, e in una fase di riconciliazione, che mira a coinvolgere i piani alti dell’insorgenza in un delicato processo di negoziazione politica.

Inoltre ha trovato accoglimento l’idea, da tempo ventilata dal Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, che incoraggia i governi del Patto Atlantico a concentrare gli sforzi sull’addestramento dei servizi di sicurezza afghani (necessaria premessa al disimpegno delle truppe NATO). Infatti, sono state incrementate le forze militari in Afghanistan di 39.000 unità (per tre quarti contributo USA) che saranno impiegate soprattutto per l’addestramento dei locali.

Nel complesso gli sviluppi della Conferenza possono essere visti positivamente, specie se si vuole dar peso, oltre che ai provvedimenti reali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e diversi creditori hanno accordato allo Stato afghano l’annullamento di debiti ammontanti a 1,6 miliardi di dollari), ai buoni propositi enunciati dal presidente Karzai di combattere la dilagante corruzione.

Se i segnali di apertura verso la negoziazione con i Talebani siano da interpretare come implicito fallimento della strategia fin qui adottata nella campagna d’Afghanistan oppure siano il primo passo di una vera e propria exit strategy, è questione dal peso relativo se si valuta lo scenario da una prospettiva più ampia.

Ciò che conta è che nel disegno “occidentale” di stabilizzazione dell’Afghanistan continua a far difetto la partecipazione di attori regionali il cui contributo sembrerebbe imprescindibile nella definizione di un equilibrio geopolitico di lungo periodo. Persino la più superficiale delle valutazioni suggerisce che l’apporto logistico di Mosca consentirebbe un efficiente passaggio di aiuti umanitari e contingenti militari verso l’Afghanistan.

La flessibilità di Washington nei confronti della questione afghana potrebbe moltiplicare i suoi effetti se si riconoscessero come legittime le pretese degli Stati circostanti. E’ difficile nascondere che, con interessi di varia natura e con un peso politico-militare e geo-strategico ovviamente diverso, Iran, Pakistan, Russia e Cina possono rafforzare oppure far deragliare la politica occidentale in Afghanistan.

In teoria Teheran potrebbe contribuire lottando contro il traffico di narcotici lungo il vasto confine con l’Afghanistan ed offrire supporto logistico attraverso l’apertura dei porti di Chabahar e Konarak.

Nella pratica, i costi politici di un coinvolgimento della Repubblica Islamica sono troppo elevati: da un lato, sull’Amministrazione Obama grava il peso di relazioni diplomatiche colate a picco da quando l’aggressiva dialettica dell’immediato predecessore, sull’onda emotiva dei tragici eventi del 11 settembre, includeva l’Iran nel noto Asse del Male; dall’altro, entrerebbero in gioco le ambizioni nucleari e lo sviluppo del programma missilistico di Teheran su cui la comunità occidentale non sembra voler fare concessioni.

D’altra parte, il contenimento del fondamentalismo islamico non è questione di interesse esclusivo del mondo occidentale: si pensi agli effetti negativi di tale fenomeno sui rapporti tra le minoranze etnico-religiose e le autorità nella remota provincia dello Xinjiang cinese. Analogamente alla luce delle perduranti pretese della comunità cecena musulmana, la Russia sarebbe senz’altro interessata alla costruzione di uno Stato afghano stabile e dalla dirigenza moderata.

È evidente che sulle potenzialità di cooperazione poc’anzi accennate grava tutto il peso di interessi parziali e delle rivalità tra le potenze in campo. Non si può infatti trascurare né il valore dell’Asia Centrale quale fonte di materie prime, risorse minerarie ed energetiche (si consideri a tal riguardo i massicci investimenti cinesi per l’estrazione del rame nell’area di Aynak a soli trenta chilometri da Kabul) né il significato strategico della regione agli occhi degli attori globali desiderosi di assicurarsi il dominio fisico o l’influenza politica in quella porzione del pianeta.

Tale prospettiva ci rende quantomeno consapevoli degli ostacoli frapposti al raggiungimento di una stabilizzazione a lungo termine in Asia Centrale, laddove si voglia isolare la realtà afghana dal contesto che la circonda e dai portatori di interessi che bisognerebbe coinvolgere, anche a costo di dover ridimensionare le proprie aspettative, in cambio dell’appoggio necessario ad un equilibrio più duraturo.

* Daniel Angelucci si occupa di relazioni transatlantiche per il sito di “Eurasia”


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